SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
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CAPITOLO SEDICESIMO. Il sacerdote sempre ostia
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San Gregorio Magno ha detto: «Per avvicinarci a Colui che sta al disopra di noi e salire sino a Lui, bisogna rinunciare a noi stessi e sacrificare tutto ciò che siamo» (599). Perché Colui che, sta al disopra di Noi, GESÙ CRISTO nostra Signore, scenda sino a noi e si faccia padrone dell'anima nostra, dimodochè tutto in noi sia consumato dal fuoco della sua onnipotenza e dal suo amore, bisogna che 1'anima nostra aspiri a diventare un Sacrificio perfetto. Il Sacrificio, ecco la nostra condizione, ecco quale deve essere il nostro stato permanente e universale.
Nell'Antico Testamento v'era una legge chiamata la legge dell'Olocausto, promulgata in questi termini: Haec est lex Holocausti: Cremabitur in altari tota nocte usque ad mane... Ionis in altari semper ardebit quem nutriet Sacerdos... Ignis est iste perpetuus qui numquam deficiet in altari (Lv 6, 9-18). Questa legge divina che il Verbo aveva fatta, dal Verbo incarnato venne fedelmente compiuta. Il suo Olocausto è eterno; il fuoco che consuma questo Olocausto, è da Lui, unico Sacerdote di Dio, perpetuamente mantenuto nel suo ardore, né mai si estinguerà. La sua vita terrestre, la sua vita del cielo, la sua vita eucaristica non sono che una medesima vita; e questa vita che cosa è mai se non il perpetuo Olocausto? Parimenti, questa legge viene pure adempiuta dalla Chiesa. Se lo Sposo è un Olocausto permanente, come mai la Sposa non sarebbe, essa pure, in istato di Sacrificio perpetuo? Se il Capo è sempre immolato e consumato nelle fiamme della sua Religione e del suo Amore per il Padre, come mai il Corpo, che è ancora Lui medesimo secondo l'insegnamento instancabile di san'Agostino; non vivrebbe nelle fiamme di un Olocausto eterno? GESÙ CRISTO per intero, GESÙ CRISTO nella sua carne e nel suo corpo mistico; GESÙ CRISTO, prima della sua venuta, e GESÙ CRISTO dopo la sua venuta: GESÙ CRISTO vivente nelle anime giuste che l'aspettavano, e vivente, dopo l'Incarnazione, in quelle che l'hanno accolto; GESÙ CRISTO in cielo e GESÙ CRISTO nella sua Chiesa, è l'Olocausto di Dio, che porta in se stesso il mondo intero per farne pure l'Olocausto di Dio, affinché si compiano tutti i disegni della creazione e della Redenzione. Ut sit Deus omnia in omnibus. Noi ritorniamo volentieri su questa dottrina, come per una attrattiva irresistibile, tanto più che ne risulta sempre questa conclusione così pratica. Dunque, noi Sacerdoti siamo Ostie, sempre Ostie; sempre stiamo sull'Altare dove arde un fuoco che non si estingue mai, fuoco che noi medesimi dobbiamo alimentare con le nostre buone opere e le nostre virtù.
Al Sacerdote si applicano in modo tutto speciale le parole che sant'Agostino rivolgeva ai fedeli: Noli extrinsecus pecus quod mactes inquirere, habes in te quod occidas (Ps. 50). Così la sua vita intera deve essere un perpetuo Sacrificio.
Il Sacerdote sta davanti al Signore e, in unione con GESÙ CRISTO, gli rende ogni sorta di omaggi. Nelle relazioni con le anime, si dedica in loro favore ad ogni sorta di opere di carità. In riguardo a se medesimo, deve lavorare alla propria riforma e mortificare il suo spirito e la sua carne, progredire nella virtù e giungere alla perfezione, la quale consiste nella unione con GESÙ CRISTO, intima, abituale e sempre crescente. Orbene, queste diverse relazioni con Dio, con le anime e con se medesimo costituiscono per il Sacerdote lo stato permanente di Ostia. Ci limiteremo qui a parlare del lavoro interiore cui deve attendere il Sacerdote onde raggiungere finalmente quel grado di santità di cui dice il Pontificale: In eis eluceat totius justitiae forma. Orbene, in un tal lavoro soprannaturale, umile e costante, effetto del suo amore per Colui che lo ha eletto, il Sacerdote è realmente sempre Ostia.
