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qui a lato: San Pedro Poveda Castroverde (1874-1936), sacerdote diocesano e martire
Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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Preparazione alla morte
IL «DIES IRAE» DEL SACERDOTE
Confidenza fondata sul metodo del Giudice
Qui Mariam absolvisti. Et latronem exaudisti. Mihi quoque spem dedisti
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Viene la morte, o mio Dio! Ogni giorno più si avanza... e io lo dimentico! Il condannato alla pena capitale può mai distogliere il pensiero da quel sinistro momento? E' difficile! Ad ogni modo egli tutto predispone per essere pronto quando lo si avvertirà che l'ora fatale è per lui arrivata.
Sarò avvertito? E' poco probabile! Anzitutto posso morire improvvisamente. E se anche sarò avvisato, crederò io a chi mi userà tanta carità? Non posso esserne certo; l'esperienza m'insegna che nessuno più del morente conserva, in apparenza almeno, un'illusione più profonda, un desiderio più acceso di vita, proprio nel momento in cui questa vien meno.
Eppure conosco la solenne gravità di quest'ultimo atto della mia esistenza che mi getterà ai vostri piedi giovane, ardente, forte della giovinezza dell'eternità. Nessuna illusione allora, ma la piena luce; nessun desiderio, ma la realtà definitiva determinata appunto dalla luce.
Che sarà di me? Ho un bel nascondermi a me stesso... il ricordo di quel periodo della mia vita, di quello stato dell'anima mia, si rinnova incessantemente e non posso negare la verità: Est, est; non, non! Un peccato è un peccato! E tutti quelli che ho commesso sì precipiteranno su di me per trascinarmi nell’ abisso.
Voi stesso, mio Gesù, me li ricorderete e vi troverete il motivo della mia condanna.
Vi supplico, Maestro adorato, vogliate piuttosto vedervi l'argomento della mia giustificazione. Non ha scritto S. Francesco di Sales: «Dio vuole che la miseria nostra sia il trono della sua misericordia; le nostre impotenze, sede della sua onnipotenza?» Voglio dunque dirvi allora quello che vi dico in questo momento, voglio vincervi con le armi che Voi stesso mi ponete tra mano.
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qui a lato: San Giuseppe Marello (1844-1895)
Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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Esame sulla discrezione
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Vi adoro, mio Dio, nel silenzio della vostra eternità che sembra avvolgere tutto quanto deriva da Voi, tutto ciò che è Voi. L'Ostia consacrata che vi cela al mio sguardo è silenziosa; silenziose sono le manifestazioni intime della vostra grazia; silenziosa l'azione del vostro Spirito nell'anima mia che non sa percepire i «gemiti inenarrabili» di cui parla S. Paolo; silenziosa la vostra attività universale... non in commotione Dominus (3 Reg. 19, 11).
Saper tacere è grande sapienza: Verba sapientium audiuntur in silentio (Eccl. 9, 17), nel silenzio di parole e nel silenzio di azione.
Virtù preziosa per un prete è certamente la discrezione. E' una forma delicata o un frutto prezioso della temperanza che io devo desiderare con ardore. Voglio formarla in me e per riuscirvi con più viva luce, quindi con maggiore sicurezza, voglio investigare che cosa mi manca per essere discreto, dopo essermi convinto della necessità di esserlo.
I. Necessità della discrezione. - La discrezione può definirsi: giudizioso riserbo di parole e di azioni. Sono convinto che le più splendide qualità degenerano in difetto quando eccedono? «Chi non sa limitarsi, non seppe mai scrivere». Si potrebbe aggiungere: «Chi non sa tacere, non seppe mai parlare; chi non sa riposare non seppe mai lavorare». — Rifletto che a una viva intelligenza, a uno spirito ben dotato è da preferirsi un giudizio retto, una volontà equilibrata? — Sono quindi convinto di dover anzitutto applicarmi all'educazione del mio giudizio? E' sempre possibile se, con la riflessione, mi rendo conto degli ammaestramenti dell'esperienza, e se, umile, seguo docilmente le direttive che possono darmi. Si può nascere senza le facoltà intellettuali sufficienti per diventare colto ed erudito; dipende però dalla nostra libertà riflettere ed essere umili. — Nelle mie intime decisioni mi attengo a questi aforismi che posso riguardare come assiomi: spesso l'ottimo è nemico del bene; — il timore di un male ne genera uno peggiore? — Nelle dispute di scuola, adotto opinioni moderate, diffidando sempre delle opinioni estreme, assolute, intransigenti? Sono persuaso che, salvo per i principi essenziali del dogma e della morale, possono esservi sfumature molteplici di apprezzamento, per il fatto che si considerano le cose sotto differenti punti di vista e che è quindi da savio il non mai sentenziare senza appello? — Specialmente nel dirigere le coscienze ho l'intima convinzione che la prudenza è fonte di sicurezza, che le vie battute non riservano alcuna sorpresa, che saper aspettare è grande sapienza? In merito a certi argomenti, come vocazione, penitenze di supererogazione, ecc. procuro d'essere discreto quant'è possibile?
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qui a lato: San José María de Yermo y Parres (1851-1904), presbitero
Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI AGOSTO
IL SACERDOTE E LA TEMPERANZA
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Le virtù morali stabilendo l'equilibrio nell’anima, la mettono in grado di sviluppare la sua vita in tutta la sua pienezza e fecondità.
Come già le tre prime, cosi quest'ultima virtù cardinale tende a tale scopo, ma in modo più speciale, consistente nel neutralizzare l'opposizione, nell'impedire l'effetto delle forze contrarie.
La temperanza domina le passioni più perfide, perché più aderenti al senso, e le disciplina vigorosamente.
La S. Scrittura la tiene perciò in particolare stima. E' compagna della scienza: Qui diligit disciplinam, diligit scientiam (Prov. 12, 1); apporta sapienza; Audite disciplinam et estote sapientes (Ps. 8, 33); genera vita: Via vitae custodienti disciplinam (Prov. 10, 17); la si può identificare, in un certo senso, con la vita stessa: Tene disciplinam, custodi illam, ipsa est vita tua (Prov. 4, 13).
Il suo nome di temperanza è tutto un programma. Non dice forse giusto mezzo, esatta misura, padronanza di sé, fortezza?
Si tratta quindi di una virtù ricca e preziosa.
Vediamo l°: che cos'è; 2°: che cosa produce.
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qui a lato: San Cristóbal Magallanes Jara (1869-1927), presbitero e martire
Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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Preparazione alla morte
IL «DIES IRAE» DEL SACERDOTE
Purificazione e perdono anticipati.
Juste Judex ultionis - Donum fac remissionis - Ante diem rationis.
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Vi adoro, o Gesù, Giudice sovrano dei vivi e dei morti. Ogni ora della mia esistenza mi avvicina a quella in cui comparirò dinanzi a Voi. In quel momento cesserà il vostro compito di avvocato in favore di chi ha peccato; Voi lo adempite solo mentre sono in via; dopo mi sarete juste Judex ultionis.
Giudice! lo siete per diritto conferitovi dal Padre: Omne judicium dedit Filio (Ioan. 5, 22), e poi per diritto acquisito con l'effusione del vostro Sangue prezioso, prezzo del nostro riscatto.
Giusto! Siete la perfezione infinita, la luce senz'ombra, la scienza assoluta; la vostra sentenza sarà un raggio del vostro infallibile e indefettibile splendore, una conclusione necessaria della vostra scienza eterna.
Vendicatore! Ahi! dovrete esserlo perché non v'è pur un'anima che non sia stata più o meno lontana da Dio o contro di Lui: In multis offendimus omnes (Jacob. 3 ,2). E' Voi siete e sarete sempre vindice della sua gloria ad extra, perciò dovete vendicare i suoi diritti conculcati, punire il colpevole e ristabilire l'ordine.
Ma quale sventura, quale spavento se, per me, quest'ordine non sarà stato ristabilito prima del giorno della irrevocabile sentenza! Ve ne supplico, mentre il vostro intervento può essere per me difesa e non accusa; il Padre vostro non vi ha confidato solo la sua giustizia: Omnia dedit et in manus (Ioan. 13 3); siete arbitro del suo perdono, della sua misericordia; oh, rendetemela propizia, accordatemi la remissione delle mie colpe troppo numerose e troppo gravi! Donum fac remissionis.
Per grazia vostra io posso purificarmi prima, espiare, riparare, e ottenere così il perdono, senza il quale non potrei vivere tranquillo, non potrei essere in pace, ante diem rationis. Ah Signore, concedetemi di saldare il mio debito prima della definitiva scadenza; ch'io lo paghi con moneta di penitenza e d'amore! Aspetto tanta grazia dal Vostro Cuore divino e so ch'Egli si arrenderà facilmente alla mia preghiera, se vedrà nel mio disposizioni d'umile pentimento, di dolorosa confusione: Cor contritum et humiliatum non despicies! (Ps. 50, 18). Ascoltatemi, rivolgetemi il vostro sguardo: sono sincero!
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qui a lato: San Giovanni Calabria (1873-1954)
Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI LUGLIO
IL SACERDOTE E LA FORTEZZA
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Alla fine della sua dimora visibile su questa terra, Gesù rivolse ai suoi Apostoli le ultime raccomandazioni, aprì le loro menti, dice S. Luca, perché avessero chiara l'intelligenza della S. Scrittura e se ne facessero gli strenui difensori. Ma, prima che si separassero per la loro missione s'imponeva una precauzione necessaria; perciò disse loro: Vos autem sedete in civitate, quadusque induamini virtute ex alto (Luc. 24, 49). Volle dunque rivestirli di fortezza. Era un bisogno della sollecitudine del suo Cuore, che, sapendo tutto, non aveva potuto nascondere loro quanto li attendeva: Ecce ego mitto vos sicut agnos inter lupos (Luc. 10, 3). — Si me persecuti sunt et vos persequentur (loan. 15, 20). Aveva perciò moltiplicati i consigli sullo stesso argomento: Nolite timere eos qui occidunt corpus (Luc. 10, 28). — Confluite ego vici mundum (Ioan. 16, 33). — Non turbetur cor vestrum neque formidet (id. 14, 27). — Qui perseveraverit usque in finem hic salvus erit (Mat. 10, 22).Appare dunque chiara la sua volontà che i sacerdoti siano dei forti. Ne hanno immenso bisogno per sé e per il gregge loro affidato.
Ogni anima umana deve vivere di sforzo; il contendite intrare per angustam portam (Luc. 13, 24) è assoluto; ma quanto è più alta la meta cui si deve tendere, più lo sforzo dev'essere vigoroso, più gagliarda l'energia. Ora, chi deve elevarsi a perfezione più grande di quella cui deve tendere l'uomo di Dio, colui che dev'essere excelsior coelis factus? (Hebr. 7, 26). Gli è dunque necessaria una fortezza superiore.
Di più egli deve trascinare gli altri nella corsa santa, incoraggiarli, portarli qualche volta; poi deve difenderli e difendere se stesso mentre lavora per loro; poiché s'egli è angelo di luce, vi è un angelo delle tenebre che non disarma mai; s'egli è pastore, v'è un lupo rapace che s'aggira instancabile. L'esperienza gli grida in modo imperativo con S. Pietro: Cui resistite, fortes in fide! (1 Petr. 5, 9).
