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SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CORONAMENTO DELL'OPERA
MARIA E IL SACERDOTE
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La statua di Maria risplende su la più alta guglia del Duomo di Milano, al disopra deI santo Tabernacolo dove sta la Vittima divina, Gesù Ostia. In tal modo, ci sta a cuore che, la dolce immagine della nostra celeste Madre incoroni la modesta opera nostra che a Lei pure, nell'incominciarla, abbiamo dedicata e consacrata.
I. EMINENTE DIGNITA' DI MARIA, MADRE DI DIO
Ciò che costituisce la grande dignità della Madonna, la più sublime che una semplice creatura possa ricevere, è la Maternità divina (641). Questa comprende una specie di infinità (642). Maria è essenzialmente legata, nel disegno divino, alla Incarnazione e ne forma parte integrante. Non vi furono già due decreti divini, uno per l'Incarnazione e un altro per la Maternità divina; ma un solo e medesimo decreto che comprendeva l'Incarnazione della seconda Persona della SS. Trinità e insieme la miracolosa Maternità di Maria (643). In tutta realtà, nel disegno di Dio, Gesù e Maria non fanno che una cosa sola. In quella guisa che, in virtù dell'unione ipostatica, Gesù Cristo è Figlio di Dio e neI medesimo tempo viene pure santificato in una maniera eminente e senza pari: così, Maria non è già solamente Madre di Dio, destinata a dare al Figlio di Dio quella umanità di cui sarà rivestito; ma inoltre, essa, è santificata per causa di tale dignità e anche da tale dignità, poiché, giusta il sentimento dei Teologi, la Maternità divina è causa formale di santificazione (644). Maria è quindi santa, immacolata e piena di grazia, in quel modo che Gesù, Figlio di Dio, è il «Santo, l'Innocente, l'Immacolato, separato dai peccatori, sublimato sopra i cieli» (Eb 7, 26).
In Gesù e in Maria abbiamo la stessa pienezza di grazia, ma ad un titolo diverso. Gesù ha la pienezza della grazia per un diritto diretto e assoluto, mentre Maria la possiede solamente per graziosa concessione; e inoltre la pienezza della grazia che trovasi in Maria ha in Gesù il suo principio e la sua causa (645).
Si può considerare, in Maria, una doppia relazione con le Persone della SS. Trinità: una relazione di cooperazione e una relazione di santificazione. La prima consiste in ciò che, per disposizione affatto gratuita della Bontà divina, Maria coopera direttamente ed efficacemente all'opera grande di Dio, ossia all'incarnazione del Figlio di Dio (646); per la seconda, Maria riceve quella santificazione speciale e affatto straordinaria che si addice alla sublimità ed alla eccellenza della sua cooperazione. Dapprima, Maria ha una relazione di operazione col Padre. Come il Padre genera eternamente il Figlio suo, così Maria, nel tempo, genera pure quel medesimo Figlio. È fa stessa operazione, ma in condizioni e con caratteri essenzialmente e assolutamente differenti. In Maria trovasi una virtù capace di generare un Dio, un Dio incarnato; tale virtù tutta divina è simile a quella del Padre. Con tutta verità si dice ed è il linguaggio della fede - che Maria genera una Persona divina, ma una Persona divina che si fa uomo (647). Ne consegue, tra il Padre e la Vergine, una unione di una sublimità assolutamente ineffabile e incomprensibile, «una sorta di identità» dice san Pier Damiani (648) Maria è la Sposa del Padre. Questo titolo, di una esattezza rigorosa, esprime la relazione di operazione. Ma non è possibile che una tale unione non sia santificante; Maria quindi è realmente santificata dal Padre e si può applicarle quella parola che Gesù ha detto di se stesso: il Padre mi ha santificato, Quem pater sanctificavit (Gv 10, 36).
Tuttavia, perché qualsiasi santificazione non si fa né può farsi che in Gesù Cristo; in Gesù Cristo Maria è stata santificata. In qual modo? La grazia che ci viene da Gesù Cristo è una grazia di Filiazione divina: noi siamo figli per adozione come Gesù è Figlio per natura, perciò Gesù si compiace di chiamarci suoi fratelli (2 Pt 1, 4; 4, 4-5). Tale è pure la condizione fatta a Maria: Sposa del Padre nella sua relazione di operazione, essa è figlia del Padre nella sua relazione di grazia e di santificazione. Quale cooperatrice del Padre, è Sposa del Padre; in quanto santificata dal Padre, è Figlia del Padre e Sorella di Gesù Cristo. La grazia è la comunicazione della natura divina, ma di questa divina natura in quanto trovasi in Gesù Cristo, il quale essendo Figlio di Dio ci comunica la sua filiazione col farci parte di ciò ch'Egli ha ricevuto. Così si spiega perché la pietà cattolica dà abitualmente a Maria il titolo di Figlia del Padre; quell'altro, meno conosciuto, di Sposa del Padre, non è meno vero del primo, anzi è il principio di tutti gli altri titoli che si danno alla divina Vergine.
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SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO DICIOTTESIMO.
CONCLUSIONE FINALE
«UT SIT DEUS OMNIA IN OMNIBUS»
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Dopo aver parlato della Risurrezione di Gesù Cristo, causa della risurrezione degli eletti, san Paolo dice queste regnum Deo et Patri, c,um evacuaverit omnem principatum, et potestatem, et virtutem. Oportet autem illum regnare, donec et potestatem, et virtutem. Oportet autem illum regnare, donec ponat omnes inimicos sub pedibus ejus. Novissima autem inimica destruetur mors; omnia enim subjecit sub pedibus ejus... c.um autcm subjecta fuerint illi omnia; tunc et ipse Filius subjectus erit ei, qui subjecit sibi omnia, ut sit Deus omnia in omnibus (I Cor 15, 24-28).
Deinde finis. Il grande Apostolo annuncia che allora Gesù Cristo «consegnerà al Padre suo», rimetterà nelle mani di Lui, quale Oblazione degna della sua gloria e dei suoi disegni pieni di misericordia, la Chiesa, quel reame conquistato col proprio Sangue, quella Sposa diletta che ha unita a se stesso sulla Croce, quell'assemblea degli eletti che ha generata nel dolore sul Calvario, nutrita quaggiù con la sua carne e governata coi suoi Ministri. Questo atto col quale Gesù Cristo rimetterà e consacrerà al Padre una tale oblazione, viene da san Paolo chiamato la fine di ogni cosa.
Qui sta, infatti, il termine finale di tutto quanto, fin dal principio, era negli intenti di Dio Creatore, Redentore e Santificatore. Vi era una somma di gloria, di omaggi e di obbedienza che Dio voleva ricevere dal suo Cristo, ma dal suo Cristo completo, e vale a dire, non solo da Gesù Cristo personalmente, unico oggetto del suo perfetto compiacimento; ma pure dalla Sposa di questo Figlio prediletto, dalla Chiesa che è il complemento e la pienezza di Gesù Cristo. Da questa Chiesa, Corpo mistico del Verbo incarnato col quale essa forma una sola cosa, Dio voleva ricevere una somma di gloria sconosciuta agli uomini, ma ordinata e fissata nella sua sapienza; e la voleva ottenere mediante la somiglianza di questa Sposa santa col suo sposo adorabile. Per arrivare ad una tale somiglianza, essa doveva acquistare un grado, già determinato, di grazia, di virtù e di santità; doveva raggiungere quel compimento della Passione di Gesù Cristo a cui pensava san Paolo quando diceva: Adimpleo ea quae desunt Passionum Christi (Col 1, 24). Occorrevano secoli di prove, di lotte, di sacrifici d'ogni sorta, perché essa fosse degna di Gesù Cristo, «gloriosa e senza macchia, santa e immacolata» (Ef 5, 27).
Quando la Chiesa sarà giunta ad un tal grado di santità e di perfezione, il Padre avrà ricevuta tutta quella gloria e tutta quella soddisfazione: allora sarà la fine. Perché ogni cosa quaggiù non esiste che in vista della Chiesa, nel giorno in cui essa avrà compiuta la sua missione di dare a Dio, in Gesù Cristo e per mezzo di Gesù Cristo, tutta la gloria dovuta e determinata, non vi sarà più nessuna ragione perché il mondo esista (625).
Sarà la fine, non solo d'ogni cosa terrestre, ma di ogni cosa figurativa e temporanea, benché santa; quindi la fine anche dei Sacramenti. Tutto quanto è simbolo o segno sensibile scomparirà, perché non sarà più necessario nessun mezzo.
Sarà pure la fine d'ogni autorità e d'ogni ministero tanto angelico come umano. Secondo il sentimento di sant'Agostino, quelle parole c.um evacuaverit omnem principatum, etc., indicano la cessazione dell'autorità e del governo che gli Angeli esercitano nella Chiesa (626). Sant'Ambrogio ci insegna, infatti, che: Non solum Episcopos ad tuendum gregem Dominus ordinavit, sed etiam Angelos destinavit! (627). Cesserà quindi anche il ministero ecclesiastico. Sarà la fine universale di tutto quanto è destinato a servire alla Chiesa: Sacramenti, culto, giurisdizione e governo. E che ne sarà del nostro Sacerdozio? Vediamolo, studiando sempre quel testo di S. Paolo.
Il Figlio ha tutto consegnato al Padre, e il Padre a sua vece, tutto riconsegna al Figlio: ecco la gloria e il trionfo del Figlio, solenne manifestazione davanti a tutta la Chiesa (angeli e uomini) della verità di quelle parole: Mea omnia tua sunt, et tua mea sunt (Gv 17, 10). Che fa allora il Figlio? O profonda, luminosa e deliziosa dottrina dell'Apostolo! «Quando tutte le cose saranno soggettate al Figlio, allora il Figlio medesimo si assoggetterà a Colui che gli avrà soggettato ogni cosa». È un nuovo ritorno del Figlio verso il Padre, ritorno eterno. Il Figlio è in possesso di tutto nel modo più assoluto, poiché il Padre gli ha soggettato ogni cosa; così tutto è nel Cristo, ed è vera e più gloriosamente che mai, quella parola dell'Apostolo: Omnia et in omnibus Christus (Col 3, 11); ed ecco che Gesù Cristo, portando in sé l'essere divino e umano, e in pari tempo, il suo Corpo mistico ossia tutta la sua Chiesa, si assoggetta al Padre. Che significa quella parola: «si assoggetta al Padre?». Sant'Agostino ci dà qualche lume su questo soggetto dell'Eternità:
c.um Mediator Dei et hominum, Homo Christus Jesus, tradiderit regnum Deo et Patri, ut jam non interpellet pro nobìs Mediator et Sacerdos noster..., sed et ipse, in quantum Sacerdos est assumpta propter nos servi forma, subjectus sit ei qui subjecit illi omnia, et cui subjecit omnia; ut... in quantum Sacerdos, nobis c.um illi subjectus sit (628).
