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qui a lato: San Marco Krievčanin (1588-1619) e compagni, presbiteri e martiri croati del calvinismo
Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI MAGGIO
IL SACERDOTE E LA PRUDENZA
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Esame sul dominio di sè
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Vi adoro, Gesù, nell'atto di raccomandarmi il dominio di me stesso: In patientia vestra oossidebitis animas vestras (Luc. 21, 19). Secondo S. Giacomo è questo un principio di perfezione: Patientia autem opus perfectum hebet (Iacob., 1, 4). L'uomo padrone di se stesso, possiede un'incontestabile superiorità su chi vive in balia dell'emozione e dell'impressione. Egli usa liberamente delle sue facoltà, delle sue potenze e con tutto il profitto possibile. Sa che il temperamento ha molta influenza in questo, ma sa pure che lo sforzo della volontà supplisce a tutto. E lo deve supplire nel prete, uomo votato alla perfezione e che ha bisogno di mantenersi superiore a tutti: Oportet sacerdotem praeesse; superiore in virtù, in fortezza, in potere influente. Importa dunque assai ch'io sappia dominare me stesso e che rifletta sui mezzi per ottenere tale dominio.
1. - SO DOMINARE ME STESSO?
Chi è padrone di sè non ignora ciò che deve volere e come deve volerlo; vuole ciò che deve, come lo deve. Sono abituato a riflettere prima di parlare o di agire? O, invece, impulsivo, facile all' emozione, o sensibile, impressionabile, seguo il primo impeto senza calcolare l'importanza di quanto faccio o dico? Quante volte forse ho avuto motivo di pentirmi di una parola troppo viva, di un modo di procedere compromettente, di un atto disastroso nelle sue conseguenze. Vi sono pagine che non si riuscirà mai a strappare dal libro, in cui non si vorrebbero scritte per tutto l'oro del mondo. Bisognava non scriverle! Si mancò di gravità, di ponderazione, di serietà, e le conseguenze furono irreparabili.
Sarei forse soggetto a frequenti alterazioni d'umore, allegro al mattino, triste la sera, senza quasi saperne il motivo? Faccio subire a quanti m'avvicinano le bizzarrie del mio carattere indisciplinato?
Sono variabile nei giudizi e negli apprezzamenti, dicendo successivamente bene e male dello stesso fatto, con una rapidità che non lascia tempo di formulare un apprezzamento sicuro?
Forse devo rimproverarmi d'incostanza nel mio modo di fare, di volubilità dì animo, perchè seguo senza riflettere i capricci della fantasia, cui non so porre alcun freno?
Sono irascibile, adirandomi per inezie, gridando, tempestando per la minima contrarietà?
Nelle discussioni alzo troppo la voce, perché non la so contenere in quel tono moderato che è sempre segno di fortezza, se pure non è contrassegno della verità di un'opinione?
Non ho mai sentito dire di me che manco di tatto, d opportunità, di moderazione?
Ah, mio Dio, è davvero gran debolezza, grave disgrazia non saper dominare se stessi!
2. COME DOMINARMI
Buon Maestro, avete detto che il mezzo per dominarmi è la pazienza. Se il vostro Apostolo insegna che la pazienza corona l'opera della perfezione, vuoi dire che tale virtù ne suppone molte altre le quali, in maggioranza, derivano dalla mortificazione.
So mortificare il mio amor proprio senza badare alle suscettibilità, alle gelosie e ambizioni? Mortifico il mio cuore diffidando sempre delle simpatie o antipatie istintive, che orpellando perfidamente le pretese di vile e pericolosa passione? Come mortifico la volontà nei suoi primi moti, nei suoi desideri troppo ardenti, nelle sue impazienze? So mortificare la fantasia, allontanando i ricordi troppo impressionanti, restringendo energicamente il campo dell'immaginazione, sforzandomi di pensare più al presente che all'avvenire? Mortifico la mia attività con fare ogni cosa a tempo debito, e la smania di finire prima ancora d'aver cominciato?
Trascurare uno di questi punti equivarrebbe a rendere impossibile il dominio su me stesso, e vano tutto il mio ministero pastorale. Potrà governare altri e guidarli chi non sa dominare se stesso? Si vedono preti di valore, riuscire sgraditi, insopportabili ai loro parrocchiani, i quali segretamente — o palesemente — sospirano la loro partenza. Perchè? Vittime del loro carattere di cui non hanno saputo valersi per la virtù, si sono alienati la maggioranza dei fedeli, mentre con un po' di discrezione e di tatto sarebbero riusciti a farsi docilmente seguire da una bella, generosa e affettuosa famiglia spirituale.
E per riassumere tutto in breve, sono convinto che l'umiltà è la disposizione più intelligente, la migliore abilità per il vero apostolo? Comprendo il profondo significato del novissimi vrimi del Vangelo? Lo stolto non è mai umile. 1 ignorante non è mai silenzioso, il debole non è mai moderato; soltanto chi è umile, chi è silenzioso, chi è moderato sa possedere se stesso, è saggio davvero.