Esaminiamo tutto lo svolgimento della nostra vita morale e della nostra vita apostolica, e riscontreremo che sempre la lotta è necessaria. Nulla si conclude senza sforzo, eccetto il male; in noi e per le anime il bene esige un'incessante attività instancabile. Si guadagna un tratto di terreno a stento, e subito convien difendere la posizione; e se si perde cento volte, cento, volte la si deve riconquistare. Oh, quanto ha bisogno di fortezza l'homo Dei! Lo Spirito Santo parla certo del prete, ne dipinge i lineamenti quando scrive: Vir sapiens fortis est; et vir doctus robustus et validus (Prov. 24, 5). Gli eletti al sacerdozio sono inclyti Israel, quindi devono essere aquìlis velociores, leonibus fortiores (2 Reg. 1, 23).
Meditiamo sulla virtù della fortezza; formiamoci chiaro concetto di ciò che è, di ciò che produce.
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qui a lato: San Marcellin Joseph Benoît Champagnat (1789-1840)
Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI GIUGNO
IL SACERDOTE E LA GIUSTIZIA
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Esame sulla rettitudine dell'animo
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Vi adoro Gesù e vi ascolto mentre vi proclamate Vita e Verità, poiché la verità è vita, e nell'atto d'invitare specialmente i vostri sacerdoti ad attingere a questa verità-vita: Qui sequitur me habebit lumen vitae (Ioan., 8, 12). In virtù della mia vocazione devo seguirvi: sequere me; quindi secondo il vostro desiderio debbo essere tutto luce e verità: ut filii lucis sitis (id., 12, 36). Non eravate preoccupato di questa disposizione dell'anima sacerdotale quando, nella sera della prima ordinazione, pregiavate il Padre: Sanctifica eos in veritate? (id., 17, 17). Ciò mi fa comprendere la somma importanza di tale disposizione: può anche significare che essa non è frequente. Signore voglio l'anima mia retta, la voglio leale con Voi, con me, con il prossimo.
1. - LEALE CON DIO
La sincerità con Dio richiede:
a) Dignitosa coscienza. — E' pura la mia coscienza? Sì, se nella conoscenza e nella confessione delle mie colpe, nel pentimento che le cancella, è di una lealtà assoluta. — E' buona? Sì, se esclude quella casistica di mala fede, la quale tenta invano di persuadere che un atto colpevole non lo è, o lo è solo leggermente. — E' aperta? Sì, se docilmente generosa si presta alle illustrazioni della grazia. — E' delicata? Sì, se la minima colpa, la minima imperfezione la turba e la contrista.
b) Purezza d'intenzione. — Siete Voi, mio Dio, l'oggetto dei miei sospiri, la meta dei miei desideri? Siete Voi l'unico ispiratore dei miei progetti, la luce dei miei giudizi? La mia volontà tende direttamente a Voi, senza deviare nè a destra nè a sinistra? — Sono persuaso che nulla posso nascondere a Voi: Omnia nuda et aperta sunt oculis ejus (Hebr., 4, 13), che nulla posso sottrarvi? Gloriam meam alteri non dabo (Isai., 42, 8); e che in ultimo vincerete Voi: Quo ibo a Spiritu tuo et quo a facie tua fugiam... tu illic es? (Ps., 138, 6).
2. - LEALE CON ME STESSO
a) Umiltà. — Mi guardo dall'orgoglio della mente, che impedisce di veder chiaro nel proprio interno? Arrogantia tua decepit te, et superbia cordis tui! (Ierem., 49, 16). L'abitudine dì curare più l'esterno che l'interno non mi illude forse, accecandomi sulla bassezza di quel progetto, sul pericolo di certi sentimenti, sulla colpevolezza di certe inclinazioni? Il mio spirito sarebbe forse simile a quello del fariseo, facile ad esaltarsi per certe pretese qualità? Sarei mai un sepolcro imbiancato? Una meschina preoccupazione egoistica non mi rende sordo alla voce dell'Angelo buono, che già mi sussurra: Nomen habes quod vivas et mortuus es? (Apoc, 3, 1). E la mia stoltezza non mi spinge mai a voler apparire quale non sono?
b) Mortificazione. — Scuso le mie piccole sensualità, nascondendole agli sguardi altrui con tutta la possibile cura, perché sono in contrasto stridente con le mie parole, con i principi che enuncio, e secondo i quali ostento di vivere? — Mi permetto certe affezioni disordinate, che macchiano il candore verginale del mio suddiaconato e profanano i miei più sacri giuramenti? — Nutro forse, quasi senza rimorso, certe antipatie senza accorgermi dell'ironia della mia preghiera: Sicut et nos dimittimus? — Posso veramente dire di non lesinare lo sforzo per il conseguimento della mia santificazione, e per l'esercizio dello zelo, come richiede il vero spirito sacerdotale? — Oh, quanto è facile mancare di lealtà con se stessi!
3. - LEALE CON IL PROSSIMO
a) Nelle parole. — Mi astengo assolutamente, rigorosamente da ogni specie di menzogna? Alcuni mentiscono senza quasi avvedersene. Chi li avvicina se ne accorge e li ha in dispregio. E' facile contrarre l'abitudine della menzogna, soprattutto quando si ha tendenza all'iperbole... Si finisce per suggestionarsi, si cade nella mitomania. — Non ostento mai con insistenza sentimenti che non ho, per piacere a coloro che m'ascoltano? E non è questa ipocrisia? — Non mi valgo di restrizioni mentali che rasentano l'inganno?
b) Negli atti. — II mio comportamento è proprio sempre l'espressione del mio sentire, o cado nella simulazione? Col pretesto di usare diplomazia, offendo mica l'onestà? — Certi modi di procedere che io ritengo frutto di abilità, non sono invece sleali? — Affetto una mentita apparenza anche in chiesa? — Sono convinto che alle mie azioni come alle mie parole, pur salvando sempre la carità, deve potersi applicare la parola del Signore: Sit autem sermo vester: est, est, non, non? (Mat. 5, 37).
— Buon Maestro, ve ne scongiuro, fatemi leale; fate che l'anima mia sia retta in tutto e per tutto, che sia tutta aperta al sole della vostra verità. Volete servirvene come di tramite per giungere alle anime dei miei fratelli; il Precursore dice a me, come a tutti ì sacerdoti: Parate viam Domini, rectas facite semitas ejus (Mat., 3, 3). Preparate Voi stesso, Signore, raddrizzate Voi stesso; io voglio prestarmi alla vostra azione generatrice di verità, voglio essere leale, salvarmi: Veritas liberabit vos (Ioan., 8, 32).
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qui a lato: San Jean Gabriel Perboyre (1802-1840), presbitero e martire
Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI GIUGNO
IL SACERDOTE E LA GIUSTIZIA
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La S. Scrittura magnifica poche virtù quanto la giustizia, ne parla con frequenza e la esalta in maniera notevole. Si può dedurre a priori che questa è la più grande delle virtù morali. Così pensava già Aristotele: Justitia est omnis virtus; questa meditazione ce ne convincerà indubbiamente.
Diamo una rapida scorsa alle pagine dei libri santi; esse esaltano anzitutto la bellezza della giustizia: Iustitia tua sicut montes Dei! (Ps., 35, 6). — Justitia et judiciuvi correctio sedis tuae! (Ps. 96, 2). — Mecum sunt... gloria, opes superbae et iustitia (Prov., 8, 18).
Poi ne rivelano la celeste origine: Veritas de terra orta est et justitia de coelo prospexit (Ps. 84, 12); la sua identità con quanto è bello e buono: Misericordia et veritas obviaverunt sibi; justitia et pax osculatae sunt (Ps., 84, 11); la sua efficacia purificatrice: justitia liberabit a morte, justitia rectorum liberabit eos (Prov., 11, 6); il suo potere santificatore: iustitia simplicis diriget viam ejus (Prov., 11,5) — justitia elevat gentes; le sue affinità con la beatitudine suprema: justitia enim perpetua est et immortalis (Sap., 1, 15) — justitia mea in generationes generationum (Isai. 31, 9).
Perciò chi la possiede è ricco: Iustus ut palma florebìt, sicut cedrus Libani multiplicabitur (Ps. 91, 13); può ripromettersi ogni contento: laetabitur justus in Domino (Ps., 13, 10); è sicuro della sua eterna salvezza: justus in aeternum non commovebitur (Prov., 10, 30); lascerà sul suo passaggio una scia luminosa: in memoria aeterna erit justus (Ps. Ili, 6).
Il Vangelo fa di S. Giuseppe e del santo vecchio Simeone il più bel panegirico in una sola parola; del primo afferma: Joseph, vir ejus, cum esset justus (Mat., 1, 19); e del secondo: et homo iste justus et timoratus (Lue, 2, 25). S. Paolo trova in questa parola il programma riassuntivo di tutta la santità: Non est enim regnum Dei esca et potus, sed justitia, et pax, et gaudium in Spiritu Sancto (Rom., 14 17). Meditiamo dunque: 1) che cos'è la giustizia; 2) qual'è il suo oggetto.
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qui a lato: San Marco Krievčanin (1588-1619) e compagni, presbiteri e martiri croati del calvinismo
Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI MAGGIO
IL SACERDOTE E LA PRUDENZA
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Esame sul dominio di sè
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Vi adoro, Gesù, nell'atto di raccomandarmi il dominio di me stesso: In patientia vestra oossidebitis animas vestras (Luc. 21, 19). Secondo S. Giacomo è questo un principio di perfezione: Patientia autem opus perfectum hebet (Iacob., 1, 4). L'uomo padrone di se stesso, possiede un'incontestabile superiorità su chi vive in balia dell'emozione e dell'impressione. Egli usa liberamente delle sue facoltà, delle sue potenze e con tutto il profitto possibile. Sa che il temperamento ha molta influenza in questo, ma sa pure che lo sforzo della volontà supplisce a tutto. E lo deve supplire nel prete, uomo votato alla perfezione e che ha bisogno di mantenersi superiore a tutti: Oportet sacerdotem praeesse; superiore in virtù, in fortezza, in potere influente. Importa dunque assai ch'io sappia dominare me stesso e che rifletta sui mezzi per ottenere tale dominio.
1. - SO DOMINARE ME STESSO?
Chi è padrone di sè non ignora ciò che deve volere e come deve volerlo; vuole ciò che deve, come lo deve. Sono abituato a riflettere prima di parlare o di agire? O, invece, impulsivo, facile all' emozione, o sensibile, impressionabile, seguo il primo impeto senza calcolare l'importanza di quanto faccio o dico? Quante volte forse ho avuto motivo di pentirmi di una parola troppo viva, di un modo di procedere compromettente, di un atto disastroso nelle sue conseguenze. Vi sono pagine che non si riuscirà mai a strappare dal libro, in cui non si vorrebbero scritte per tutto l'oro del mondo. Bisognava non scriverle! Si mancò di gravità, di ponderazione, di serietà, e le conseguenze furono irreparabili.
Sarei forse soggetto a frequenti alterazioni d'umore, allegro al mattino, triste la sera, senza quasi saperne il motivo? Faccio subire a quanti m'avvicinano le bizzarrie del mio carattere indisciplinato?