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SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO DICIASSETTESIMO. IL SUPREMO SACRIFICIO
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Nostro Signore è stato Vittima, e Vittima perfetta, durante tutta la sua vita. Quando, nel seno della sua divina Madre, diceva Ecce venio, il suo Sacrificio era già completo, perché nulla si poteva aggiungere all'eccellenza di una tale Oblazione. Gli atti che seguirono sin all'ultimo sospiro, ebbero un valore infinito, tanto separatamente quanto nel loro complesso; ma essi non diedero punto un nuovo valore al Sacrificio del Figlio di Dio. Perciò san Paolo dice: «Con una sola oblazione Egli rese perfetti in perpetuo quelli che sono santificati» (Eb 10, 14). Tuttavia, era piaciuto al Padre, nei decreti della sua adorabile sapienza, di porre all'accettazione del Sacrificio del suo proprio Figlio, certe condizioni esterne; e la principale di tali condizioni era la morte di questo figlio prediletto. In questo senso sta scritto che GESÙ CRISTO fu obbediente «sino alla morte, e alla morte di croce». Ma quando l'Adorabile Vittima subì quella morte dolorosa, quella morte nel sangue, in mezzo a tanti patimenti e tante ignominie, allora in verità «tutto fu compiuto». «In quell'istante, fatale per l'inferno, ma per la Chiesa infinitamente felice, dice Bossuet, essendo interamente finita la legge vecchia, ed essendo pure confermate tutte le promesse del Testamento, la qual cosa non poteva farsi che nel compimento del Sacrificio del Mediatore, tutti gli antichi sacrifici degli animali perdettero la loro virtù: tutti i figli delle promesse presero il loro posto col Salvatore; e divenendo Vittime essi pure, la loro morte, che sino allora non avrebbe potuto essere che una pena del peccato, venne, in quella di GESÙ CRISTO, trasformata nella natura di Sacrificio» (611).
Ma qual mistero è mai questo? In qual modo «la nostra morte, in quella di GESÙ CRISTO, venne trasformata nella natura sii Sacrificio?». Quest'opera dell'amore del nostro Dio è sommamente bella; né vi si può pensare senza provarne grande delizia e consolazione. Nostro Signore, sulla croce, non era solo. GESÙ CRISTO non era mai solo. Sant'Agostino ci ha insegnato che GESÙ CRISTO è tutt'assieme il Capo e le membra. Noi eravamo dunque con Lui in ciascuno dei misteri della sua vita; come mai sarebbe stato possibile che fossimo da Lui separati in quel mistero supremo della Redenzione?
«No! dice quel grande Dottore dell'unità di CRISTO e della sua Chiesa applicando alla Passione di CRISTO il Salmo LVIII, non dobbiamo vedere in GESÙ CRISTO (che soffre sulla Croce) solamente il capo, ossia solamente il Mediatore tra Dio e gli uomini. Dobbiamo considerare GESÙ CRISTO come l'uomo perfetto, che in se medesimo riunisce il capo e il corpo; perché il CRISTO intero comprende il capo e il corpo.
«Perciò, sulla croce, Egli stesso parla in nome del suo corpo, quando dice: Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? Dio Padre, infatti, non aveva abbandonato GESÙ CRISTO, né GESÙ CRISTO aveva abbandonato Dio Padre. Ma l'uomo, perché aveva abbandonato Dio, era stato, in realtà, abbandonato da Dio; GESÙ CRISTO, avendo preso la carne di Adamo, parla qui, ex persona ipsius carnis, come se fosse la persona di Adamo, poiché l'uomo nostro vecchio era affisso con Lui alla croce» (612).
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SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO SEDICESIMO. Il sacerdote sempre ostia
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San Gregorio Magno ha detto: «Per avvicinarci a Colui che sta al disopra di noi e salire sino a Lui, bisogna rinunciare a noi stessi e sacrificare tutto ciò che siamo» (599). Perché Colui che, sta al disopra di Noi, GESÙ CRISTO nostra Signore, scenda sino a noi e si faccia padrone dell'anima nostra, dimodochè tutto in noi sia consumato dal fuoco della sua onnipotenza e dal suo amore, bisogna che 1'anima nostra aspiri a diventare un Sacrificio perfetto. Il Sacrificio, ecco la nostra condizione, ecco quale deve essere il nostro stato permanente e universale.
Nell'Antico Testamento v'era una legge chiamata la legge dell'Olocausto, promulgata in questi termini: Haec est lex Holocausti: Cremabitur in altari tota nocte usque ad mane... Ionis in altari semper ardebit quem nutriet Sacerdos... Ignis est iste perpetuus qui numquam deficiet in altari (Lv 6, 9-18). Questa legge divina che il Verbo aveva fatta, dal Verbo incarnato venne fedelmente compiuta. Il suo Olocausto è eterno; il fuoco che consuma questo Olocausto, è da Lui, unico Sacerdote di Dio, perpetuamente mantenuto nel suo ardore, né mai si estinguerà. La sua vita terrestre, la sua vita del cielo, la sua vita eucaristica non sono che una medesima vita; e questa vita che cosa è mai se non il perpetuo Olocausto? Parimenti, questa legge viene pure adempiuta dalla Chiesa. Se lo Sposo è un Olocausto permanente, come mai la Sposa non sarebbe, essa pure, in istato di Sacrificio perpetuo? Se il Capo è sempre immolato e consumato nelle fiamme della sua Religione e del suo Amore per il Padre, come mai il Corpo, che è ancora Lui medesimo secondo l'insegnamento instancabile di san'Agostino; non vivrebbe nelle fiamme di un Olocausto eterno? GESÙ CRISTO per intero, GESÙ CRISTO nella sua carne e nel suo corpo mistico; GESÙ CRISTO, prima della sua venuta, e GESÙ CRISTO dopo la sua venuta: GESÙ CRISTO vivente nelle anime giuste che l'aspettavano, e vivente, dopo l'Incarnazione, in quelle che l'hanno accolto; GESÙ CRISTO in cielo e GESÙ CRISTO nella sua Chiesa, è l'Olocausto di Dio, che porta in se stesso il mondo intero per farne pure l'Olocausto di Dio, affinché si compiano tutti i disegni della creazione e della Redenzione. Ut sit Deus omnia in omnibus. Noi ritorniamo volentieri su questa dottrina, come per una attrattiva irresistibile, tanto più che ne risulta sempre questa conclusione così pratica. Dunque, noi Sacerdoti siamo Ostie, sempre Ostie; sempre stiamo sull'Altare dove arde un fuoco che non si estingue mai, fuoco che noi medesimi dobbiamo alimentare con le nostre buone opere e le nostre virtù.
Al Sacerdote si applicano in modo tutto speciale le parole che sant'Agostino rivolgeva ai fedeli: Noli extrinsecus pecus quod mactes inquirere, habes in te quod occidas (Ps. 50). Così la sua vita intera deve essere un perpetuo Sacrificio.
Il Sacerdote sta davanti al Signore e, in unione con GESÙ CRISTO, gli rende ogni sorta di omaggi. Nelle relazioni con le anime, si dedica in loro favore ad ogni sorta di opere di carità. In riguardo a se medesimo, deve lavorare alla propria riforma e mortificare il suo spirito e la sua carne, progredire nella virtù e giungere alla perfezione, la quale consiste nella unione con GESÙ CRISTO, intima, abituale e sempre crescente. Orbene, queste diverse relazioni con Dio, con le anime e con se medesimo costituiscono per il Sacerdote lo stato permanente di Ostia. Ci limiteremo qui a parlare del lavoro interiore cui deve attendere il Sacerdote onde raggiungere finalmente quel grado di santità di cui dice il Pontificale: In eis eluceat totius justitiae forma. Orbene, in un tal lavoro soprannaturale, umile e costante, effetto del suo amore per Colui che lo ha eletto, il Sacerdote è realmente sempre Ostia.
In fondo ad ogni vita umana, nell'anima con le sue potenze, nel corpo con i suoi sensi, sta la perversa e mortifera concupiscenza. Il Battesimo che pur dà una vita nuova e uno spirito nuovo, con nuove inclinazioni e disposizioni, non libera da questo terribile e ostinato nemico. La concupiscenza è in noi, o meglio, è il nostro essere medesimo. Ricordiamo le parole di san Paolo: Scio quod non habitat in me, hoc est in carne mea, bonum. E queste altre di san Giacomo: Unusquisque tentatur, a concupiscentia sua abstractus et illectus. È una lotta continua tra la carne e lo spirito, e, pur troppo, la carne, ossia la concupiscenza prevale sullo spirito. Avviene allora, come dice lo Spirito Santo, un parto funesto di questa nemica vittoriosa; essa concepisce, poi partorisce il peccato, e il peccato genera la morte (600). Condizione oltremodo dolorosa! Si comprende il lamento di san Paolo: Infelix!... qui me liberabit? Ma l'Apostolo risponde subito: Gratia Dei per Iesum Christum Dominum nostrum. Questa grazia divina, meritataci dalla Passione del Piglio di Dio, deve preservarci dal peccato, perché onnipotente per ottenerci la vittoria: ma se siamo vili, se non preghiamo, se opponiamo una resistenza troppo debole, la concupiscenza rimane vittoriosa.
La Grazia misericordiosa che ci viene da Dio per mezzo di GESÙ CRISTO, non ci mancherà mai. Senza di essa non possiamo vincere; e se restiamo soccombenti, con la Grazia noi possiamo riparare la nostra disfatta. In qual modo?
Dobbiamo espiare il peccato commesso, e ridurre all'impotenza quel nemico che ce lo ha fatto commettere. Per questo fine, la Grazia di GESÙ CRISTO ci presenta due ausiliari, che furono i compagni del misericordioso Redentore in tutto il corso della sua vita: la penitenza e la mortificazione; non già che GESÙ ne avesse bisogno, ma Egli voleva dare a noi l'esempio (1 Pt 2, 21). Egli si degna dunque di favorirci, mediante la sua Grazia, quei due aiuti: la penitenza che espia il peccato, e la mortificazione che lotta contro la concupiscenza la quale è l'autrice e il principio del peccato.