In fondo ad ogni vita umana, nell'anima con le sue potenze, nel corpo con i suoi sensi, sta la perversa e mortifera concupiscenza. Il Battesimo che pur dà una vita nuova e uno spirito nuovo, con nuove inclinazioni e disposizioni, non libera da questo terribile e ostinato nemico. La concupiscenza è in noi, o meglio, è il nostro essere medesimo. Ricordiamo le parole di san Paolo: Scio quod non habitat in me, hoc est in carne mea, bonum. E queste altre di san Giacomo: Unusquisque tentatur, a concupiscentia sua abstractus et illectus. È una lotta continua tra la carne e lo spirito, e, pur troppo, la carne, ossia la concupiscenza prevale sullo spirito. Avviene allora, come dice lo Spirito Santo, un parto funesto di questa nemica vittoriosa; essa concepisce, poi partorisce il peccato, e il peccato genera la morte (600). Condizione oltremodo dolorosa! Si comprende il lamento di san Paolo: Infelix!... qui me liberabit? Ma l'Apostolo risponde subito: Gratia Dei per Iesum Christum Dominum nostrum. Questa grazia divina, meritataci dalla Passione del Piglio di Dio, deve preservarci dal peccato, perché onnipotente per ottenerci la vittoria: ma se siamo vili, se non preghiamo, se opponiamo una resistenza troppo debole, la concupiscenza rimane vittoriosa.
La Grazia misericordiosa che ci viene da Dio per mezzo di GESÙ CRISTO, non ci mancherà mai. Senza di essa non possiamo vincere; e se restiamo soccombenti, con la Grazia noi possiamo riparare la nostra disfatta. In qual modo?
Dobbiamo espiare il peccato commesso, e ridurre all'impotenza quel nemico che ce lo ha fatto commettere. Per questo fine, la Grazia di GESÙ CRISTO ci presenta due ausiliari, che furono i compagni del misericordioso Redentore in tutto il corso della sua vita: la penitenza e la mortificazione; non già che GESÙ ne avesse bisogno, ma Egli voleva dare a noi l'esempio (1 Pt 2, 21). Egli si degna dunque di favorirci, mediante la sua Grazia, quei due aiuti: la penitenza che espia il peccato, e la mortificazione che lotta contro la concupiscenza la quale è l'autrice e il principio del peccato.
E perché la concupiscenza è, in pari tempo, nell'anima e nel corpo, sopra ambedue bisogna esercitare la virtù di queste due potenze soprannaturali: penitenza e mortificazione.
Per altro, si tratti di espiare con la penitenza, o di lottare con la mortificazione, le opere dell'una e dell'altra sono simili, e, il più sovente, sono le medesime; hanno caratteri ed effetti differenti, ma lo scopo è il medesimo. Le une sono di genere privativo, come i digiuni e le veglie, che riguardano il corpo, e inoltre, nei sentimenti, tutto quanto contraria la nostra nativa tendenza alla curiosità, alla compiacenza in noi stessi, all'ambizione e alla sensualità; altri sono afflittive, come il lavoro faticoso e le macerazioni, ovvero i pensieri gravi, le meditazioni serie e profonde sopra i fini dell'uomo e i giudizi di Dio.
Bastano questi brevi accenni per farci intendere come sia austera la condizione della nostra vita in questo esilio. È necessario che facciamo penitenza e portiamo nell'anima e nel corpo, «la mortificazione di GESÙ CRISTO». Senza questa lotta e questo lavoro, non v'è salvezza, non v'è cristianesimo: Qui in carne sunt, Deo placere non possun... Si enim secundum carnem vixeritis, moriemini. Qui sunt Christi, carnem suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiis. Si autem spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis (Rm 8, 13 ; Gal 5, 24). E quanto è necessaria questa lotta, tanto deve essere costante, perché il nemico non è mai completamente vinto. «L'amor proprio, dice Bossuet, giunge a estinguere completamente l'amor di Dio; ma, nella presente vita, l'amor di Dio non giunge ad estinguere completamente l'amor proprio» (601). Parola ben grave! Il gran Vescovo assicura che esso esprime uno dei punti principali della fede. Ma che cosa significa, se non che dobbiamo praticare la penitenza e la mortificazione in ogni giorno e durante tutta la vita? Tanto più che la nostra nemica ha due alleati potenti, che sono il mondo con le sue perfide influenze e il dominio con la sua malizia e le sue astuzie infinite.
Sotto quale strana luce ci appare dunque la vita! Evidentemente noi siamo in disgrazia; il peccato altre volte commesso e in seguito sgraziatamente rinnovato con tanta frequenza; l'incitazione attuale al peccato, offesa di Dio e principio, per noi, di perdizione; le opere umilianti che dobbiamo compiere per farci perdonare un tale male e per preservarci dalla ignominia di commetterlo ancora: tutto ciò dimostra che siamo in istato di colpa, e forse degni di odio, come dice la Scrittura (Eccle 9, 1).