Sono variabile nei giudizi e negli apprezzamenti, dicendo successivamente bene e male dello stesso fatto, con una rapidità che non lascia tempo di formulare un apprezzamento sicuro?
Forse devo rimproverarmi d'incostanza nel mio modo di fare, di volubilità dì animo, perchè seguo senza riflettere i capricci della fantasia, cui non so porre alcun freno?
Sono irascibile, adirandomi per inezie, gridando, tempestando per la minima contrarietà?
Nelle discussioni alzo troppo la voce, perché non la so contenere in quel tono moderato che è sempre segno di fortezza, se pure non è contrassegno della verità di un'opinione?
Non ho mai sentito dire di me che manco di tatto, d opportunità, di moderazione?
Ah, mio Dio, è davvero gran debolezza, grave disgrazia non saper dominare se stessi!
2. COME DOMINARMI
Buon Maestro, avete detto che il mezzo per dominarmi è la pazienza. Se il vostro Apostolo insegna che la pazienza corona l'opera della perfezione, vuoi dire che tale virtù ne suppone molte altre le quali, in maggioranza, derivano dalla mortificazione.
So mortificare il mio amor proprio senza badare alle suscettibilità, alle gelosie e ambizioni? Mortifico il mio cuore diffidando sempre delle simpatie o antipatie istintive, che orpellando perfidamente le pretese di vile e pericolosa passione? Come mortifico la volontà nei suoi primi moti, nei suoi desideri troppo ardenti, nelle sue impazienze? So mortificare la fantasia, allontanando i ricordi troppo impressionanti, restringendo energicamente il campo dell'immaginazione, sforzandomi di pensare più al presente che all'avvenire? Mortifico la mia attività con fare ogni cosa a tempo debito, e la smania di finire prima ancora d'aver cominciato?
Trascurare uno di questi punti equivarrebbe a rendere impossibile il dominio su me stesso, e vano tutto il mio ministero pastorale. Potrà governare altri e guidarli chi non sa dominare se stesso? Si vedono preti di valore, riuscire sgraditi, insopportabili ai loro parrocchiani, i quali segretamente — o palesemente — sospirano la loro partenza. Perchè? Vittime del loro carattere di cui non hanno saputo valersi per la virtù, si sono alienati la maggioranza dei fedeli, mentre con un po' di discrezione e di tatto sarebbero riusciti a farsi docilmente seguire da una bella, generosa e affettuosa famiglia spirituale.
E per riassumere tutto in breve, sono convinto che l'umiltà è la disposizione più intelligente, la migliore abilità per il vero apostolo? Comprendo il profondo significato del novissimi vrimi del Vangelo? Lo stolto non è mai umile. 1 ignorante non è mai silenzioso, il debole non è mai moderato; soltanto chi è umile, chi è silenzioso, chi è moderato sa possedere se stesso, è saggio davvero.
— Signore, vi supplico di concedermi la grazia preziosa di comprendere bene la lezione del vostro Cuore: Discite a me quia mitis sum et humilis corde, et invenietis requiem animabus vestris (Mat. 11, 29). Seguendo questa luci troverò il segreto della vittoria su me stesso. Me beato se, innalzandomi sulle rovine del mio egoismo e delle sue tendenze immortificate. potrò dire con S. Paolo: ***** infirmor, tunc potens sum (2 Cor, 12, 10).
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qui a lato: San Giovanni Sarkander (1576-1620), presbitero e martire
Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI MAGGIO
IL SACERDOTE E LA PRUDENZA
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Ben a ragione si applicano al sacerdote le parole di S. Paolo: Ex hominibus assumptus, pro hominibus constituitur (Hebr. 5, 1). La prima parola può suggerire riflessioni un po speciali, ma utilissime. Ex hominibus: per fare un prete è necessario un uomo, e siccome il prete è un essere superiore, occorre che in lui l'uomo sia perfetto il più possibile.
Ma la perfezione puramente umana esige un insieme equilibrato ed equilibrante di virtù, delle quali forse non si tiene conto abbastanza: sono le virtù naturali.
Tornerà più facile e attraente il coltivarle, innalzandole all'ordine soprannaturale nel loro principio, nel loro motivo, nel loro fine. Se, invece della ragione, si considera quale principio Dio; se invece d'agire per motivo d'interesse, sia pure delicato e nobile, si segue l'impulso della fede; se, invece di proporsi la soddisfazione di un istinto anche nobile, si mira alla gloria di Dio e alla propria salvezza le azioni si trasfigurano e si praticano le virtù morali cristiane, le quali tendono direttamente a regolare i costumi o la condotta secondo le massime del Vangelo.
Prima fra queste, è la grande virtù di religione, che noi abbiamo meditata in primo luogo perchè essa è come la linfa vitale di tutte le altre virtù. Vengono poi le quattro virtù cardinali, cardine cioè, sostegno della vita cristiana, e prima fra tutte la prudenza.
Il primo libro dei Maccabei fa un'osservazione suggestiva: In die illa ceciderunt sacerdotes in bello, dum volunt fortiter lacere, dum sine consilio exeunt in praelium (1 Mac. 5, 67).
Chi saprebbe dire quante volte la mancanza di prudenza ha reso vano il buon volere, sterile lo sforzo generoso, compromesso situazioni ottime?
La prudenza invece supplisce a molte deficienze e vai certo meglio dell'abilità, perchè l'abilità non è sempre compagna della rettitudine, qualità rara e pur sola capace d'attirare le divine compiacenze e il favore degli uomini. Dio infatti benedice la verità: veritas liberabit vos; gli uomini diffidano dell'abilità e facilmente la prendono per astuzia.
Noi comprendiamo facilmente perché il Maestro ci raccomanda in modo speciale la prudenza: Estote ergo prudentes sicut serpentes (Mat. 10, 15). Ed è cosa, tanto più degna di rilievo, in quanto non sono molte le virtù che Egli ci ha raccomandate come a noi proprie in modo particolare; il sacerdote che deve formare i suoi fratelli non è forse tenuto alla pratica di tutte le virtù?
I Proverbi dicono che la prudenza è la sapienza dell'uomo, meglio, la scienza dei santi: Sapientia autem est viro prudentia et scientia sanctorum prudentia (Prov. 10, 23).
Meditiamo dunque sulla prudenza, considerando
- cos'è,
- che cosa esige,
- che cosa fa evitare.
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Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI APRILE
IL SACERDOTE E LA CARITÀ
Esame sull'amor di Dio
Il Dies irae del sacerdote
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ESAME SULL'AMOR DI DIO
Vi adoro, buon Maestro, mentre rinnovate il precetto che compendia la Legge e i Profeti: Dilìges! La vostra vita umana ne fu la pratica perfetta, poiché del vostro amore per il Padre avete dato la prova che non ammette confronto: la morte.
Devo soprattutto votarmi alla pratica di questo grave precetto. L'Atto di carità me ne indica il programma; lo voglio considerare alla luce del vostro Spirito d'amore.
I. - Mio Dio, vi amo con tutto il cuore. — Ecco l'assolutismo dell'amore di Dio che impegna tutto l'essere umano.
Amo Dio con volontà convinta e sincera? Ho mai confuso le emozioni della sensibilità, le impressioni del fervore con l'amore di Dio? Sono persuaso che l'amore, dono di sé, richiede sacrificio? Misuro la mia fedeltà a Dio dal grado della rinunzia a me stesso? Ho immolato la mente con la vita di fede, il cuore con il distacco da ogni cosa, la volontà con generosa obbedienza, il corpo con la mortificazione? Mi guardo dalle illusioni che tollerano riserve nell'amore, per sacrificare invece all'orgoglio o al senso?
II. - Sopra ogni cosa. — Ecco l'esclusività dell'amore di Dio che vuol essere amato solo; è geloso della sua gloria.
Ho forse lasciato nel mio cuore libero adito ad ogni sorta d'affetti sensibili, naturali e perfino sensuali? Mi turba mai la preoccupazione immoderata per coloro che il dovere m'impone d'amare, come i parenti e i benefattori? Per causa loro, ho forse compiuto qualche volta meno bene i miei doveri individuali o pastorali? Coltivo amicizie, e sopra tutto amicizie femminili che mi espongono al pericolo di peccare e destano ammirazione e scandalo? In proposito, sotto pretesto d'indipendenza ho mai sfidato stoltamente l'opinione pubblica? Oso imporre sistematicamente silenzio alla coscienza quando mi rimorde su questo punto delicato? Le mie relazioni hanno tutte un motivo divino?
Sono generoso con Dio nella prova come nella gioia, nell'umiliazione come nel trionfo? Sono regolare e fedele nelle ore di aridità spirituale, non sottraendo nulla alle mie pratiche di pietà? Non mi sono stancato mai nelle tentazioni, scoraggiato nelle avversità, rinunciando a continuare il lavoro intrapreso? In una parola, cerco di vedere Dio in tutto?
III. - Perchè siete infinitamente buono. — I motivi che l'ispirano specificano l'amore di Dio. L'amore iniziale è l'amore di speranza.
Ho amato Dio con fiducia? Ho compreso che non si può vivere senza speranza, che, pretendere d'andare a Dio senza nulla aspettare da Lui, è stolto orgoglio? Ho invece sollevato la mia volontà sopra se stessa nel pensiero dei beni eterni? Nonostante le mie colpe non ho mai dubitato della misericordia divina? Non ostante le prove, per quanto aspre, ho sempre creduto fermamente alla bontà di Dio per me? Nell'ora del pericolo ricorro istintivamente alla paternità di Dio.
IV. - Infinitamente amabile. — All'amore di speranza segue l'amore di compiacenza, che aderisce a Dio a motivo delle sue perfezioni.
Mi applico alla contemplazione delle perfezioni di Dio con la meditazione, con la lettura degli scritti dei Santi; nelle creature vedo il riflesso della bellezza, della bontà del Creatore? Mi guardo dalle volgarità e banalità che restringono l'orizzonte, per mantenermi in un'atmosfera ideale, pura, santa, compiacendomi di tutto quanto mi parla di Dio e mi accosta a Lui? Ho fatto sempre i sacrifici necessari per non omettere le mie pratiche di pietà, che mi fanno vivere nel soprannaturale?
V. - Amo il mio prossimo come me stesso per amor vostro. — Dopo l'amore di compiacenza, l'amore di benevolenza che vuole il bene dell’amato; il bene di Dio è la sua gloria nella salvezza delle anime.
Sono cosciente dell'obbligo di carità che m'incombe riguardo al prossimo? Evito solerte quanto potrebbe offendere chicchessia, ciò che sarebbe grave, specialmente per un prete? I peccati che si commettono con la lingua sono molti e pericolosi; facilmente intaccano la giustizia e possono compromettere il nostro ministero privandolo della fiducia dei fedeli, irritando le persone offese dal nostro parlare inconsiderato e malevolo. Vigilo sui miei giudizi da cui procedono le parole, studiandomi di pensar bene di tutti?
Ho vero zelo per la felicità eterna delle anime che mi sono affidate, dedicando tutte le mie energie all'apostolato, alla mortificazione, alla preghiera, non rassegnandomi mai ad una quiete stazionaria, che in nessun modo può essere scusato?