E perché la concupiscenza è, in pari tempo, nell'anima e nel corpo, sopra ambedue bisogna esercitare la virtù di queste due potenze soprannaturali: penitenza e mortificazione.
Per altro, si tratti di espiare con la penitenza, o di lottare con la mortificazione, le opere dell'una e dell'altra sono simili, e, il più sovente, sono le medesime; hanno caratteri ed effetti differenti, ma lo scopo è il medesimo. Le une sono di genere privativo, come i digiuni e le veglie, che riguardano il corpo, e inoltre, nei sentimenti, tutto quanto contraria la nostra nativa tendenza alla curiosità, alla compiacenza in noi stessi, all'ambizione e alla sensualità; altri sono afflittive, come il lavoro faticoso e le macerazioni, ovvero i pensieri gravi, le meditazioni serie e profonde sopra i fini dell'uomo e i giudizi di Dio.
Bastano questi brevi accenni per farci intendere come sia austera la condizione della nostra vita in questo esilio. È necessario che facciamo penitenza e portiamo nell'anima e nel corpo, «la mortificazione di GESÙ CRISTO». Senza questa lotta e questo lavoro, non v'è salvezza, non v'è cristianesimo: Qui in carne sunt, Deo placere non possun... Si enim secundum carnem vixeritis, moriemini. Qui sunt Christi, carnem suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiis. Si autem spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis (Rm 8, 13 ; Gal 5, 24). E quanto è necessaria questa lotta, tanto deve essere costante, perché il nemico non è mai completamente vinto. «L'amor proprio, dice Bossuet, giunge a estinguere completamente l'amor di Dio; ma, nella presente vita, l'amor di Dio non giunge ad estinguere completamente l'amor proprio» (601). Parola ben grave! Il gran Vescovo assicura che esso esprime uno dei punti principali della fede. Ma che cosa significa, se non che dobbiamo praticare la penitenza e la mortificazione in ogni giorno e durante tutta la vita? Tanto più che la nostra nemica ha due alleati potenti, che sono il mondo con le sue perfide influenze e il dominio con la sua malizia e le sue astuzie infinite.
Sotto quale strana luce ci appare dunque la vita! Evidentemente noi siamo in disgrazia; il peccato altre volte commesso e in seguito sgraziatamente rinnovato con tanta frequenza; l'incitazione attuale al peccato, offesa di Dio e principio, per noi, di perdizione; le opere umilianti che dobbiamo compiere per farci perdonare un tale male e per preservarci dalla ignominia di commetterlo ancora: tutto ciò dimostra che siamo in istato di colpa, e forse degni di odio, come dice la Scrittura (Eccle 9, 1).
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SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO QUINDICESIMO. IMITAZIONE E VITA D'UNIONE CON GESÙ CRISTO
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Nella orazione mentale fatta santamente si opera l'unione con GESÙ CRISTO in un modo affettivo, ma pure reale e talvolta sublime; tuttavia, l'unione si compie soltanto, in modo pratico e completo, nella condotta della vita, nella imitazione perfetta di GESÙ; con la sua vita divina pienamente e sostanzialmente realizzata in noi, per quanto, in questa vita di esilio, è possibile una tal grazia, la più preziosa di tutte.
Si dice comunemente che l'unione perfetta si compie nell'Orazione o Contemplazione; questo è vero, perché nella contemplazione la forza dell'amore, naturalmente, è disposta meglio che nell'azione, ad elevarsi in alto; e inoltre, perché dopo le opere più sante sopravviene di nuovo la contemplazione più elevata non è, per parlare propriamente, la vita reale del tempo presente; perché nei suoi atti, è essenzialmente transitoria; d'altronde, la prova più sicura dell'amore sta nella fedeltà a Dio e a Nostro Signore (Gv 14, 21-22).
La fedeltà!... In questa sta tutta la perfezione possibile; a quella deve dirigere il Sacerdote tutta l'attenzione e l'amore dell'anima. Se manca di fedeltà, egli mette in pericolo la propria salvezza non solo, ma pregiudica gli interessi spirituali di una moltitudine di anime. Un grado di più o di meno nella unione con GESÙ CRISTO, può significare tutto un mondo di effetti diversi nel disegno della Provvidenza e della grazia divina. Santa Teresa diceva alle sue figlie una parola che è molto più vera del Sacerdote che di qualsiasi anima per quanto privilegiata: «Ho conosciuto anime che già erano arrivate allo stato di Orazione di unione, e che furono prese nei lacci del demonio, mercé il concorso di tutto l'inferno; perché ve 1’ho detto bene spesso, non un'anima sola, ma moltissime si perdono in un tal caso. Il nemico sa, come noi, che Dio attira gran numero di anime per mezzo di un'anima sola» (589). Gravi parole da meditarsi!
L'esercizio di imitazione consiste in una applicazione umile, semplice e abituale della mente, del cuore e della volontà, per riprodurre in noi, nei nostri pensieri, nei nostri sentimenti, e in tutta la nostra vita, i pensieri, i sentimenti e la vita di GESÙ CRISTO. L'anima, in tal modo, tiene sempre lo sguardo rivolto a GESÙ CRISTO per attirare in se stesso lo spirito, le disposizioni, il cuore di quella adorabile Vita di ogni vita, onde poter dire con l'Apostolo con tutta verità: Vivit in me Christus (590).
Essa vuole possedere, nel suo interiore e nel suo esterno, i sentimenti, le fattezze e i lineamenti di GESÙ CRISTO; perché il disegno del Padre è che «coloro, ch'egli ha preveduti, siano predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo» (Rm 8, 29), ossia a possederne le virtù tanto esterne che interiori; tal'è pure la pressante raccomandazione dell’Apostolo (591). Essa sa che le virtù sono necessarie; ma il suo desiderio non è rivolto alle virtù considerate in se medesime, bensì, considerate in GESÙ CRISTO, quali si trovano possedute e praticate da GESÙ CRISTO. Non ergo iam nostram vitam, sed Christi vita vivimus, dice sant'Ambrogio, vitam inacentiae... omniumque virtutum... Luceat ergo imago eius in confessione nostra, in dilectione, in operibus et factis; ut si fieri potest, tota eius species exprimatur in nobis. Ipse sit caput nostrum... ipse oculos noster, ut per illum videamus Patrem; ipse vox nostra, per quem loquamur ad Patrem; ipse dextera, per quem Deo Patri Sacrificium nostrum offeramus (592).
Ecco, infatti, quale deve essere l'intima, costante e amorosa vita del Sacerdote: Ut absarbeatur quod mortale est, a vita (2 Cor 5, 4). Ciò che è mortale in noi, è la carne con le sue concupiscenze, ciò che abbiamo per via della generazione da Adamo: la vita, è GESÙ CRISTO, vita unica, santa, eterna. Far passare in noi questa vita sovrana, dimodochè in noi essa domini e governi tutto, i minimi movimenti interiori dell'anima e i sensi esterni coi loro atti propri, il presente e l'avvenire, la vita privata e gli atti del ministero, perché tutto ciò non abbia nome che davanti a Dio ed agli angeli: ecco la vita di Nostro Signore, che è tutto per il Sacerdote, Ad ipsum, dice ancora sant'Agostino, studia dirigimus, ad Ipsum vota nostra conferimus; quia Ipse est plenitudo, Ipse est consummatio universorum (In Psalm., XL).
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SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO. L'ORAZIONE MENTALE
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Quanto è bella la vita del Sacerdote! GESÙ CRISTO, sempre GESÙ CRISTO; omnia et in omnibus Christus. Nei suoi studi e nelle sue letture, il Sacerdote non cerca che GESÙ CRISTO, non vede che GESÙ CRISTO, non sente che GESÙ CRISTO. In tutte le sue opere del ministero, egli contempla, e serve GESÙ CRISTO; non ha altro scopo di farlo regnare, per mezzo dell'amore, in se stesso e nelle anime. «La sua vita è Cristo» (576); la sua perfezione è CRISTO» (577); tutta la sua persona è «la rivelazione di CRISTO» (Gal 1, 15-16). Viene da CRISTO, tende a CRISTO e non si riposa che in CRISTO; dimodochè la sua intera esistenza, secondo una ammirabile espressione di san Dionigi, «non è altro che un movimento e un passaggio dal divino al divino». Assidue perpetuoque divini Spiritus ductu, a divinis ad divina transformetur (578).
La contemplazione, come dice ancora san Dionigi, è la funzione «primaria» del Sacerdote; alla contemplazione egli deve dedicarsi dapprima per suo vantaggio, poi anche per il bene delle anime, poiché secondo san Tommaso, Vita activa praesupponit abundantiam contemplationis (2-2 q. 180 a. 3).
Nella Teologia ascetica e mistica, i termini Meditazione, Orazione e Contemplazione hanno significati differenti e precisi. Qui intendiamo la Contemplazione in quel senso generico indicato da san Tommaso quando dice: Contemplatio pertinet ad ipsum semplicem intuitum veritatis... et in affectum terminatur (III, q. 40, a. 1). Non intendiamo quindi parlare d'uno stato mistico straordinario. San Gregorio dice: Nullum est fidelium officium a quo possit gratia contemplationis excludi; quisquis cor intus habet, illustrari etiam lumine contemplationis potest (In Ezech., II). Ognuno è chiamato alla contemplazione, basta abbia «un cuore dentro di sé», un cuore, ossia una disposizione all'amore, un principio di amor tenero e generoso, che dimentica se stesso e non aspira che all'oggetto amato. Orbene, non è questo forse il cuore del Sacerdote? Noi ci dedichiamo allo studio, per amore; alla lettura, per amore; il nostro cuore è dunque apparecchiato. Paratum cor meum. Che dall'alto ci venga una luce più viva, che lo Spirito di Dio si compiaccia di rivelarci meglio Colui che è la verità, e il nostro cuore si infiammerà, nulla mancherà all'anima nostra per ricevere la grazia tanto desiderata della contemplazione. Una tal grazia è luce e amore: luce viva che attira e assorbe, in un certo grado, lo sguardo dell'anima, alla quale svela le bellezze di Dio e del suo Verbo incarnato; amore, perché tutto va a finire nell'amore in cielo e in terra, perché solamente l'amore opera la dedizione di noi medesimi, il trasporto di noi medesimi in GESÙ CRISTO, e con questo passaggio e trasporto, opera l'unione con Lui. Chi potrebbe dubitare che questa disposizione, queste operazioni interiori, questa tendenza e questa unione non convengano al Sacerdote? San Dionigi dice che a tale unità aspirano omnes qui deiformes sunt (579). Chi è più deiforme del Sacerdote? - Per altro, noi qui chiamiamo Orazione mentale ogni esercizio interiore dell'anima, alquanto prolungato, che mette l'anima in relazione immediata con GESÙ CRISTO, e quindi non solo la meditazione che si fa regolarmente al mattino, ma pure la visita al SS. Sacramento, la preparazione alla santa Messa e il ringraziamento.
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SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO TREDICESIMO. Per la conoscenza di Gesù Cristo Lo studio e la lettura spirituale
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Il Sacerdote che ogni mattina gode l'ineffabile delizia di celebrare la santa Messa, quale parola può aver sulle labbra e nel cuore, se non quella di san Paolo: Mihi vivere Christus est. Vivo jam non ego, vivit in me Christus? (Fil 1, 21; Gal 2, 20). Mistero sublime, di cui la lingua umana non può esprimere la meravigliosa bellezza! La vita di GESÙ CRISTO è nel suo Sacerdote. Ma la vita, di sua natura, è invadente. Quale sarà dunque la perfezione di questa vita divina sempre crescente nell'umile Sacerdote, via via che si succedono le sante Messe e che la Carne e il Sangue viventi del Figlio di Dio, si diffondono, in quell'anima privilegiata, con maggior potenza amorosa e maggior amore potente!...
Per confermare e dilatare sempre più in se medesimo una tal vita di amore, col concorso della propria volontà fedele e generosa, il Sacerdote ha l'ambizione di conoscere sempre più perfettamente il suo Diletto, di contemplarne con amore sempre crescente i misteri e le amabilità, e così giungere ad imitarne sempre con maggior verità e realtà gli stati, le disposizioni e la vita. Conoscenza, contemplazione e imitazione, sono questi i mezzi voluti da Dio per arrivare alla unione perfetta con la nostra adorabile Ostia.
La conoscenza di Nostro Signore si acquista con lo studio e la lettura spirituale; la contemplazione si fa nell'orazione mentale; l'imitazione si effettua con quell'applicazione intera ed abituale dell'anima a GESÙ CRISTO, e questa non è altro che la vita d'unione con Lui. A questa vita lo studio, lavoro dell'intelletto, prepara la via; la lettura spirituale, cui prendono parte l'intelletto e il cuore, forma un principio di unione con Colui del quale lo studio ci ha rivelato la bellezza; l'orazione mentale conferma l'opera della lettura spirituale, muovendo soprattutto il cuore all'amore del Diletto; l'imitazione compie l'unione, per quanto è possibile quaggiù. Lo studio forma il teologo; la lettura spirituale e l'orazione fanno l'uomo interiore; e l'imitazione fa il santo, l'uomo perfetto, il Sacerdote che veramente vive secondo la grazia eminente della propria vocazione.
Parliamo dapprima dello studio. - Che il Sacerdote debba studiare GESÙ CRISTO, è cosa evidente; egli deve amare GESÙ CRISTO con amore intenso; ma, come dice sant'Agostino: Non diligitur quod ignoratur (In Joann. Evangel.). Il Sacerdote, quindi, deve conoscere tutto quanto si può sapere riguardo ai Misteri di GESÙ CRISTO; è questo il suo vero tesoro intellettuale e spirituale, la sua vera vita. Era la grande scienza di san Paolo (553); quella scienza che «forma tutta la nostra gloria», come diceva Geremia (554), anzi è la vita eterna, secondo la parola del Maestro (Gv 17, 3).
La conoscenza di GESÙ CRISTO! Qual soggetto di studio, immenso, sublime, attraente, delizioso! Il Verbo incarnato, la sua natura divina, la sua umanità e l'unione ipostatica; la scienza, la santità, la libertà in GESÙ CRISTO, le sue relazioni col Padre, e con le anime; il suo posto nell'universo, nella storia, nella vita dei popoli e di ciascun uomo; - il suo Sacerdozio con la sua universalità, perpetuità ed efficacia; - la sua Regalità, i diritti della sua sovranità; - la sua storia prima della sua venuta; - l'Opera sua; la sua vita storica, la sua vita interiore destinata ad essere comunicata alle anime redente; - la sua Grazia, i suoi Misteri nel loro senso intimo e nel loro compimento in ciascuno di noi; - la sua vita in Cielo, nella santa Eucaristia e nella Chiesa; l'opera sua immediata e quella che Egli compie mediante la Chiesa; - il suo potere Giudiziario sopra ciascuna delle umane esistenze e sopra l'intero genere umano; - il modo con cui Egli è, in tutta l’opera di Dio, «l'alpha e l'omega, il primo e l'ultimo, il principio e la fine», Colui «nel quale e per mezzo del quale sono tutte le cose, e che è tutto in ogni cosa» (555). Quanti e quali argomenti! Qual campo di studio, immenso e glorioso! Aveva ben ragione Tertulliano: Nobis curiositate opus non est, post Jesum Christum! (De Praescriptione).
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SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO DODICESIMO. LA SANTA MESSA
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La sublimità cui il Sacerdote viene innalzato dall'Ordinazione sacra è assolutamente superiore ad ogni pensiero umano. Neppure gli Angeli potrebbero giungere a intendere perfettamente la dignità, lo stato santo, o meglio per usare il linguaggio di san Dionigi (541), lo stato deiforme al quale viene elevato il Sacerdote. È questo il profondo segreto di Dio. Il Sacerdote è sacerdote in tutta la sua persona e in tutto il suo essere; nell' anima come nella carne: Sacerdote sempre, sia che adempia qualche ministero, ovvero che si presenti come uomo privato. In lui tutto è sacerdotale e quindi tutto è divino; egli pensa e ama divinamente; egli vive, ma non più lui; Dio medesimo vive in lui, quei Dio che lo ha fatto il suo Sacerdote e un altro se stesso. Epperò quando il Sacerdote umile e modesto, Si avvia all'altare rivestito dei gloriosi abiti sacerdotali, tutto s'inchina al suo passaggio, la Chiesa della terra come gli Angeli del Cielo. In quell'anima che per la sacra ordinazione è divenuta un altro CRISTO, vi è una gloria celeste e divina; se fossero visibili i raggi che circondano la sua fronte, il suo volto, il suo cuore e il suo corpo medesimo, tutto nell'universo resterebbe impallidito. Se la grandezza del Sacerdote potesse comparire visibilmente nella sua vera realtà, i re e le regine getterebbero ai suoi piedi le loro corone. Quando si potesse vedere quale inesauribile sorgente di ogni bene si apra per tutte le creature, ogni volta che il Sacerdote alza la mano per benedire e consacrare, ne risulterebbe dappertutto sulla faccia della terra un immenso tripudio di gioia. In cielo avviene un tale tripudio quando il Sacerdote va all'altare, perché quaggiù egli è il concittadino deI Cielo; avviene pure in Purgatorio, poiché il Sacerdote è l'amico, l'aiuto, il liberatore delle anime purganti; avviene anche in una moltitudine di anime, le quali secondo la parola di sant'Ambrogio, «vedendo CRISTO nel Sacerdote, stanno nella luce vera ed infallibile» (542). Ma un tale tripudio di gioia, avviene nell’Ostia in una maniera incomprensibile, più profonda e più amorosa... O Sacerdote! l'Ostia vivente trasalisce, l'Ostia vivente ti aspetta perché vuol venire nelle tue mani; nelle tue mani soprattutto essa si compiace: Essa è tua, e tu sei suo. L'Ostia sempre richiede il suo Sacerdote, e sempre il Sacerdote è una cosa sola con l'Ostia; non possono star separati. La gioia dell'Ostia è di aver il suo Sacerdote; la gioia del Sacerdote è di aver la sua Ostia, mistero bello e delizioso! O impenetrabile abisso di grazia, di pace e di gioia che rimane il segreto del Sacerdote e dell'Ostia!
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SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO UNDICESIMO. La castità sacerdotale – l'uso dei sensi e la condotta della vita
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«O Dio! esclama Bossuet, chi ardirebbe parlare di quella profonda e schifosa piaga della natura, di quella concupiscenza che lega l'anima al corpo con vincoli sì teneri e sì violenti, della quale si ha tanta pena a liberarsi e che causa al genere umano disordini così spaventosi? Guai alla terra! Guai alla terra! Una volta ancora, guai alla terra, dalla quale salgono continuamente un fumo così denso, e vapori così neri, che si innalzano da quelle passioni tenebrose e ci nascondono il cielo e la luce, donde partono pure lampi e fulmini della divina giustizia contro la corruzione del genere umano! Oh! Come ha ragione l'Apostolo Vergine, l'amico di GESÙ e Figlio di quella Vergine che GESÙ medesimo sempre Vergine, le dava per Madre; come ha ragione di gridare con tutta la sua forza ai grandi e ai piccoli, ai giovani e ai vecchi, ai figli come ai padri: Non amate il mondo... perché nel mondo non vi è che concupiscenza della carne!» (Traité de la concupiscence).
Questo grido dell'Apostolo Vergine risuoni pure nei Santuario e getti una specie di spavento in coloro ai quali fu detto, non solo come ai Leviti: Mundamini qui fertis vasa Domini (Is 52, 11), ma inoltre: Glorificate et portate Christum in Corpore vestro (1 Cor 6, 20). Che vuol dire glorificare GESÙ CRISTO nel nostro corpo? portare nella nostra carne e nei nostri sensi lo splendore della sua gloria? partecipare anche nelle miserabili condizioni di questa vita, allo spirito e alla purissima gloria della sua Risurrezione? Ne daremo la spiegazione; parleremo di ciò che è santo evitando di parlare di ciò che sarebbe il disonore del Sacerdote, poiché, come dice Bossuet, «neppure per condannarlo, si può pensarvi senza pericolo».