— Signore, faccio mia la supplica di S. Margherita-Maria e vi prego con tutto l'animo: «O Cuore ardente e vivente d'amore, o santuario della divinità, tempio della Maestà sovrana, altare della divina carità! Cuore acceso d'amore per Dio e per me, io vi adoro, vi amo, mi struggo d'amore e venerazione alla vostra presenza! Mi unisco alle vostre sante disposizioni; voglio ardere delle vostre fiamme e vivere della vostra vita!» (20).
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qui a lato: San Muziano Maria Wiaux F.S.C.
Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI APRILE
IL SACERDOTE E LA CARITÀ
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Scrive S. Paolo al Corinti: Nunc autem manent fides, spes, charitas, tria haec: mator autem horum est charitas (I, 13, 13).
Lo stesso Apostolo in una commovente preghiera che può essere applicata in modo particolare ai sacerdoti, implora da Dio per i cristiani di Efeso il passaggio dalla fede a un'ardente carità: Ut det vobis secundum divitias gloriae suae... Christum habitare per fidem in cordibus vestris: in charitate radicati et fundati, ... scire etiam supereminentem scientiae charitatem Christi, ut impleamini in omnem plenitudinem Dei (Eph., 3, 16-19).
E' facile stabilire il primato della carità ricordando che Gesù ce la presenta come oggetto del primo e massimo comandamento, che compendia tutta la legge e i profeti; poi riflettendo ch'essa innalza l'uomo a Dio. non perché ne tragga vantaggio, ma affinché riposi in Lui Senza dubbio la carità ci unisce a Dio infinitamente buono e infinitamente amabile, ma per spronarci ad amarlo per Se stesso secondo la bella espressione di S. Bernardo: «Il motivo d'amare Dio è Dio stesso, la misura di amarlo è d'amarlo senza misura» (16).
L'argomentazione di S. Tommaso in proposito è d'una chiarezza precisa: Semper id quod est per se, majus est eo quod est per aliud. Fides autem et spes attingunt quidem Deum secundum quod ex ipso provenit nobis vel cognitio veri vel adeptio boni; sed charitas attingit ipsum Deum, ut in ipso sistat, non ut ex eo aliquid nobis proveniat; et ideo charitas est excellentior fide et spe, et per consequens omnibus aliis virtutibus (17).
E' facile inoltre comprendere che più di ogni altro il sacerdote deve essere eminente in carità. Anzitutto perchè il suo ministero ha per fine diretto e ultimo di crearla, di difenderla, di ripararla, di dilatarla nelle anime: Dii effecti deos efficientes. I santi si formano solo colla carità, vinculum perfectionis (Colos., 3, 14); ora, nemo dat quod non habet. Il prete che non possiede una misura colma, pigiata e sovrabbondante» di carità, non riuscirà mai a comunicarne alle anime una scintilla abbastanza ardente. E' vero che egli dispone dell'efficacia ex opere operato dei sacramenti che amministra; ma questa amministrazione assorbe la minor parte dell'attività del suo apostolato. E poi, perchè i sacramenti producano effettivamente la grazia nelle anime, è necessario che queste apportino nel riceverli disposizioni speciali, dipendenti in gran parte dall'efficacia dello zelo sacerdotale. Se non si può volere per un'altra anima, si può tuttavia aiutarla a volere, e soltanto la carità comunica tale efficacia all'apostolo.
Inoltre, il prete dev'essere eminente in carità perchè, più di ogni altro, è oggetto delle divine predilezioni le quali, secondo S. Giovanni, sono il grande argomento dell'amore. Non si rileggono mai abbastanza queste parole: Deus caritas est. In hoc apparuit caritas Dei in nobis, quoniam Filium suum unigenitum misit Deus in mundum, ut vivamus per eum. In hoc est caritas, non quasi nos dilexerimus Deum, sed quoniam ipse prior dilexit. nos (I Ioan., 4, 9). Quindi l’amore antecedente di Dio, quest'amore provato con il dono del suo Figlio, ci da’ il grande motivo della carità. E fino a qual punto questo motivo s'imponga al sacerdote, ne avremo un'idea mettendo in luce i rapporti di reale e adorabile amicizia che l'uniscono a Gesù. La libera elezione, l'intimità della vita, la comunanza dei beni sono le note della vera amicizia; vediamo come si realizzano fra il sacerdote e Gesù Cristo.
1. LIBERA ELEZIONE
Non è inutile rilevare subito che la carità è anzitutto un'amicizia particolare tra l'uomo e Dio.
Comunemente si da una definizione incompleta dell'amore, dicendo che consiste nella volontà di fare del bene a qualcuno. Questo è benevolenza, e un sentimento di bontà basta a spiegarlo, benché possa essere e generalmente sia un effetto dell'amore. Ma l'amore va più oltre e sospinge l'anima all'intera donazione di sé, all'immolazione per l'amato: Ut animam suam ponat quis pro amicis suis (Ioan. 15, 13). E quando tale sentimento profondo è reciproco si ha l'amicizia. Ascoltiamo S. Tommaso: Nec benevolentia sufficit ad rationem amicitiae, sed requiritur quaedam mutua amatio, quia amicus est amico amicus. Talis autem mutua benevolentia fundatur super aliqua communicatione (18).
Ora, mediante la carità, andiamo a Dio che ci vuoi comunicare la sua beatitudine, La sua vita intima, e andiamo a Lui coll’oblazione di noi stessi ex toto corde, ex tota mente, ex totis viribus. V'è dunque un mutuo scambio che costituisce l'amicizia reale.
Però bisogna rilevare una nota speciale, che, per la sua intensità più o meno vibrata, caratterizza, accentuandolo, il sentimento di cui trattiamo: questa nota è la libertà.
Vi sono affetti imposti quale sacro dovere e non saranno mai qualificati di amicizia, benché suppongano il dono reciproco; per esempio, l'affetto filiale. Non si scelgono i propri genitori. Quindi, per quanto vivo possa essere l'impulso del cuore che ad essi ci porta, non ha a che fare con-l'impulso che ci guida all'amico di nostra elezione. In un senso verissimo e splendido, tutte le anime create da Dio nella sua indipendenza inalienabile, sono scelte da Lui: Elegit nos in ipso ante mundi constitutionem (Ephes., 1, 4). A loro volta esse son libere di andare a Lui o di dannarsi. Ma l'elezione divina del sacerdote è un elezione tutta particolare, che supera ogni altra in delicatezza, in elevatezza, perché i beni che l'amicizia di Dio vuole comunicare al suo ministro sorpassano infinitamente i beni ch'Egli destina al semplici cristiani, fossero anche santi; lo vedremo più innanzi.
Aspirare al sacerdozio vuoi dire aspirare ad una dignità regale, a funzioni sante: Vos autem genus electum, regale sacerdotium, gens sancta, populus acquisitionis, ut virtutes annuntietis ejus qui de tenebris vos vocavit in admirabile lumen suum (1 Petr. 2, 9). Ora, non si ascende ad un trono che per eredità o per elezione; diversamente, sarebbe usurparlo. L'Apostolo non eccettua da questa condizione neppure Gesù Cristo nella sua elevazione al supremo Sacerdozio: Nec quisquam sumit sibi honorem, sed qui vocatur a Deo, tanquam Aaron. Sic et Christus non semetipsum clariflcavit ut pontifex fieret; sed qui locutus est ad eum: Filius meus es tu, ego hodie genut te. Quemadmodum et in alio loco dicit: Tu es sacerdos in aeternum (Hebr. 5, 4 seq.).
Con quanta soavità penseremo dunque a queste parole che Gesù rivolge a ciascuno di noi: Non vos me elegistis, sed ego elegi vos, et posui vos ut eatis et fructum afferatis (Ioan. 15, 16). Quel nostro fratello, quel nostro amico d'infanzia non hanno ricevuto tanto privilegio. A noi, non ad essi, si applica ancora il testo: Praevenisti eum in benedictionibus dulcedinis, posuisti in capite ejus coronam de lapide pretioso (Ps. 20, 3). Eravamo nel Cuore dell'Unico Sacerdote, quando con una scelta ufficiale, creava il collegio apostolico: Elegit duodecim quos et apostolos nominavit (Luc. 6, 13). Non lo fece freddamente, ma in queste elezioni pose quanto in Lui vi poteva essere di meglio, tutte le sue tenerezze anticipate.
Questa grazia preesistente della nostra vocazione ci fu rivelata progressivamente nelle diverse tappe della nostra vita: prima Comunione forse, entrata nel Seminarlo Minore, poi nel Seminario Maggiore, ascensione ai vari gradi che precedono il sacerdozio; ed ogni manifestazione era accompagnata da una luce più viva alla nostra intelligenza, da un più caldo influsso sul nostro cuore, da più valido aiuto alla nostra volontà: Elegit eum et praeligit eum. Siamo stati scelti, separati dalla massa dei fedeli: Vos elegit Dominus ut stetis coram eo (2 Par. 9, 11).
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Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI MARZO
IL SACERDOTE E LA SPERANZA
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2. - POSSIAMO. DOBBIAMO VIVERE DI SPERANZA
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La speranza, virtù teologica, ci fa aspettare Dio stesso. che conosceremo nella luce della sua conoscenza, facie ad faciem, che ameremo nel suo proprio amore nella vita eterna.
Ma questo fine, per essere raggiunto, suppone mezzi, i quali pure formeranno l'oggetto della virtù.
V'è sempre proporzione fra mezzi e fine. Per andare a Dio è necessario l'aiuto di Dio, in altri termini, la grazia; e questo aiuto è certo.
La nostra speranza si fonda sulla parola stessa di Die, il quale, rivelandoci i suoi disegni, ci manifesta pure la sua efficace volontà di chiamarci alla beatitudine superna. Inutile insistere su questo punto; è insegnamento della fede, fondamento della nostra speranza: Universa propter semetipsum operatus est Dominus (Prov. 16, 4), l'essere intelligente, si potrebbe dire, ancor più degli altri, perché creato per Dio. come può dimostrare, e dimostra la stessa ragione, è destinato alla beatitudine infinita.
Ora di tale suo volere di beatificarci. Dio ci ha dato un pegno, e questo pegno è Nostro Signore Gesù Cristo, principio dell'ordine sopranaturale, causa efficiente, causa meritoria, causa esemplare, causa finale della grazia. E' dato a noi Colui che vede e possiede il Padre, che ne gode con eterna sazietà. E' nostro e vuole condurci al Padre, darci al Padre. Adorabile realtà, e sublime mistero! Quante volte abbiamo letto, senza comprenderle, le parole rivelate che affermano tale certezza! Parvulus natus est nobis, et Filius datus est nóbis (Isaia 9, 6). — Sic Deus dìlexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret (Ioan., 3, 16). Destinati a possedere Dio in eterno, lo possediamo fin d'ora nel tempo!
Egli si è dato a noi per associarci alla sua vita: Veni ut vitam habeant (Ioan., 10, 10). — Ego sum vita (id. 14, 6) per applicarci ì suoi meriti: Per quem maxima et pretiosa nobis promìssa donavit, ut per haec efficiamini divinae consortes naturae (2 Petr. 1, 4); ecco il centro preciso e stupendo dei mistero! S. Paolo ne parla con mirabile certezza, tutto riassumendo in questa frase concisa diretta ai Corinti: Et sicut in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivificabuntur (1 Cor. 15, 22).
Come eravamo in Adamo per la nostra rovina, così siamo in Cristo per la nostra salvezza e ciò senza interruzione, poiché Egli compì l'opera sua con tutta la sua vita, con tutti i suoi misteri. Eravamo in Lui quando si incarnava, quando nasceva, quando lavorava, soffriva, moriva, risuscitava, ascendeva al Cielo. Ecco tutta la teologia dell'Apostolo, sotto la penna del quale sovrabbondano i testi: Mortui sumus ***** Christo... (Rom., 6, 2), consepulti sumus ***** ilio... (id., 6. 4). Convivificavit nos in Christo, et conresuscitavit, et consedere fedi in coelestibus in Christo Jesu (Ephes., 2, 5).Che si potrebbe desiderare di più forte e di più soave insieme per infondere ferma speranza? Noi leggiamo ancora nella lettera agli Efesini: Dio ha fatto tutto ciò, ut stenderet in saeculis ervenientibus abundantes divitias gratiae mune in bonitate super nos in Christo Jesu. Gratia enim estis salvati per fidem; et hoc non ex nobis, Dei enim donum est (Ephes., 2, 7) Si stenta a lasciare questo capitolo. Ma no, non lasciamolo; leggiamo ancora, leggiamo sempre, meditiamo tale dottrina e viviamone; con essa dilatiamo i nostri cuori, ravviviamo le nostre anime.
Le hanno gustate i Padri che le predicavano ampiamente. Ecco S. Leone a proposito dell'Incarnazione: Verbum caro factum est, et habitavit in nobis. In nobis utique, quos sibi Verbi divinitas coaptavit, cujus caro de utero virginis sumpta nos sumus 11). E a proposito della Natività, ricordando l'insieme della dottrina: Sicut ***** Christo in Passione crucifixi in Resurrectione resuscitati, in Ascensione ad dexteram Patris collocati, ita ***** ipso sumus in hac Nativitate congeniti 12).
Ecco Tertulllano a proposito della Risurrezione: Quemadmodum enim nobis arrhabonem. Spiritus reliquit, ita et a nobis arrhabonem carnis accepit, et vexìt in coelum, pignus totius summae illuc quandoque redigendae. Securi estote, caro et sanguis, usurpastis et coelum et regnum Dei in Christo 13).
Ecco in fine S. Ambrogio parlando dell'Ascensione: Debuit tamen novo victori novum iter parari; semper enim victor tanquam maior praecelsior est: sed quia aeternae sunt iustitiae portae, eaedemque novi et veteris testamenti, quibus coelum aperitur, non mutantur utique sed elevantur: quia non unus homo, sed totus in omnium Redemptare mundus intrabat 14).
Non insistiamo più oltre, ma riflettiamo che la parola di S. Paolo: Nostra autem conversatio in coelis est (Philip., 3, 20) non è una semplice promessa, ma una realtà. La nostra vita, mihi vivere Christus est (id. 1, 21), è in Cielo. Quando Gesù vi salì glorioso volle collocare anche noi lassù insieme alla sua adorabile umanità: Vado ad Patrem meum et Patrem vestrum... parare vobis lo*****! (Ioan. 16, 38)... Ecco il grande motivo della nostra speranza; motivo ancor più forte per noi sacerdoti se pensiamo che Gesù è nostro più che d'ogni altro.
— Viviamo in alto, molto in alto! Viviamo fidenti anche se il nostro passato ci apparisse «degno di odio», anche se ci sentissimo ricoperti di peccati. Qualche cosa di noi stessi ha già preso posto in Cielo. Il mistero della nostra glorificazione ha bisogno di essere completato, ma in realtà è già cominciato. Questo basta per farci tendere la nostra volontà in uno sforzo generoso che ci permetterà di gustare, umili ma con pace, le ispirate parole che le nostre labbra pronunciano troppo spesso macchinalmente: Pars mea Dominus; propterea expectabo eum (Thren. 3, 24). — Qui confidimi in Domino, sicut mons Sion; non commovebitur in aeternum qui habitat in Jerusalem (Ps. 124,: — In te Domine speravi, non confundar in cesternum (Ps. 30, 1).
E a quest'ultima filiale protesta dell'animo nostro, Dio risponderà: Sacerdotes ejus induam it et sancii ejus exultatione exultabunt Ps 12. 17).
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Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI MARZO
IL SACERDOTE E LA SPERANZA
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La fede ci introduce nella speranza: Fides sperandarum substantia renivi (Hebr. 11, 1). L'Apostolo, che scrive queste parole, c'invita a vivere di ferma speranza: Fortissimum solatium habeamus, qui confugimus ad tenendovi propositam spera: quarti sicut anchoram habemus animae tutam ac firmavi, et incedentem usque ad interiora velaminis: ubi praecursar pro nobis introivit Jesus, secundum ordinem Melchisedech Pontifex factus in aeternum (Hebr., 6, 18 seq.).
Se osserviamo l'abituale indirizzo dei nostri pensieri, se studiamo attentamente 1 moti Istintivi del nostro cuore, constateremo che i pensieri si elevano a stento, che il cuore più che dilatarsi si restringe. Causa di ciò si è che la speranza non forma abbastanza l'oggetto delle nostre meditazioni, non ispira che debolmente i nostri sentimenti. Recitiamo, è vero, la formula, ma non ne facciamo atti frequenti: questi illuminerebbero la nostra vita, la renderebbero soave, riuscirebbero a sublimarla rendendola, secondo la bella espressione di San Lorenzo Giustiniani, quasi «la perpetua vigilia dell'eterna solennità» 8).Meditiamo dunque sul bisogno che abbiamo di vivere di speranza e che possiamo e dobbiamo praticare questa virtù.
1. - ABBIAMO BISOGNO DI VIVERE DI SPERANZA
Non si può leggere senza turbarsi la celebre sentenza di S. Giovanni Crisostomo: Non alio modo loquor, quarti ut affectus sum. Non multos puto sacerdotes salvos fieri, sed longe plures perire, non alia de causa, quam quod res magnum postulet animimi (9). E nel grande Vescovo essa non è frutto di impressione passeggera, ma piuttosto un vero assillo, perché scrive ancora: Omnium quos regis. mulierum et virorum et piterorum, a te reddenda est ratto: tanto igni caput tuum subiicis. Miror an fieri possit ut aliquis ex rectoribus sit salvus (10).
L'affermazione del libro della Sapienza (6, 6): ludicium durissimum his Qui praestint e l'affermazione stessa di Gesù: Cui multum datum est, multum quaeretur ab eo (Luc. 12, 48) non ci permettono di tacciare di esagerato quel testo cosi tremendo del santo Dottore.
E poi, se riflettiamo all'eccellenza della nostra vocazione, alla santità dei nostri ministeri, alla nostra schiacciante responsabilità, non riusciremo a tranquillizzarci, pensando specialmente alla nostra fragilità, causa di tante miserie e di tante cadute.
Quando il bambino spensierato e allegro attende al gioco, non pensa alla mamma. Ma tosto che si presenta il pericolo oh, con quale ansia a lei stende le braccia! La nostra vita è esposta inevitabilmente a molti pericoli. Per viverla nella sua pienezza, occorre una certa sicurezza, la quale può esserci infusa solo dalla speranza. Per agire con amore è necessario non credersi inesorabilmente votato all'odio. Noi abbiamo un bisogno immenso di confidenza per la nostra tranquillità e per la santificazione nostra e delle anime. Siamo sacerdoti per il solo scopo di popolare di eletti il cielo. Ora il nostro ministero si compie essenzialmente colla preghiera e col sacrifizio: Ex hominibus assumptus pro hominibus constituitur in iis quae sunt ad Deum, ut offerat dona et sacrificia pro peccatis (Hebr., 5, 1). Il nostro apostolato continua l'opera della grande mediazione del Cristo. Ma Gesù quando pregava diceva al Padre: Ego autem sciebam quia semper me audis (Ioan. 11, 42); quando si disponeva a bere il calice della Passione, ne aspettava la ricompensa con splendida certezza: Clarifica Fìlium tuum ut Filius tuus clarificet Te (Ioan., 17, I)
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Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI FEBBRAIO
IL SACERDOTE E LA FEDE
(parte prima)
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HABITARE PER FIDEM IN CORDIBUS VESTRIS, in caritate radicati et fundati (Ephes., 3, 14 seg.)
Esame Sull'applicazione Intellettuale
Vi adoro. Signore Gesù, mentre pronunziate queste parole: Vos vocatis me Magister et Domine, et bene dicitis; sum etenim... (Ioan., 13. 13). Siamo dunque discepoli, alunni; per conseguenza dobbiamo studiare. Cosi intende S. Paolo, sacerdote perfetto, che afferma di sapere Jesum Christum, e perciò si dichiara pronto a sacrificare tutto: Existimo omnia detrimentum esse, propter eminentem scientiam Jesu Christi (Phil. 3, 8). Eccoci in presenza di un grave dovere: l'applicazione intellettuale. Sono convinto della sua necessità? Le mie convinzioni m'inducono all'attuazione pratica? Su questi punti ho bisogno di esaminarmi seriamente.
1. - NECESSITA' DELL'APPLICAZIONE INTELLETTUALE
Il lavoro in genere s' impone all'uomo per diritto divino.
Creati ad immagine di Dio, atto purissimo, siamo esseri attivi; dobbiamo quindi essere operosi. Adamo nel Paradiso terrestre aveva ricevuto l'ordine di lavorare, ut operaretur; quando ne fu scacciato intese la legge: In sudore vultus tui vesceris pane (Gen. 3, 19). Lozio non è permesso a nessuno. Io sono laborioso? — Non vi sono preti davvero indolenti? Levata a tarda ora, ministero assai limitato, nulla li stimola; perdono il tempo in visite pericolose, vanno gironzolando, fantasticando; che scandalo! — Temo l'ozio? Multam malitiam docuit otiositas (Eccli. 33, 29). E' davvero temibile al punto che da alcuni si afferma che val meglio far dei nonnulla piuttosto che nulla.
Comprendo che il lavoro a cui è tenuto il prete è lavoro intellettuale? Come principio anzitutto: Non in solo pane vivit homo, sed in omni verbo quod proceda de ore Dei 7) (Mat., 4, 4). Il pane veramente sostanziale che dà la vita è quello che comunica la vita eterna, la quale sfida la morte. Ora, haec est vita aeterna ut cognoscant Te solum Deum verum et quem misisti Jesum Christum (Ioan. 17, 3). Conoscere Dio e il suo Cristo suppone studio profondo e molto arduo.