Il nostro corpo, con tutti i suoi membri e tutti i battiti del cuore, è tutto consacrato. Siamo tutti consacrati interamente come Templi di Dio, Sacerdoti di Dio, Ostie di Dio, Vergini di Dio, per mezzo della grazia del santo Battesimo e degli altri Sacramenti. Ma vi è un Sacramento che porta al suo compimento questa consacrazione, il Sacramento Santo per eccellenza che non è solo una fonte di grazia, ma la grazia e la purità medesima, l'Eucaristia. GESÙ dice a ciascun di noi: «Questo è il mio corpo»; ecco adunque il compimento della nostra unione, il mistero dello Sposalizio divino, incominciato nel Battesimo, che nella Comunione arriva alla sua perfezione. Il corpo di GESÙ non è più suo, ma è nostro; reciprocamente il nostro corpo non è più nostro, ma è di GESÙ. GESÙ vuole possedere il nostro corpo e saremo due in una carne sola. Concorporei facti sumus in Christo una carne pasti et uno spiritu ad unitatem obsignati (S. CYRILL.).
Tale è pure la condizione di tutti i cristiani) in quanto fanno parte del Corpo mistico di GESÙ CRISTO; ma noi abbiamo relazioni oltremodo più intime con l'Ostia purissima.Dio medesimo ci ha dedicati ad una unione ben più santa, con una grazia ben più sublime. La grazia di quel Sacramento che è tutto nostro, è passata come una fiamma divina sulle nostre mani, sulle nostre labbra, sulla nostra carne, su tutta la nostra persona, ha pervaso tutto l'essere nostro per santificarlo, purificarlo, consacrarlo, e in certo qual modo, spiritualizzarlo. L'Ostia è nostra, noi la consacriamo, noi la portiamo nelle nostre mani, noi la diamo ai fedeli e la prendiamo come bene nostro. Perciò dice Bossuet: «Rendiamoci degni di ricevere quel Corpo verginale, quel Corpo concepito da una Vergine, nato da una Vergine. Purificatevi, Ministri sacri che ce lo date. La vostra mano che ce lo porge sia più pura che la luce; la vostra bocca che lo consacra sia più casta di quella delle Vergini più innocenti... Con la santa istituzione della continenza... la Chiesa a quel Corpo Vergine formato da una Vergine, vuole preparare Ministri degni di lui, e darci una viva idea della purezza di questo Mistero» (Méditations sur l'Evangile).
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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO DECIMO. La castità sacerdotale - la mente ed il cuore
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La Castità sacerdotale è la più eminente che vi sia nella Chiesa di Dio; essa è, nella nostra carne decaduta e miserabile, l'immagine della Santità eterna, e ciò che vi corrisponde quaggiù. «La santità, dice Thomassin, è come l'attributo speciale della Divinità, come un santuario segretissimo e, in certo qual modo, il più intimo della natura divina la quale è profondamente ritirata in se stessa e tutta libera da ogni contatto con le creature» (526). Così la Castità è, in modo particolarissimo, l'attributo della nostra vocazione, come un santuario segretissimo dove si contiene ciò che vi ha di più sublIme nella nostra grazia; essa ci separa da ogni cosa. creata e respinge assoÌutamente ed essenzialmente tutto questo riguarda la carne e i sensi.
Grazia eminente, stato tutto soprannaturale, che ci viene da GESÙ CRISTO.
La Santità di Dio si è incarnata. GESÙ CRISTO appunto è la Santità incarnata ed è santo in tutti i suoi Misteri. Ma Egli ha voluto manifestare in un modo più sensibile e più splendente la sua separazione dalle cose create, dalla carne e dai sensi, la sua santità tutta verginale. Lo ha fatto nella sua Risurrezione, la quale, consumando ciò che in lui vi era di mortale e di infermo, rese il suo Corpo in apparenza più santo nella gloria divina. La Risurrezione fu il trionfo dello spirito celeste della Verginità. La vita di CRISTO risorto, come ci insegna san Paolo, dove essere il modello della nostra (527); quindi lo stato di GESÙ risorto ci offre e ci comunica la grazia di un'intera ed assoluta separazione dalla carne e dai sensi; grazia che appunto nella santa Castità, ci stabilisce in uno stato che non è più terreno, ma tutto celeste. Sola est Castitas, dice san Bernardo, quae, in hoc mortalitatis et loco, et tempore, statum quemdam immortalis gloriae repraesentat (Epistol., XLII).
La grazia ammirabile della Castità ci proviene dunque, come dalla sua fonte, dal Mistero della Risurrezione. Ma, nella santa Eucaristia questo Mistero è sempre attuale e sempre opera attualmente in virtù della presenza medesima di GESÙ, in virtù del Sacrificio e per mezzo della santa Comunione; perciò l’azione divina di GESÙ Eucaristico produce le anime caste e verginali. Ma quest'azione si esercita specialmente sulÌe anime che dal Sacerdozio sono consacrate vergini. Nessun'anima infatti travasi esposta all'azione dell'Ostia come quella del Sacerdote; l'Ostia stessa è il suo centro, l'opera sua, il suo bene, la sua Sovrana, la sua Direttrice, il suo Principio, il suo alimento e la sua vita.
Il Sacerdote non è creato e non esiste che per l'Ostia. Orbene, l'Ostia fa le anime Vergini, quindi il Sacerdote è consacrato vergine non solo dalla sua Ordinazione, ma ancora dalle sue relazioni con l'Ostia santa, ch'egli adora, consacra, tocca e mangia. Com'è gloriosa per lui questa molteplice influenza, azione purificatrice che incessantemente si rinnova, consacrazione che sempre più conferma il suo stato verginale. Ne risulta per la sua grazia un triplice carattere a lui proprio. Egli è Sacerdote, Vergine e Ostia: triplice carattere che costituisce la più perfetta unità. Ogni Sacerdote è vergine e Ostia; ogni vergine è misticamente Sacerdote. e Ostia; ogni Ostia è misticamente Sacerdote e Vergine. Così fu di Maria; così di tutte le anime consacrate, ma per ciascuno di noi si aggiunge il carattere speciale che deriva dal Sacramento dell'Ordine. Sublime Mistero che dà alla verginità un posto sì eminente!
Virginitas, ha detto san Gerolamo, holocaustum Christi est. Rem novam loquor: Hostia Castitatis ipsa se portat (528). «La Verginità di Maria, secondo Bourdaloue, «era come un Sacrificio continuo ch'essa offriva a Dio, l'Oblazione del suo corpo ch'essa immolava come un'Ostia vivente» (529). Tertulliano ci insegna che noi siamo Templi consacrati dalla presenza dello Spirito Santo: la castità è la portinaia che custodisce questo Tempio e non vi lascia penetrare nessuna immondezza che possa offendere Dio e farlo uscire da questa santa dimora (530). Sant'Isidoro di Pelusio ci ricorda che siamo i Sacerdoti del nostro proprio corpo, per offrirlo a Dio come «un'Ostia vivente, santa e gradita a Dio» (531); vale a dire, come un'Ostia che diffonda dappertutto un soave odore di verginità. Ascendat ad te, Domine, ci fa dire la Chiesa nella Messa di santa Caterina da Siena, Hostia salutaris, virgineo fragrans odore.
Sacerdote, Vergine, Ostia! quale gloria è mai la nostra! Grazia eminente, «immensamente superiore ad ogni bene terreno»! (Eccli 26, 20). Stato più che celeste e angelico, stato tutto divino, che è la più ammirabile partecipazione allo spirito, alla Grazia, allo stato di GESÙ CRISTO! Stato ammirato dagli Angeli come non meno santo del loro proprio stato, ma con maggior merito, con immensa consolazione del Cuore di GESÙ, con onore e gioia della Chiesa!
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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO NONO. L'UMILTÀ SPECIALE DEL SACERDOTE
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Per il Sacerdote vi sono specialissime ragioni di essere umile e profondamente umile.
I. La sua qualità di Sacrificatore. - In questa qualità, il Prete è veramente un uomo annientato. All'altare, il Sacerdote pronuncia bensì le parole sacramentali della consacrazione; ma chi fa tutto, è GESÙ CRISTO. Il Sacerdote è presente, ha l'intenzione formale di essere ministro del Sacrificio e di usare del potere conferitogli dalla Ordinazione. Ma GESÙ CRISTO solamente, può appropriarsi le parole della Consacrazione: ogni altra persona che le applicasse a sé, direbbe una bugia. Che cos'è dunque diventato il Sacerdote? Sembra che si operi pure in lui quanto, con un miracolo, avviene del pane e del vino. La sostanza della materia del Sacrificio sparisce: ne rimangono solo le apparenze. Così pure, in un certo senso pieno di mistero, la persona dei Prete sparisce al momento della consacrazione, e non ne rimane che un'apparenza. Compiuto il Mistero, fatta la Consacrazione, l'umile Ministro ritorna ad essere ciò che era prima e lo si riconosce dalle parole di supplicazione che pronuncia; ma in quel momento senza pari della consacrazione, solo GESÙ CRISTO è veramente Sacerdote, GESÙ CRISTO, per parlate come i Padri, ha invaso il suo Ministro, ed Egli sola opera (502).
Abbiamo dunque ragione di dire che, in qualità di Sacrificatore, il Sacerdote è un uomo annientato. Ma vi è qui un segreto profondo, nel quale dobbiamo penetrare. Se Nostro Signore compie un tal mistero, non può essere senza qualche grande motivo. Non invade il suo Sacerdote, rendendolo in modo così ammirabile un altro se stesso, senza voler che questa grazia sia duratura. Lo stato ministeriale non può permanere; perché, riguardo al Sacrificio, tutto è compiuto quando è pronunciata l'ultima delle parole sacramentali; e dopo quel momento solenne, il Prete ritorna ad essere lui stesso. Qualche cosa tuttavia rimane: ciò che si è operato dentro di lui, la presa di possesso da parte di GESÙ CRISTO, la vita di questo adorabile Sacrificatore, le sue disposizioni, il suo spirito, le sue virtù; ecco ciò che non passa, se quella benedizione che GESÙ apporta, viene ricevuta con amore e se non vi sono ostacoli ai suoi effetti. Solo GESÙ sta e permane. È dunque vero che il Sacerdote non è più lui medesimo: GESÙ è davvero tutto in lui. «Non sono più io che vivo, GESÙ vive in me». Ma che cosa è mai un tale stato beato? Non è forse esso la vera umiltà? Questa, infatti, nella sua essenza, consiste nella dimenticanza della propria persona; è l'evacuazione dell'io, la morte perfetta a tutto quanto è spirito proprio, all'amor proprio, alla volontà propria, alla vita propria naturale; è il ripudio di tutto l'uomo vecchio, il seppellimento di qualsiasi cupidigia, e infine, per dir tutto in una parola, l'annientamento mistico di tutto l'essere umano, affinché, in questo vuoto, in questa morte, in questo nulla, Dio che si compiace sempre di lavorare sul nulla, possa, a tutto suo bell'agio, pienamente e assolutamente, operare in noi, con la grazia di GESÙ CRISTO.
Il venerato abate Olier, ha scritto pagine ammirabili in proposito; accogliamo con semplicità un insegnamento che pare ispirato dallo Spirito Santo, e piaccia a questo Spirito di verità di farcene intendere tutto il senso!
«Siccome lo stato di GESÙ CRISTO Ostia nel Santo Sacramento, è uno stato che deve servire di modello ai Sacerdoti, coloro i quali saranno chiamati al Sacerdozio, devono, secondo l'avviso che dà loro il Vescovo nell'ordinazione (Imitamini quod tractatis), avere gran cura di mantenersi nelle necessarie disposizioni per essere, col divino Salvatore, altrettante Ostie consumate alla gloria di Dio.
«Perciò, essi saranno morti ad ogni cosa esteriore del mondo, non ne sentiranno più alcuna impressione, come se fossero morti e seppelliti, limitando Nostro Signore nel SS. Sacramento, che, nascosto sotto la specie, rimane insensibile agli onori, ai beni e ai piaceri della terra (503).
«Saranno morti agli usi del secolo e ai costumi del mondo; non ne seguiranno le mode, e fuggiranno tutto ciò che potrà essere conforme al suo spirito; perché morti a questo spirito ed alla generazione del primo Adamo, non devono dare alcun segno di vivere secondo quel primiero stato.
«Saranno inoltre morti a se stessi, non mostrando sollecitudini perciò che li riguarda, come se non esistessero, poiché debbono essere consumati in GESÙ CRISTO, che li farà vivere unicamente per Dio. Sopporteranno in silenzio di essere calpestati, oppressi e persino battuti, a somiglianza delle specie del pane e del vino, che in tal modo sono state trattate per essere ridotte nello stato di poter contenere, sotto la loro apparenza, il corpo di Nostro Signore; anzi la loro sostanza viene distrutta per convertirsi nell'adorabile corpo di GESÙ CRISTO.
«Saranno quindi, i Sacerdoti, contentissimi nell'essere trattati in tal guisa; e non avranno desideri più ardenti che di essere provati con le mortificazioni, gli oltraggi e le persecuzioni (504); e così ottenere che lo Spirito di Nostro Signore annienti, nel loro interiore, tutto quanto v'ha di umano, onde li faccia vivere della sua propria vita e li renda Ostie accettevoli, morte nei sensi esteriori e viventi per Dio nell'interiore.
«Non dovranno desiderare di essere amati, né stimati, poiché non devono aver cosa alcuna cui altri possa attaccarsi. Se scorgeranno alcuna stima della loro persona, dovranno umiliarsi, e confondersi davanti a Dio di aver ancora in sé qualcosa di vivente, che sia degno di affezione e di stima; bisogna sentire con gran pena che si porti affezione e stima a qualche cosa che non sia Dio.
«Se poi ravviseranno di essere stimati per i doni di Dio e non per la loro persona, avranno gran cura di adorar Dio per i suoi doni, e di chiedergli che l'onore ne sia dato a Lui solo, e che non tolleri che la creatura partecipi menomamente alla riconoscenza ed agli omaggi che a Lui unicamente sono dovuti (505). «Bisogna inoltre che i Sacerdoti siano talmente annientati in se medesimi, che, nel servire a Dio, non pensino... che alla sua maggior gloria, unico fine che debbono aver in vista. Non dovranno aver riguardo al proprio interesse di nessuna sorta, perché, essendo consumati in Dio con GESÙ CRISTO, non hanno più nulla che loro appartenga, e, in se medesimi, non sono più nulla. Nel Sacerdote non deve essere nessun io, perché l'io del Sacerdote deve essere convertito in GESÙ CRISTO che gli fa dire all'altare: «Questo è il mio Corpo», come se il corpo di GESÙ CRISTO fosse il corpo medesimo del Sacerdote» (506).
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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO OTTAVO. L'umiltà - Secondo e terzo fondamento: il nostro titolo di cristiani e il nostro stato di peccatori
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Se la condizione di creature ci dà la ragione per la quale dobbiamo essere umili, la condizione di cristiani ci suggerisce l'amore che sarà il peso dal quale saremo trascinati sino al fondo dell'umiltà, l'amore verso GESÙ CRISTO. Pondus meum, amor meus, dice sant'Agostino (486).
Nostro Signore è l'Umiltà medesima, è questo, più che ogni altro, il carattere della sua vita; non solo perché, secondo Origene, Egli è «la sostanza di tutte le virtù», ma perché l'umiltà è come il carattere dominante della sua santità. Questo carattere esterno va sempre aumentando durante i trentatré anni, e dopo si perpetua nel Mistero della Eucaristia. Quando san Paolo dice: Hoc sentite in vobis quod et in CRISTO JESU, qui... semetipsum exinanivit (487), non ci rivela forse questa verità, che GESÙ CRISTO è l'Umiltà? l'opera della nostra Redenzione è un'opera tutta di umiltà. «La vittoria che il Salvatore ha riportata sul demonio e sul mondo, dice san Leone, fu provocata dall'umiltà e consumata nell'umiltà. La nostra causa era persa; essa fu vinta, in virtù del privilegio dell'umiltà del nostro Dio» (488).
Orbene, questa abbondante grazia di umiltà, grazia che trova si in tutto l'essere di GESÙ, grazia caratteristica di tutti i suoi Misteri, è appunto quella ch'Egli ci comunica nel Battesimo. La grazia che è in noi, è quella medesima che è in Lui; non è un'altra grazia, non è nemmeno una grazia solamente simile, ma è identicamente la medesima: «Il nostro Capo, dice sant'Agostino, fonte della grazia, diffonde se stesso in ciascuno dei suoi membri. Ea gratia fit ab initio fidei suae homo quicumque. Christianus, qua gratia Homo ille ab initio suo factus est Christus: de ipso Spiritu est ich renatus, de quo est Ille natus (489).
Noi siamo consacrati umili, come siamo consacrati cristiani e figli adottivi dì Dio. Che questa disposizione e questo carattere della nostra nuova vita siano il fine voluto dal nostro Redentore, nel salvarci, nell'istruirci coi suoi esempi e neI farci parte della propria pienezza, è verità anche questo che forma un oggetto notevolissimo dell'insegnamento dei Padri.
«In paradiso defecit humilitas, dice sant'Ambrogio, ed ideo venit e caelo» (490). E sant'Agostino: Puderet te fortasse imitari humilem hominem, saltem imitare humilem Deum. Ille Deus factus est homo; tu homo, cognosce quia es homo.
E altrove, commentando questa parola del Salvatore, Ego sum via: Via Christus humilis. Quae enim causa humilitatis Christi, nisi infirmitas tua?.. Quo tu ire non potuisti ad eum ille venit ad te; venit docens humilitatem (491).
E tutto ciò è opera dell'amore: «L'amore. dice sant'Agostino, ha reso umile GESÙ CRISTO; l'amore lo ha fatto scendere dal Cielo (492).
Come Capo dunque, GESÙ CRISTO ci dà, a noi suoi membri, dell'abbondanza della sua umiltà; come Dottore, ci insegna la sua umiltà; e la comunicazione che ce ne fa, come l'insegnamento che ne porge, è frutto dei suo immenso amore. Dobbiamo dunque investirci dei sentimenti e delle disposizioni di GESÙ CRISTO e portare esternamente la sua immagine, l'immagine della sua umiltà, che, secondo san Paolo e i Padri, è pure il contrassegno dei Predestinati (493).
Qui, non più la logica inesorabile, che deriva dalla condizione di creature, ci invita all'umiltà, ma l'amore richiesto dalla nostra qualità di cristiani. Per rassomigliare e piacere a GESÙ, per vivere della sua vita intima, staremo ben attenti a non permetterci mai nessun sentimento di stima di noi medesimi, né di compiacenza nelle opere nostre; ma, nel nostro interiore, tutto sarà annientamento di noi stessi, come in GESÙ tutto era annientamento davanti al Padre suo; l'unico indirizzo di tutto quanto avviene in noi, sarà la gloria e l'onore di Dio. Quando poi ci colpirà l'umiliazione, qualunque ne sia la causa, non solamente l'accetteremo, ma l'ameremo; vi ci attaccheremo con gioia, a motivo della somiglianza lontana senza dubbio, ma sempre amabile, ch'essa ci dà col nostro Salvatore. Portare il segno dei lineamenti di GESÙ CRISTO di cui sta scritto: Et vidimus eum, et non erat aspectus (Is 52, 2); aver parte in qualche modo a quegli stati dei quali Nostro Signore medesimo parla per mezzo del suo Profeta: Ego sum vermis et non homo; opprobrium hominum et abiectio plebis (Ps 21, 7), è cosa che procura all'anima che ama GESÙ, intime e profonde gioie. La povertà, l'infermità, tutto quanto rende spregevole la persona, tutto ciò per quell'anima è un bene dei più preziosi. I suoi difetti medesimi, e, dobbiamo dirlo? persino i suoi peccati, le sembrano occasione di profitto spirituale; non già, evidentemente, in se medesimi, ma in quanto questi disordini l'umiliano, l'abbassano e la inducono al disprezzo di se stessa. È questo il pensiero di sant'Agostino in quell'assioma spesso citato: Omnia cooperantur in bonum, etiam peccata (494).
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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO SETTIMO. L'umiltà - suo primo fondamento: la nostra condizione di creature
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L'Umiltà è virtù meravigliosa, misteriosa del pari e semplice; virtù profonda, potente ed estesa, altrettanto facile a conoscersi come difficile a praticarsi; così oscura quaggiù, più oscura ancora nel suo trionfo in cielo; virtù universale e richiesta da tutte le altre; virtù necessaria ad ogni stato e ad ogni grado della vita cristiana; virtù che è l'essenza e come, la sostanza della grazia sacerdotale: chi dice Sacerdote, dice Umiltà.
Se avremo la fortuna di intenderne l'eccellenza, di lasciarci vincere dalle sue attrattive, dalla sua grazia così pura, e infine di fame la consigliera, la direttrice, l'amica e la compagna assidua della nostra vita, noi possederemo un carattere infallibile di Predestinazione; poiché sta scritto: Humilibus dat gratiam... Humiles spiritu salvabit (474).