— In pratica, poi:
Se non studio dimenticherò inevitabilmente quanto appresi in Seminario. E, per essere sincero, quando uscii da quel luogo benedetto che cosa sapevo? Ahimè! nulla, se non ero cosciente della mia ignoranza. — Sarei mai uno di quei preti che non hanno più aperto libro di teologia se non per preparare la soluzione dei casi? Infelici! Troppo spesso la loro presunzione è proporzionata al vuoto del loro spirito e li accieca. Deridono quelli che studiano con una stoltezza di cui non avvertono nemmeno il ridicolo. Sentenziano reciso nelle discussioni con l'assolutismo degli stolti, per i quali non è facile astenersi dalle parole dure e insolenti. E' negli edifici vuoti che la risonanza è più sonora. —
Se non studio non potrò riuscire buon catechista. Comprendo la mia responsabilità in proposito? I miei ragazzi per tutto alimento sopranaturale, per seme di vita cristiana ed eterna avranno appunto quanto io avrò loro distribuito negli anni di catechismo, anni ridotti a poche ore: Parvuli petierunt panem et non erat qui frangerei eis (Thren. 4, 4). — Sarò un predicatore inetto. Concludo veramente qualche cosa in pulpito? Si acquista una certa facilità di eloquio, s'impiega tutto il quarto d'ora destinato alla predicazione in frasi vuote, in parole senza dottrina. — Sarò direttore incapace. Confido nella mia pretesa psicologia sperimentale, nel mio buon senso quando si tratta dell'ars artium che preoccupa tanto confratelli più dotti e più intelligenti di me? Non temo la sentenza del Maestro: Caecus autem si caeco ducatum praestat, ambo in foveam eadunt (Mat. 15, 14). — Se ci rifletto, comprendo che senza applicazione allo studio, non posso rimanere tranquillo in coscienza.
2. - PRATICA
Devo eliminare gli ostacoli e disciplinare il mio studio.
1. Ostacoli; Non mi sono creato un'obiezione insolubile: a) delle mie occupazioni materiali, b) del mio ministero sovraccarico, c) della mancanza di uno scopo determinato, d) della mancanza di mezzi? — a) Devo stare attento a ordinare bene la mia vita; ma non sono né giardiniere, né cuoco. — b) Il mio ministero ben regolato deve lasciarmi tempo per pregare e studiare; altrimenti la mia non è più attività sacerdotale ma agitazione febbrile. — c) Istruire le anime, si trattasse pur solo di tre vecchie o di tre fanciulli, non è scopo spregevole e certo è difficile a raggiungersi; esige dunque applicazione. — Poi, conosco abbastanza il mio Dio? Il grado di gloria è proporzionato al grado di conoscenza. — d) Non ne ho il gusto!... Ut faber fabricando. — Son poco intelligente... labor improbus omnia vincit. — Mi mancano libri.. Si troverà chi li presta!
2. Disciplina: Ho un tempo determinato per lo studio? In una vita sovraccarica d'occupazioni, questo può essere difficile, ma non impossibile. — Seguo un ordine nelle materie dì studio? Svolazzare un po' su tutto dissipa lo spirito e lo lascia vuoto; l'Inclinazione personale interviene opportunamente In proposito per approfondire qualche argomento. — Faccio convergere verso le scienze sacre le mie migliori energie, tutto il mio tempo? E' deplorevole che vi siano preti, letterati distinti, matematici eruditi, ma ignari della Sacra Scrittura e della teologia.
— Signore e Maestro, vi supplico di fare di me un Vostro vero, fervente, attivo discepolo. Aprite la mia mente, elevate il mio cuore, a fin che lo giunga ***** omnibus sanctts... scire etiam supereminentem scientiae caritatem Christi (Ephes,. 3. 19).
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Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI FEBBRAIO
IL SACERDOTE E LA FEDE
(parte prima)
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Uno dei rimproveri più frequenti che Gesù soleva fare a quelli che lo avvicinavano era motivato dalla mancanza di fede. A tutti i suoi Apostoli troppo umanamente preoccupati del domani, o troppo spauriti dalla tempesta dice: Quid timidi estis modicae fidei? (Mat. 8, 26); Quid cogitatis inter vos, modicae fidei? (id. 16, 8). A S. Pietro che cammina sulle acque ed è colto da improvviso spavento per l'imperversare del vento: Modicae fidei, quare dubitasti? (id. 14, 31). Ai discepoli di Emmaus mesti, perchè dimentichi di una parola, che avrebbe dovuto essere tutta luce per essi: Re-gnuvn meum non est de hoc mundo (Ioan. 18, 36) dice mestamente: O stulti et tardi corde ad credendum! (Lue. 24, 25). A Tommaso che Per credere esige una prova tangibile: Quia vidisti me, Thomas, credidisti; beati qui nonviderunt et credìderunt! (Ioan. 20, 29).
Si rallegra al contrario con quelli che credono e attribuisce ogni potere alla docilità del loro spirito: Fides tua te salvum fecit (Mat. 9, 22) dice al cieco dopo averlo guarito e così Pure all'ammalata che gli ha toccato l'orlo della veste. e alla Cananea: O mulier, magna est fides tua: fiat tibi sicut vis (id. 15, 28) E finalmente da la certezza assoluta: Si habueritis fidem sicut granum sinapis... nihil impossibile erit vobis (id. 17, 19). — Omnia possibilla sunt credenti (Marc. 9, 22). E si potrebbero moltiplicare le citazioni.
Si tratta dunque di una virtù che deve starci a cuore in modo particolare. Per noi sacerdoti è stata l'oggetto di una speciale preghiera di Nostro Signore: Rogavi pro te ut non deficiat fides tua, et tu aliquando conversus, confirma fratres tuos (Luc. 22, 32). Meditiamola e convinciamoci seriamente che: 1° dobbiamo avere fede, 2° dobbiamo vivere di fede.
1. - DOBBIAMO AVER FEDE
Ne abbiamo la prova nelle pagine evangeliche sopra ricordate. Ma non è inutile approfondirle.
Il sacerdote, continuatore del Cristo, è o dev'essere perfetto religioso dì Dio come il Cristo. Ora S. Tommaso scrive 3): Religio habet duplices actus: quosdam quidem proprios et immediatos... sicut sacrificare, adorare...: alios autem actus habet, quos producit mediantibus virtutibus, quibus imperat. Fra queste virtù tiene il primo posto la fede.
Senza dubbio la fede, virtù teologale, precede la religione; l'epistola agli Ebrei lo fa notare: Credere enim oportet accedentem ad Deum, quia est (Hebr. 11, 6). Si crede in Dio prima di rendergli omaggio, ma gli si rende omaggio credendo in Lui, e l'atto più bello e nello stesso tempo più fecondo della nostra religione è l'atto di fede; con quest'atto pratichiamo profondamente l'adorazione in spiritu et veritate, voluta dal Padre.
Nell'atto di fede la ragione crede fermamente senza vedere, come e più ancora che se vedesse; essa s'immola così e onora la veracità di Dio, motivo del suo sacrificio, insieme agli altri attributi divini, oggetto della fede.
La fede è la nota distintiva del cristiano: Justus meus ex fide vivit (Hebr. 10, 38), il quale è perciò chiamato con il bel nome di fedele. E dev'esserlo in modo sovra eminente il sacerdote, cui S. Paolo scrive: Exemplum esto fidelium, in fide (Tim. 4, 12). — Tu autem, homo Dei, sectare... fidem (id. 6, 11).
S. Agostino asserisce che «la fede ci ha ordinati chierici e consacrati sacerdoti»4). Ecco dunque perché aspicientes in auctorem fidei, et consummatorem Jesum (Hebr. 12, 2), dobbiamo poter dire coll'Apostolo che possediamo la fede: fidem servavi.
Dobbiamo averla profonda, luminosa.
a) Profonda. — Il sacerdote è il depositario, il custode della fede: Labia sacerdotis custodient scientiam et legem requirentex ore ejus (Malac. 2, 17). Deve quindi possederla più di tutti, egli che a tutti dev'essere maestro: Forma facti gregis ex animo (Petr. 5. 3). L'adesione del suo intelletto dev'essere più fermarle sue cognizioni dogmatiche più solide, più estese. L'adesione più ferma dell'intelletto esige una corrispondenza generosa dell'anima alla grazia della fede; essa è una grazia, non lo si dimentichi, la prima delle grazie, punto di partenza, sorgente di tutte le altre. S. Tommaso dice: Homo participat cognitionem divinarti per virtutem fidei 5). E' una specie d'influsso divino operante una vera deificazione della nostra intelligenza, che vede le verità rivelate nella luce stessa in cui le vede Dio: Fides est habitus mentis, quo inchoatur vita aeterna in nobis.
E' oscura nel suo oggetto che è il mistero; è chiara nel suo motivo, che è la veridicità di Dio. Essa comunica all'anima una certezza che supera l'evidenza stessa dell'ordine naturale. L'atto di fede è essenzialmente, intrinsecamente sopranaturale, è esclusivamente opera della grazia di Dio.
Che richiede la corrispondenza a tanta grazia? S. Paolo traccia un vasto programma in due parole: Habentes, mysterium fldei in conscientia pura (1 Tim. 3, 9).
E anzitutto, prendendo tali parole ut sonant, è necessario aver l'anima molto pura. Quando caro concupisca adversus spiritum (Galat. 5, 17), attenti! Se le nubi si accavallano, l'atmosfera s'oscura; se le nebbie s'infittiscono dinanzi allo sguardo, non si vede più chiaro.
Ma se è necessaria la purità del cuore molto più lo è la purezza della mente. Essa è una vigile custode di ciò che potrebbe attenuare quanto S. Ilario di Poitiers chiama casta verginità della verità 6). L'Apostolo mette in guardia contro tale insidia: Profanas vo***** novitates devita (Tim. 6, 20). L'umiltà, la semplicità, la rettitudine del giudizio son riparo a tanto pericolo. Queste disposizioni intime non sono retaggio degli stolti, più curiosi che eruditi, più saccenti che sapienti; esse mantengono l’equilibrio nell'intelligenza e sono indizio di vero valore intellettuale.
Questa duplice purezza di mente e di cuore è frutto della preghiera, la quale rende la fede veramente profonda.
E' una grazia che bisogna implorare; è una specie di visione di Dio, a cui bisogna accostarsi; appello dell'anima, prostrazione dell'anima, che ogni sacerdote deve coltivare con premura. Se non diciamo: Domine, fac ut videam.— Adjuva incredulitatem meam — Adauge nobis fidem non perderemo forse la fede; ma che fede avremo?
Si badi: se dissipati, irriflessivi, andiamo innanzi in forza di un impulso lontanamente ricevuto, corriamo rischio di divenire formalisti e ci premuniamo male dalle infiltrazioni naturalistiche, le quali ci impediscono d'essere veri preti, ossia uomini superiori agli altri uomini deificati: Tu autem, homo Dei (1 Tim. 4, 12).
b) Luminosa. —Il prete non è un custode della fede, avaro del suo tesoro; tutt'altro! Ne dev'essere prodigo anzi, come le anime lo esigono: Legem requirent ex ore ejus (Malac. 2, 7); egli è stato inviato per questo: Evangelizare pauperibus misit me. Quindi il Maestro ci dice: Praedicate evangelium omni creaturae... qui crediderìt et baptizatus fuerit, salvus erit (Marc. 16, 15). A tal fine ci vuole luce: Vos estis lux mundi (Mat. 5, 14), — ut fili lucis sitis (Ioan. 12, 36).
E i suoi consigli sono essenzialmente pratici positivi. Quando dice che «la nostra luce deve risplendere dinanzi agli uomini», aggiunge: «affinchè vedano le vostre opere buone». Fede luminosa, fede irradiante: non è espressione vaga questa; si tratta delle opere buone!
Predichiamo e predichiamo con l'esempio: Verbo movent, exempla trahunt. Quanti ci vedono anche senza essere psicologi accorti, sanno distinguere fra prete e prete. Chi non ha sentito mai questa frase: «Oh, quello sì ci crede!».