L'Umiltà è quella virtù, la quale, fondata sulla conoscenza di Dio e di noi stessi per mezzo della Fede, ci porta ad abbassarci, dimenticando, anzi disprezzando noi medesimi. Così da varie parole: dei Padri e dei Dottori della Chiesa (475).
L'Umiltà, quindi, è Figlia della Fede; e, perché la Fede è una partecipazione della luce eterna, nella quale gli Eletti vedono l'essenza divina e, in questa, ogni cosa; la luce di Dio è pure il principio dell'Umiltà. Non è dunque una virtù cieca e ingannevole. Essa invece è piena di chiarezze, ed è infallibile nei suoi giudizi. L'Umiltà vede, da una parte, Dio con tutte le sue perfezioni; dall'altra, il nulla delle creature e i disordini causati dalla loro perversa volontà. Dio è tutto per essa, e in essa tutto è sottomissione a Dio (476): la creatura le appare come un nulla in se stessa, e come degna, nella sua perversità, di abiezione e di disprezzo.
L'Umiltà è quindi in un modo ammirabile una virtù dello stato di Ostia, poiché, con lo sguardo fisso sopra la grandezza di Dio e il nulla della creatura, sottomette, in modo assoluto, la creatura a Dio.
Essa non vuol veder altro che quel Tutto divino e assoluto, e vuole che non vi sia gloria che per Lui. L'Umiltà ha fatto dire quella bella parola d'un Profeta: Domino Deo nostro Justitia: nobis autem confusio faciei nostrae (Bar 1, 15), e ha dato occasione a quest'altra più magnifica ancora: Si ego glorifico meipsum, gloria mea nihil est (Gv 8, 54). Sotto questo aspetto, essa diventa una virtù universale. Per l'Umiltà, tutte le opere nostre, tutte, senza nessuna eccezione, vengono riferite a Dio; nulla, assolutamente nulla ne resta per noi, perché non siamo nulla, non possiamo nulla, non abbiamo diritto a nulla. Si potrebbe persino dire che l'Umiltà è la sostanza di tutte le virtù. La Fede è un atto di umiltà della nostra mente che, senza comprendere, aderisce e si assoggetta alla Rivelazione di Dio; la speranza è l'attestato della nostra insufficienza assoluta per acquistare e possedere certi beni che non possiamo ottenere che dalla promessa affatto gratuita di Dio; la Carità verso Dio, -consiste nel dimenticarci e disprezzarci, smettendo di amare noi stessi per amore dell'oggetto amato (477). La Carità verso il prossimo, se è vera, non è altro che abnegazione. La penitenza non esisterebbe senza Umiltà, e neppure la mortificazione, la pazienza, la dolcezza e la castità (478). Perciò san Leone dice che, per parlar propriamente, «l'Umiltà comprende tutta la vita cristiana» (479).
«La via (per giungere alla Verità), dice sant'Agostino, in primo luogo, è l'Umiltà; in secondo luogo, l'Umiltà; in terzo luogo, l'Umiltà; e se mi interrogate ancora, ad ogni domanda risponderò sempre: l'Umiltà... Che ne ricaveremo noi di tutto il bene che avremo fatto, se la superbia riesce a rapircelo, insinuandovi la sua compiacenza? Gli altri vizi sono da temersi perché ci fanno commettere tante violazioni della legge, ma la superbia è da temersi persino nella virtù, onde ciò che vi è lodevole in noi non sia perduto per il piacere di esserne lodati» (Epist. CXVIII).
I Padri apprezzano in tal modo l'eccellenza e la necessità dell'Umiltà, che, in tutti gli eventi penosi della nostra vita, e persino nel peccato, non sembrano vedere, nei peccatori, come nei giusti, altro che disposizioni evidenti della divina Provvidenza, per farci praticare l'Umiltà, e, con tale mezzo, farci giungere alla salvezza; quasichè, nel caso particolare in cui Dio tollera il peccato, questo Padre infinitamente desideroso del bene delle anime nostre, dia maggior importanza alla salvezza delle sue creature, alle quali il peccato può giovare in quanto le umilia, che non alla sua propria gloria, la quale dal peccato viene offesa e diminuita. Sant'Ambrogio, sant'Agostino, san Gregorio Magno, san Giovanni Crisostomo hanno esposto una tale dottrina in modo ammirabile (480).
Primo fondamento dell'Umiltà: la condizione di Creatura.
Dio solo è l'Essere che esiste e sussiste da se medesimo. La creatura, per parlare propriamente, non è, ma solo esiste; vale a dire che l'essere ch'essa possiede, viene da un altro, e non può sussistere da se stesso. Sotto l'Essere di Dio non v'ha nulla che lo sostenga, niente altro che questo medesimo Essere, necessario, immutabile. Sotto la creatura, invece, v'è la mano di Dio che la sorregge e la conserva nell'esistenza; e sotto la mano di Dio, se si può parlar così, vi è il nulla, sopra del quale la creatura sta sospesa senz'altro sostegno che la volontà del Creatore. Dimodochè la creatura per se medesima, è un nulla, tende al nulla e vi ritornerebbe, se Dio non continuasse l'atto creatore.
Tutto questo, come già fu detto (481), si applica pure ai Santi del cielo, alla Madonna, e persino (mistero profondo!) all'Umanità santa del Figlio di Dio. L'unione ipostatica è un Mistero indefettibile e eterno, la gloria di Maria SS. ma, e dei Santi è stabile come la gloria stessa della SS.ma Trinità. Ma ciò che sorregge essenzialmente sia l'essere dei Santi come l'essere creato del Verbo, non è la gloria, sia pure meritata dalla loro virtù, e neppure la gloria della unione che il Verbo ha contratta, in GESÙ CRISTO, con la umana natura: è unicamente l'Essenza divina, l'Azione divina, sempre la medesima e sempre attuale.
Abbiamo detto che il trionfo dell'Umiltà sta nel cielo; lassù, infatti, essa trova la sua ultima perfezione. In cielo, nella luce stessa di Dio, i Santi vedono, senza possibile oscurità, che solo l'Essere divino è e si sorregge da sé, e che tutto il resto, assolutamente tutto, possiede un essere solamente ricevuto in prestito, un essere che sussiste unicamente in virtù della comunicazione di Dio e di una creazione incessante.
Intendiamo noi in tal modo l'Umiltà? Siamo persuasi che l'Umiltà non è altro che il perfetto buon senso, e l'ordine essenziale? Non si tratta qui né di ascetismo, né di perfezione spirituale, ma di giustizia, di verità e di elementare filosofia cristiana.
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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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Lo scoraggiamento!... Male gravissimo che contiene una moltitudine di illusioni, di errori, di debolezze e di colpe. Non è soltanto una disposizione difettosa; è uno stato pessimo. La presunzione che è il contrario, è forse meno pericolosa, benché sembri più colpevole. Per l'anima presuntuosa, non si prova che ripugnanza: per il povero scoraggiato si sente invece pietà e compassione; anzi si partecipa alla sua pena, secondo che esige la carità. Ma, in realtà, lo stato dell'anima scoraggiata è funesto e non produce che male. In un semplice fedele, lo scoraggiamento è un principio di rovina, in un Sacerdote sarebbe una minaccia di una moltitudine di rovine.
Consideriamo questo male, questo vero flagello, prima nell'opera della nostra santificazione personale, e poi in quella della santificazione delle anime.
La fonte di ogni scoraggiamento, invariabilmente, è la dimenticanza di ciò che Dio è riguardo a noi, e di ciò che siamo noi stessi.
Che cosa è Dio per noi? Dio ha la volontà di renderci eternamente felici nella visione e nel possesso della sua Essenza. Dire soltanto che si tratta di un volere serio, fermo, stabile, permanente, c: troppo poco; anzi quasi una irriverenza. Dio vuole da Dio.
Questa sua volontà ci è stata rivelata dalla sua parola. La sua parola è una promessa, e la sua parola e la sua promessa sono Dio medesimo, il suo Essere essenziale, infinitamente vero, santo e infallibile, quindi sono infallibili né possono mancare. E perché la parola e la promessa divine sono Dio stesso, così il pegno che di questa promessa abbiamo ricevuto è ancora Dio medesimo: questo pegno non è altro che il Figlio di Dio. «Egli in tal modo ha amato il mondo che gli ha dato il suo proprio Figliolo» (Gv 3, 16). Lo ha dato non per necessità, ma come un dono, per amore; nessun dono è paragonabile a quello che viene fatto per amore. Se il pegno è Dio stesso, che cosa potrebbe mai mancarci per toglierci ogni dubbio? E questo mai è rigoroso e senza eccezione. «Avendoci dato il suo Figlio, come non ci avrebbe donato con esso ogni cosa, omnia?» (460). Così ragiona san Paolo. Quell'omnia, tutto, che cosa può significare se non tutto ciò che è nel Figlio? e veramente, fuori di Lui non v'è nulla. Quel tutto, adunque vuol dire, per la presente vita, ogni grazia, secondo i bisogni che possono occorrere. Noi siamo perciò costituiti, fin dal primo momento della nostra esistenza, nella via del Cielo; il nostro primo passo è un passo verso il Cielo. Appena il Battesimo ha consacrato la nostra vocazione e posto il suggello alla volontà del nostro Dio, noi andiamo al Cielo come ogni cosa va al suo fine. Si parla, è vero, anche nella Scrittura, di una duplice via the all'ingresso nella vita si apre davanti ai passi dell'uomo. Ma se noi guardiamo solamente il disegno di Dio, vi è una via soia: quella tracciata dalla volontà dell'eterno Amore del Padre. A destra e a sinistra non vi sono che precipizi - ahimè! molto frequentati, a segno che vi si vedono sentieri troppo larghi, più larghi anzi della via per la quale camminano i figli di Dio; ma tali spaziosi sentieri furono tracciati non già da Dio, ma dagli uomini smarriti nell'abuso della loro libertà. L'unica via, la via di Dio, è la sua volontà di salvare tutti gli uomini (1 Tm 2, 4) e perché nessuno ignori che la via è una sola, e qual è questa via, Colui che è il pegno deI Cielo, «il Figlio a noi dato» (Is 9, 6) ha detto: «Io sono la Via» (Gv 14, 6). Egli è la via del Cielo, via talmente sostanziale che «chiunque porta il proprio sguardo sopra di Lui, vede il Padre» (Gv 14, 9). Egli è tale via sicura, con l'infinita varietà dei mezzi che non lasciano posto né a smarrimenti, né a ritardi; poiché per tutti quelli che vi entrano Egli stesso è luce, forza, sostegno con ogni sorta di aiuti e di grazie. E quando diciamo: ogni sorta di aiuti e di grazie, noi intendiamo tutto quanto GESÙ è, tutto quanto Egli ha fatto e continua a fare per noi, la sua Chiesa, i suoi Sacramenti, il suo Sacerdozio, e infine l'incomprensibile meraviglia della sua costante e potente azione con la grazia attuale sotto qualsiasi nome e qualsiasi forma, per mezzo di ogni sorta di strumenti e di ministeri.