Come se non ogni prete credesse!... Vè dunque un modo speciale dì dimostrare la nostra fede? Sì; mostriamo di crederci. S. Giovanni-Maria Vianney diceva soltanto queste parole: «Oh! figliuoli miei, amiamo tanto il buon Dio!» e tutti gli astanti ne erano commossi. Sì; v'è una particolare fisonomia creata dal contegno, dai modi, dalle parole, dai costumi che distingue l'uomo di fede. Guai! se qualcuno vedendoci dovesse esclamare: Quello fa il suo mestiere!
Predichiamo, e predichiamo con la parola. La predicazione è un dovere essenziale del prete: Oportet sacerdotem... praedicare. Ma del nostro insegnamento si deve poter dire: Verbum ipsius. quasi facula ardebat (Eccli. 48, 1). Accade talvolta di ascoltare delle prediche, che, pur essendo splendide nella forma, lasciano gli uditori freddi; se ne odono altre spoglie d'ogni artifizio, ma che penetrano nelle intelligenze come raggio di sole in andito oscuro e avvolgono i cuori quasi del caldo effluvio d'un focolare ardente. Nemo dat quod non habet; solo gli oratori che sono lucerna ardens et lucens (Ioan. 5,35). posseggono davvero la fede.
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Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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Preparazione alla morte
IL « DIES IRAE » DEL SACERDOTE
Sorpresa dell'anima
Dies irae, dies illa
Solvet saeclum in favilla...
Teste David cum Sybilla.
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Dio mio, mi vado incamminando verso la morte e non è possibile evitarla. Il peso del mio essere mi trascina al suo incontro con la vertiginosa rapidità del tempo. Ogni giorno più mi ci avvicino; tutto me lo dice: la rivelazione e la ragione, la storia e l'esperienza: teste David cum Sybilla; e ci penso poco, non ci rifletto che alla sfuggita... mi stanco ed ho paura : ne distolgo l'attenzione subito distratta dai molteplici oggetti che la seducono, dalle contingenze che l'assorbono.
Ma questo non è sapienza!
Non devo aspettare l'ora in cui ridurrete in cenere il mondo intero: Solvet saeclum in favilla! V'è un'ora, prossima ormai, in cui io sarò, ridotto in cenere: Pulvis es et in pulverem reverteris! (Gen. 3,19). — Putredini dixi: poter meus es, mater mea, et soror mea, vermibus! (Iob. 17, 14).
Non sarà terribile (dies irae, dies illa!) il dissolvimento del mio essere? Tutto mi sfugge: persone e cose spariranno dal mio sguardo ottenebrato; sentirò che tutto mi vien tolto, che io stesso sono strappato a tutto... Che cosa mi sta a cuore?... Le mie sostanze, le mie idee? Le mie sostanze passeranno nelle mani di chi non le avrei mai volute; si spartiranno i miei libri, si bruceranno i miei scritti o saranno derisi; le mie iniziative verranno abbandonate, criticate; le mie idee vittoriosamente combattute! — Chi mi sta a cuore?... Coloro che amo molto, mi dimenticheranno; ameranno il mio successore forse più di me ... oblivioni, datus sum tanquam mortuus a corde (Ps. 30, 12) e su me si stenderà il silenzio del nulla.
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Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
PREFAZIONE DELL'AUTORE
Dopo le prime tre serie di « Ritiri mensili » :
I) Il Sacerdote e i suoi grandi doveri -
II) Il Sacerdote nella sua atmosfera soprannaturale –
III) Il Sacerdote alla scuola del Maestro Divino, ecco la quarta: Le gemme della corona sacerdotale. Si completa così un lavoro nel quale abbiamo trasfuso tutto il nostro cuore, perché intrapreso per «gli Amici del Maestro». Vogliano essi trovare in queste ultime pagine, come già nelle prime, la prova del nostro vivo desiderio d'aiutarli a conoscere meglio, a volere più fortemente.
Quanto più addentro abbiamo potuto penetrare nelle anime sacerdotali, tanto più si è intensificato il nostro sincero e affettuoso rispetto per esse. Quali virtù, quante bellezze inorali abbiamo scoperte in coloro che ci è pur dolce chiamare, edificati e commossi:
« Venerati e cari Confratelli». E più grande è la nostra ammirazione perché meglio ci son note le condizioni a volte tanto penose della loro esistenza solitaria, priva di consolazione e d'incoraggiamento.
Come comprendiamo bene il bisogno che hanno ì sacerdoti di accostarsi a Dio sempre più, di appoggiarsi a Lui!
Il Ritiro mensile può aiutarli in questo e per noi è vera gioia poterne facilitare la pratica con questo quarto e ultimo volume.
Supplichiamo la Vergine Immacolata di benedire te nostre intenzioni, e per sua mediazione imploriamo dal Cuore Sacratissimo di Gesù le migliori effusioni delle sue grazie sui nostri degnissimi e amatissimi lettori.
Agostino
Vescovo di Moulins.
LE GEMME DELLA CORONA SACERDOTALE
RITIRO DEL MESE DI GENNAIO
IL SACERDOTE E LA VIRTÙ' DI RELIGIONE
« Il grande disegno di Dio nella vocazione al sacerdozio è di avere delle persone, che, sciolte da ogni legame, si dedichino unicamente e attendano continuamente all'esercizio del suo culto religioso. Siccome egli è infinitamente santo e perfetto in se stesso e infinitamente buono e liberale verso le sue creature, cosi merita di essere onorato per la sua grandezza e lodato, ringraziato per tutti i suoi benefici. E poiché il suo essere è eterno e le sue perfezioni sono immutabili, come ininterrotti sono i suoi benefìzi, così egli vuole essere glorificato senza posa e continuamente lodato da coloro che, ad ogni istante, sono arricchiti delle sue grazie.
« Nel cielo ha creato gli angeli che lo adorano, lo lodano, continuamente, e gli rendono il culto dovuto alla sua divina maestà.
« Ma il nostro Dio, che desidera sulla terra un culto simile a quello del cielo, e che vuol essere sempre onorato e per le sue adorabili grandezze e per i benefici che spande ognora sulle sue creature, vedendo che la maggior parte degli uomini non avrebbero voluto soddisfarlo o ne sarebbero stati distolti dalle necessità della vita, scelse, a farne le veci, i sacerdoti, perché in nome di tutti gli tributassero l'ossequio di un perpetuo culto di religione.
« Il sacerdote è come un sacramento di Gesù Cristo, religioso di Dio suo Padre; infatti Gesù sotto le apparenze del sacerdote continua a onorare perfettamente il Padre. Il sacerdote è dunque il supplemento del Cristo, nel quale Egli completa ciò che manca al suo culto religioso, come completava in S. Paolo ciò che mancava alle sue sofferenze. Il sacerdote è un mediatore fra Dio e gli uomini, che rende a Dio i doveri della sua Chiesa, e a questa distribuisce i doni di Dio. In una parola il sacerdote è come un sommario e una sintesi di tutta la religione » 1)
Belli e gravi pensieri di un gran servo di Dio che aveva meditato profondamente sul sacerdozio. Non sono essi il commento della parola dell'Apostolo, così completo nella sua . concisione? omnis pontifex ex hominibus as-sumptus, pro hominibus constituitur, in his quae sunt ad Deum (Hebr. 5, 1). Non son l'eco della dichiarazione solenne fatta da Gesù alla Samaritana? Venit hora, et nunc est, quando veri adoratores adombunt Patrem in spirita et ventate. Nam et Pater tales quaerit qui adorent eum (Joan. 4, 23).
Ci troviamo di fronte a un dovere importante, essenziale. Il Padre cerca veri adoratori e deve trovarli nei suoi sacerdoti, continuatori del solo vero Sacerdote, del solo vero Adoratore e Mediatore. Eppure questo dovere non è il meglio compreso né il più fedelmente osservato. Per riuscire ad osservarlo come si conviene, ravviviamo le nostre convinzioni e perciò meditiamo: 1° il fondamento; 2° la pratica della virtù di religione.
1) Olier; Trattato degli Ordini Sacri, 1» parte, cap VII.
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SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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CORONAMENTO DELL'OPERA
V. LA VITA DI UNIONE CON MARIA. PER IPSAM, ET CUM IPSA ET IN IPSA
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Ecco un Mistero celeste! ecco la vera vita del Sacerdote, la sua luce, la sua forza, la sua consolazione, il tratto più dolce di somiglianza con Gesù. La vita di unione con Maria consiste nel riprodurre fedelmente in noi le disposizioni del Sacro Cuore di Gesù. Fin dall'eternità, il Verbo ebbe per la sua futura Madre le inclinazioni più tenere e le più commoventi preferenze. Coelo Redemptor praetulit - Felicis alvum Virginis, - ubi futura Victima - mortale corpus induit! (677). Quando venne al mondo, volle aver bisogno di Maria, della sua tenerezza, delle sue cure, del suo latte, delle sue mani e, del suo lavoro. Fattosi grande, volle dipendere da lei, obbedirla e servirla (678). Non incominciò la sua vita pubblica che sul desiderio di lei; la volle associata ai suoi viaggi apostolici; benché Maria si sia nascosta in una profonda oscurità, chi potrebbe dubitare che non sia stata, con le sue preghiere, i suoi esempi e tutta la sua vita, il perfetto aiuto della missione del Redentore? Sul Calvario, mentre Gesù offriva al Padre il prezzo della nostra Redenzione, Maria fu Corredentrice immolandosi con Gesù (679). Dopo che il Sacrificio fu compiuto con la morte, la lancia trasse dal Sacra Cuore le ultime gocce di sangue; Gesù volle così, perché quest'ultimo sangue prezioso del suo Cuore esausto ed esanime, da Maria sempre in piedi come il Sacerdote che offre il Sacrificio, venisse presentato alla Santità ed alla Misericordia di Dio. Quando poi l'adorabile Vittima lasciò l'altare della Croce, venne deposta nelle mani e sulle ginocchia di sua Madre, come sopra un altare più venerabile e più santo di quello della Croce.
Gesù e Maria non sono che una cosa sola. Così Giovanni e Maria sono una cosa sola: Ex illa hora accepit eam discipulus in sua. Il Beato Grignon di Montfort traduce: «Giovanni prese Maria con sé perché essa fosse per lui ogni sorta di beni, Accepit eam in sua omnia» (680). L'unione di Giovanni con Maria! Quale delizioso soggetto di contemplazione, di ammirazione e di amore! Ascoltiamo san Bernardo: «Allora (sul Calvario), questi due Prediletti (Maria e Giovanni) mescolarono le loro lagrime; allora queste due anime Vergini furono assieme Martiri: l'anima di Maria e l'anima di san Giovanni furono, con immenso dolore, ugualmente trapassate dalla spada della morte di Gesù» (681). Il Mistero di una tale unione così santa e ammirabile ebbe origine da quelle parole di Gesù: «Donna, ecco il vostro Figlio, - Figliuolo, ecco la tua madre»; e venne compiuto dalla spada di un comune Sacrificio. Maria e Giovanni se n'andarono quindi nel mondo, da Gerusalemme a Efeso, da Efeso a Gerusalemme portando dappertutto, nella preghiera, nelle fatiche apostoliche, in tutti i sacrifizi, questo suggello divino, questa grazia celeste derivata dal Calvario, quella vita di unione così forte e così tenera, felice per Giovanni e consolante per Maria, gloriosa per il Signore, santificante e feconda per la Chiesa. O meraviglia di grazia, d'innocenza e di amore! O Unione senza nome possibile quaggiù! O Vita unica di Giovanni e della Madre sua! Santuario augusto, al quale non possiamo avvicinarci senza profondo rispetto, ma con l'anima tutta commossa e compresa da un desiderio inesprimibile di stabilirvi, ad onta della nostra indegnità, la nostra dimora perpetua sino al cielo (682).