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Scaricato: maggio 28, 2011, 10:56am CEST
La speranza e la fiducia in Dio
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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO QUINTO. LA SPERANZA E LA FIDUCIA IN DIO
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La Visione beatifica, ossia il compimento finale di quella comunicazione di se medesimo che Dio ci fa, fin da questa vita, con la grazia santificante, ecco l'oggetto della virtù della Speranza.
Non si può raggiungere un fine senza i mezzi adatti; perciò è pure oggetto di questa virtù l'aiuto soprannaturale da parte di Dio, ossia la grazia. Ma il termine nel quale si fissa e riposa la nostra speranza, è quella Visione eterna, beatifica e deifica.
Orbene, la nostra Speranza è fondata sulla parola stessa di Dio, il quale ci ha rivelato la sua decisa volontà di destinarci a quella suprema Beatitudine. La nostra vocazione al Paradiso è dunque, dal lato di Dio, essenzialmente sicura. Questa vocazione ci costituisce esseri soprannaturali, e Dio ce ne dà il pegno, con la grazia santificante e le grazie attuali. Siccome poi la volontà che Dio ha di ammetterei un giorno alla visione e al possesso di se stesso è assolutamente ferma, stabile e permanente, anche la volontà di darcene il pegno è pure assolutamente ferma, stabile e permanente.
Tale è il fondamento della Speranza. Per rendere in noi, soprattutto in noi Sacerdoti, sempre più robusta questa grande Fede e questa magnifica Speranza, dobbiamo qui richiamare una verità che forse non meditiamo abbastanza.
Dio Padre ci ha fatto una promessa infallibile, e ce ne ha dato un pegno. Orbene, qual è questo pegno? Niente altro che GESÙ CRISTO Nostro Signore, principio ed esemplare dell'ordine soprannaturale, autore della grazia, consumatore della nostra Fede e della nostra Speranza. GESÙ CRISTO è il pegno delle promesse del Padre; e questo pegno è veramente nostro, perché è stato dato a noi. Quel GESÙ, il quale vede e possiede il Padre; quel GESÙ che in qualità di Figlio, eternamente, essenzialmente, per proprio diritto, gode del Padre; quel GESÙ che è uno col Padre; proprio quel medesimo GESÙ è il pegno e il dono del Padre, dono perfetto, dono irrevocabile tanto nel proposito di Colui che ce lo fa, come nel proposito e nella volontà di Colui che è il dono medesimo; poiché Egli è una persona divina che dona se stessa con la medesima pienezza con cui ci viene data. Quanti testi della Scrittura ci assicurano di questa verità! (445).
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Scaricato: maggio 21, 2011, 9:45am CEST
Lo spirito e la vita di fede
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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO QUARTO. LO SPIRITO E LA VITA DI FEDE
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È bello lo studio che ha per oggetto la Visione beatifica, non solo perché la Visione beatifica è il termine della nostra speranza, ma pure perché ci presenta, fin da questo esilio, lo spettacolo più delizioso che l'occhio umano possa contemplare. La Visione beatifica è la vista chiara, immediata di Dio nella sua vita nell'Eternità; la vista perfettissima di tutto quanto Egli è in se stesso e di tutto quanto opera entro se medesimo, vista che è partecipazione della conoscenza che Dio ha di sé, e quindi, partecipazione di quell'atto ineffabile con cui il Padre eternamente genera il Figlio; in quella guisa che la carità verso Dio, che nasce necessariamente da tale visione, carità immensa, per quanto è possibile in una creatura, è partecipazione dell'atto eterno con cui il Padre e il Figlio sono principio dello Spirito Santo per via di spirazione.
La visione di Dio nei beati è ineguale, secondo l'ineguaglianza dei meriti; essa è pure limitata, a motivo dell'infinità del suo oggetto che è l'Essenza divina, la quale non può essere compresa da qualsiasi creatura per quanto elevata. Ma è visione totale e plenaria, poiché la luce nella quale essa si compie, è Dio medesimo: Dio Padre ne è la fonte, Dio Figlio è la Luce stessa che ci vien data, - Lucerna est Agnus - (Ap 21, 23), lo Spirito Santo la infonde Egli stesso nell'anima dell'Eletto (425); dimodochè, in virtù di tale unione dello Spirito Santo con l'Eletto, questo viene elevato a un grado tale di eccellenza da renderlo atto a percepire l'oggetto della beatifica Visione, che è Dio, e da compiere l'atto incessante di questa visione che gli dà il godimento continuo ed eterno di Dio (426).
Tale è la natura della Visione beatifica; ma è d'uopo aggiungere ciò che ne è una conseguenza, cioè, che i Santi non solamente vedono Dio, ma in Dio vedono pure le creature, se non nella luce medesima della gloria - ciò che non sembra necessario, - almeno nella luce divina, la quale è ancora Dio stesso; questa luce è il Verbo, perché nel Verbo tutto si contiene (427); è anche lo Spirito Santo, perché non andiamo al Verbo che per mezzo della grazia dello Spirito Santo (428). I Beati veggono tutte le creature, tutte quelle che sono nel cielo, tutte quelle che sono sulla terra, le anime umane, il mondo esterno, i minimi oggetti, tutto quanto è bene e tutto quanto è male; sono persino testimoni di quanto avviene negli abissi dell'eterna perdizione; vedono e conoscono tutte le cose, non in se medesime, ma in Dio e in quella luce divina che è Dio stesso (429); e questa visione è senza pena né turbamento; anzi è gioia e amore, perché, dappertutto e in ogni cosa, essi vedono l'azione santissima di Dio, la manifestazione dei suoi diritti e della sua gloria. Inoltre, benché nulla possa essere veramente aggiunto alla loro Beatitudine, ciò che delle cose create essi contemplano e conoscono in Dio e nella sua luce, dà luogo ad un accrescimento di quella felicità accidentale, di cui, secondo la teologia, viene, per soprappiù, dotata la loro felicità essenziale che è la visione dell'Essenza divina.
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Scaricato: maggio 14, 2011, 12:40pm CEST
La fede
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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO TERZO. LA FEDE
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Chi dice Sacerdote dice Ostia. Chi dice Ostia dice Religioso; chi dice Ostia perfetta dice Religioso perfetto. Il Sacerdote è il perfetto Religioso di Dio; la Religione che è il complesso ammirabile degli omaggi dovuti a Dio è in fondo, la sostanza, la grazia interiore, il carattere esterno di tutta la vita come di tutto l'essere del Sacerdote. Ma la Religione abbraccia e comprende gli atti di tutte le virtù (403); perciò il Sacerdote, vero e perfetto Religioso di Dio, è sempre Ostia nella pratica di tutte le virtù, perché ne osserva e ne esercita gli atti in ispirito di Ostia.
Secondo il sentimento dei Padri, la pratica medesima delle virtù soprannaturali è un Sacrificio perpetuo; sia a causa della Religione che «comanda a tutte le virtù» (404), sia perché intrinsecamente nessuna virtù si forma in noi senza l’immolazione e il sacrificio di tutto quanto vi si oppone (405). li
Il Sacerdote, Ostia di Dio, Ostia eletta, preferita, consacrata in una maniera speciale, solenne e autentica, è dunque obbligato; più di qualunque fedele, alla pratica perfetta delle virtù cristiane.
La prima di tutte le virtù cristiane, è la Fede, perché questa le costituisce cristiane. In questo senso, la Fede precede la Religione, perchè «per avvicinarsi a Dio» e rendergli omaggio, «prima di tutto bisogna credere che Egli è» (Eb 11, 6) quale lo dobbiamo onorare, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Orbene, dalla Fede conosciamo che cos'è Dio. Ma, sotto un altro aspetto, la Fede è parte della virtù di Religione, perché tutti i suoi atti sono omaggi resi a Dio, prima alla sua veridicità che è il motivo della nostra fede, poi agli altri divini attributi, quando essi sono l'oggetto della fede. Questa virtù teologale si riferisce ancora alla Religione, perché essa è un sacrificio e una immolazione perfetta della nostra ragione (406). Nell'atto di fede, infatti, la ragione senza vedere, crede così fermamente e anche con maggior forza che se vedesse (407).
Questa Fede religiosa è il carattere distintivo del cristiano, il quale, per tal motivo, viene chiamato con quel bel nome di fedele, vale a dire, che ha la fede. San Giovanni Crisostomo professava la più grande ammirazione per questo nome glorioso, né dubitava di dire che la fede forte e accompagnata dall'amore è il culto più onorevole che Dio possa ricevere dalle sue creature, e in pari tempo la prova di una mente superiore e di un'alta intelligenza: «Generosissimi est animi... mentisque sublimis... Deum certe colit qui praecepta implet; multoque magis hic qui per fidem philosophatur. Ille quidem ipsi obedivit; hic vero convenientem de illo opinionem concepit, et magis quam per operum ostensionem ipsum glorificavit» (408).
Orbene, il Sacerdote è il fedele per eccellenza, e «il modello di tutti i fedeli nella fede»; l'uomo della «mente grande, generosa, elevata»; l'uomo dei pensieri «sublimi», che onora e glorifica Dio, formandosi grandi concetti della sua Maestà, della sua essenza e della sua opera, perché è per intero «applicato a ciò che riguarda la fede» (1 Tm 4, 11-12); egli sa, secondo un detto di sant'Agostino, che «la fede lo ha ordinato e consacrato Sacerdote» (409). Perciò la fede, «la fede del Figlio di Dio», la fede di cui «GESÙ è Autore e Consumatore», è veramente l'unica sua vita» (410).
La Fede deve essere illuminata, vorremmo dire dotta, purissima, - semplice, - ferma, - forte.