La Vita di unione con Maria consiste nelle tre pratiche seguenti: Vivere e fare ogni cosa per mezzo di Maria - con Maria - e nel suo Spirito: Per Ipsam, - et cum Ipsa - et in Ipsa.
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SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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CORONAMENTO DELL'OPERA
III. MARIA NOSTRA REGINA
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Per quanto sia glorioso il nostro Sacerdozio coi suoi poteri meravigliosi, è evidente che la Vergine trova si ben al disopra di poi. Eppure parecchie anime sacerdotali, rapite dall'ammirazione per la grande sublimità della nostra dignità, han detto che, sotto certi aspetti, siamo più onorati e più potenti della Vergine divina; perché abbiamo certi poteri che essa non ebbe. Questi sentimenti non ci sorprendono, ma sono esagerazioni che non sono senza inconvenienti, trattandosi di grandi opere della Destra e del Cuore di Dio.
Mettiamo a confronto i nostri poteri con quelli della Madonna, e vedremo ch'essa è veramente la nostra Sovrana:
I. - Noi abbiamo il diritto ineffabile e la grazia inestimabile di consacrare il Corpo e il Sangue di Nostro Signor Gesù Cristo. Nulla di più sublime tra gli uomini e tra gli angeli. - Orbene, nell'esercizio di questo potere Maria è nostra Sovrana. Il suo potere di Madre di Dio è più elevato, più esteso e più completo del nostro potere sacerdotale. Infatti:
1°) Maria ha dato a Gesù l'essere e la vita, col dargli il proprio sangue e la propria sostanza, dimodochè Gesù è davvero consustanziale con Maria. Noi invece non diamo nulla di noi medesimi a Gesù; non siamo genitori del Figlio di Dio, ma soltanto ministri dei suo Sacerdozio.
2°) Maria ha dato a Gesù l'Essere di natura, un essere inammissibile. Noi invece gli diamo un essere sacramentale che, di sua natura, è temporaneo, poiché dipende dalla conservazione delle specie sacramentali. Il Fiat della Madonna che operò il Mistero dell'Incarnazione fu dunque di un ordine oltremodo superiore all’atto della Consacrazione.
3°) il Fiat detto da Maria, secondo il volere di Dio, era un atto necessario per l'Incarnazione e soltanto da essa poteva estere pronunciato. Noi pure pronunciamo nella Consacrazione certe parole che Gesù ha voluto fossero necessarie, ma nessuno di noi è indispensabile perché Gesù sia presente nel mondo.
4°) È vero che noi diamo a Gesù l'esistenza sacramentale nello stato glorioso, mentre Maria lo generò nello stato di mortalità; ma ciò non costituisce nèssuna superiorità del nostro ministero in confronto della Maternità divina. Anche durante la sua vita mortale, Gesù era glorioso nell'interiore dell'anima; e se la sua gloria corporale e esterna venne differita sino alla Risurrezione, Egli intrinsecamente vi aveva ogni diritto. Gesù nel seno di Maria era dunque perfetto, tanto come ora in cielo.
5°) È vero ancora che Maria ha generato una volta sola il Verbo incarnato, e noi ogni giorno lo produciamo sull'altare. Ma l'atto della consacrazione, fosse pur rinnovato migliaia di volte! attraverso migliaia di secoli; sarà sempre infinitamente inferiore all'atto unico di Maria. Per altro, possiamo anche dite che la volontà incessante, con cui la Madonna offriva l'adorabile Vittima sulla terra, e continua ad offrirla ancora in Cielo, è come una Consacrazione perpetua.
6°) E’ il Sacramento dell'Ordine che non venne conferito alla Madonna?.. Risponde sant'Antonino: Licet Sacramentum Ordinis non acceperit, quidquid tamen DIGNITATIS ET GRATIAE in ipso confertur, de hoc plena fuit. Confertur in eo saptiformis gratia Spiritus Sancti, qua omnifariam plena fuit» (662). San Giovanni Damasceno ha detto pure: Infinitum Dei servorum ac Mariae discrimen est (663). Osserviamo inoltre, ché il carattere sacramentale, benché oltremodo venerabile, non è per se stesso santificante, poiché, come ha detto san Tommaso: Post hanc vitam remanet... in malis ad eorum ignominiam (664).
Maria è manifestamente la nostra eminente e gloriosa Sovrana.
II. - Noi fummo innalzati al Sacerdozio mediante certi gradi, che sono gli Ordini minori e maggiori, i quali ci conferivano il potere di compiere certe funzioni in relazione più o meno diretta con la presenza di Nostro Signore nel SS. Sacramento, ministeri angelici, anzi divini poiché Nostro Signore medesimo si degnò di esercitarli. Orbene, la Vergine SS. li ha pure esercitati, in una maniera eminente, con un diritto, una autorità, una fedeltà e una religione oltremodo superiori alle disposizioni che potrebbero mai avere i più gran Santi. Sant'Alberto Magno, commentando quella parola dei Proverbi: Ab aeterno ordinata sum, così fa parlare la Vergine santissima: «L'Eterno Padre mi ha ordinata Ostiaria, per escludere dal Tempio gli uomini impuri; Esorcista, per scacciare i demonii; Lettrice, perché in me si compiono gli oracoli dei Profeti; Accolita, perché sono illuminatrice come l'aurora e la stella mattutina; Suddiacona, perché dovevo contemplare il Verbo divino e conservare nel mio cuore la memoria dei suoi atti per trasmetterli agli scrittori sacri; Diacono e Sacerdote, per formare e dispensare il Corpo di Gesù Cristo; Vescovo, per la mia sollecitudine universale riguardo a tutte le Chiese; infine Pontefice Sovrana, perché sono la Madre di tutti, e, meglio del Vicario di Gesù Cristo, possiedo il potere sovrano sulla terra e nel Cielo, nel Purgatorio e persino nell'Inferno medesimo» (665).
III. - Noi riceviamo il potere di rimettere i peccati. Maria evidentemente non ha mai potuto dare neppure una assoluzione, ma essa è la dispensi era di ogni grazia. Ogni bene ci viene dal merito del Figlio suo, quindi passa per le sue mani materne. Perciò tutte le disposizioni necessarie perché l'assoluzione sacramentale abbia il suo effetto, dipendono dalla Madonna e da questa vengono comunicate ai peccatori. Ricordiamo le parole di san Bernardo: Sic est voluntas Dei, qui totum nos habere voluit per Mariam (666); e queste di san Bernardino: Omnia dona, virtutes et gratiae quibus vult, quomodo vult et quandiu vult, per manus ipsius administrantur (667).
Maria è quindi, molto più di noi, la Riconciliatrice dei peccatori. Essa dà al nostro potere sacramentale di misericordia e di perdono, la sua efficacia. Perciò Gersone ha potuto dite: Maria non habet characterem sacerdotalem formaliter, fateor; sed habet eminentius ad reconciliationem... contra miserias omnes tam corporum quam animarum (668). Maria, dice pure sant'Antonino, Sacerdos est spiritualis... ob absolutionem a cuplis et poenis per Filium suum (669).
IV. - In virtù della nostra consacrazione, noi siamo costituiti, ad un titolo santo e magnifico, Religiosi di Dio, Mediatori di Dio, Vittime di espiazione e di soddisfazione a pro degli uomini e Dispensatori della sua grazia, della sua volontà e della sua parola: ministeri sublimi e gloriosi!
Anche sotto tale aspetto, Maria è la nostra Sovrana. Tutti quei titoli, infatti, si applicano alla Madonna in modo eminente. Essa è la grande Religiosa di Dio, la universale Mediatrice, la Vittima purissima, lo strumento fedelissimo della volontà divina; ad essa i Padri e la Chiesa attribuiscono la vittoria sopra tutte le eresie. Anche in Cielo la nostra fede la contempla ancora nell'atto misericordioso della supplicazione. «Per te, dice s. Cirillo di Alessandria, Trinitas sanctificatur, per te crux pretiosa celebratur et adoratur in toto orbe terrarum... Per te, omnis creatura idolorum errore detenta conversa est ad agnitionem veritatis... Per te Apostoli salutem gentibus praedicarunt (670). Voluit Filius, dice sant'Antonino, ut, post Ascensionem Mater beatissima remaneret ad tempus in mundo, Doctrix et Illuminatrix Apostolorum... et Evangelistarum (671).
O Sacerdoti! innalziamo al cielo un cantico di riconoscenza, perché Maria, sotto ogni rapporto, è la nostra Sovrana, Sovrana amantissima, Regina gloriosissima. Diciamo pure con sant'Ildefonso di Toledo: O Domina mea, Dominatrix mea, dominans mihi... te rogo ut habeam Spiritum Domini tui, etc. Tu enim es electa a Deo... proxima Deo, adhaerens Deo, conjuncta Deo... Beatam te dicent omnes generationes... Beata tu fidei meae, beata tu animae meae, beata dilectioni meae, praeconiis et praedicationibus meis (672).
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SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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Coronamento II.
LA MATERNITÀ DIVINA
E' UNA DIGNITÀ SACERDOTALE
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Questa proposizione, tutt'altro che singolare e ardita, deriva dalla dottrina che abbiamo esposta.
Il Padre, da tutta l'Eternità, genera il Figlio, che è la sua gloria essenziale: lo genera pure nel tempo perché sia la sua gloria accidentale è affidata al Sacerdozio e al Sacrificio di Gesù Cristo, anzi consiste in questo Sacerdozio e in questo Sacrificio. Orbene, nella generazione temporale del Figlio, Maria era Cooperatrice del Padre, e Cooperatrice così perfetta che, mentre apportava il suo concorso all'opera che si compiva in unità d'azione, essa conosceva chiaramente i fini adorabili della propria cooperazione. Quando dava il suo consenso dicendo: Fiat mihi, essa sapeva che stava per concepire, nel suo seno immacolato, Colui che sarebbe la gloria, e quindi il Sacerdote e l'Ostia del Padre. Questo era noto a Davide, ai Profeti (656); come mai Maria lo avrebbe ignorato? (657). Essa dunque intendeva essere Madre come Dio è Padre; entrando in tutti i disegni del Padre, voleva dargli quanto Egli medesimo voleva dare a se stesso in quella generazione temporale, vale a dire, nel Figlio incarnato la gloria più grande e più perfetta, e quindi un Sacerdote degno di Lui, un'Ostia il cui Sacrificio gli presterebbe tutta la Religione a Lui dovuta. Orbene, voler dare al Padre questa gloria, questo Sacerdote, questa Ostia, non era forse per l'umile e ammirabile Vergine, compiere in un modo sublime e senza pari, un atto veramente sacerdotale?