— Signore, vi supplico di concedermi la grazia preziosa di comprendere bene la lezione del vostro Cuore: Discite a me quia mitis sum et humilis corde, et invenietis requiem animabus vestris (Mat. 11, 29). Seguendo questa luci troverò il segreto della vittoria su me stesso. Me beato se, innalzandomi sulle rovine del mio egoismo e delle sue tendenze immortificate. potrò dire con S. Paolo: ***** infirmor, tunc potens sum (2 Cor, 12, 10).
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qui a lato: San Giovanni Sarkander (1576-1620), presbitero e martire
Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI MAGGIO
IL SACERDOTE E LA PRUDENZA
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Ben a ragione si applicano al sacerdote le parole di S. Paolo: Ex hominibus assumptus, pro hominibus constituitur (Hebr. 5, 1). La prima parola può suggerire riflessioni un po speciali, ma utilissime. Ex hominibus: per fare un prete è necessario un uomo, e siccome il prete è un essere superiore, occorre che in lui l'uomo sia perfetto il più possibile.
Ma la perfezione puramente umana esige un insieme equilibrato ed equilibrante di virtù, delle quali forse non si tiene conto abbastanza: sono le virtù naturali.
Tornerà più facile e attraente il coltivarle, innalzandole all'ordine soprannaturale nel loro principio, nel loro motivo, nel loro fine. Se, invece della ragione, si considera quale principio Dio; se invece d'agire per motivo d'interesse, sia pure delicato e nobile, si segue l'impulso della fede; se, invece di proporsi la soddisfazione di un istinto anche nobile, si mira alla gloria di Dio e alla propria salvezza le azioni si trasfigurano e si praticano le virtù morali cristiane, le quali tendono direttamente a regolare i costumi o la condotta secondo le massime del Vangelo.
Prima fra queste, è la grande virtù di religione, che noi abbiamo meditata in primo luogo perchè essa è come la linfa vitale di tutte le altre virtù. Vengono poi le quattro virtù cardinali, cardine cioè, sostegno della vita cristiana, e prima fra tutte la prudenza.
Il primo libro dei Maccabei fa un'osservazione suggestiva: In die illa ceciderunt sacerdotes in bello, dum volunt fortiter lacere, dum sine consilio exeunt in praelium (1 Mac. 5, 67).
Chi saprebbe dire quante volte la mancanza di prudenza ha reso vano il buon volere, sterile lo sforzo generoso, compromesso situazioni ottime?
La prudenza invece supplisce a molte deficienze e vai certo meglio dell'abilità, perchè l'abilità non è sempre compagna della rettitudine, qualità rara e pur sola capace d'attirare le divine compiacenze e il favore degli uomini. Dio infatti benedice la verità: veritas liberabit vos; gli uomini diffidano dell'abilità e facilmente la prendono per astuzia.
Noi comprendiamo facilmente perché il Maestro ci raccomanda in modo speciale la prudenza: Estote ergo prudentes sicut serpentes (Mat. 10, 15). Ed è cosa, tanto più degna di rilievo, in quanto non sono molte le virtù che Egli ci ha raccomandate come a noi proprie in modo particolare; il sacerdote che deve formare i suoi fratelli non è forse tenuto alla pratica di tutte le virtù?
I Proverbi dicono che la prudenza è la sapienza dell'uomo, meglio, la scienza dei santi: Sapientia autem est viro prudentia et scientia sanctorum prudentia (Prov. 10, 23).
Meditiamo dunque sulla prudenza, considerando
- cos'è,
- che cosa esige,
- che cosa fa evitare.
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Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI APRILE
IL SACERDOTE E LA CARITÀ
Esame sull'amor di Dio
Il Dies irae del sacerdote
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ESAME SULL'AMOR DI DIO
Vi adoro, buon Maestro, mentre rinnovate il precetto che compendia la Legge e i Profeti: Dilìges! La vostra vita umana ne fu la pratica perfetta, poiché del vostro amore per il Padre avete dato la prova che non ammette confronto: la morte.
Devo soprattutto votarmi alla pratica di questo grave precetto. L'Atto di carità me ne indica il programma; lo voglio considerare alla luce del vostro Spirito d'amore.
I. - Mio Dio, vi amo con tutto il cuore. — Ecco l'assolutismo dell'amore di Dio che impegna tutto l'essere umano.
Amo Dio con volontà convinta e sincera? Ho mai confuso le emozioni della sensibilità, le impressioni del fervore con l'amore di Dio? Sono persuaso che l'amore, dono di sé, richiede sacrificio? Misuro la mia fedeltà a Dio dal grado della rinunzia a me stesso? Ho immolato la mente con la vita di fede, il cuore con il distacco da ogni cosa, la volontà con generosa obbedienza, il corpo con la mortificazione? Mi guardo dalle illusioni che tollerano riserve nell'amore, per sacrificare invece all'orgoglio o al senso?
II. - Sopra ogni cosa. — Ecco l'esclusività dell'amore di Dio che vuol essere amato solo; è geloso della sua gloria.
Ho forse lasciato nel mio cuore libero adito ad ogni sorta d'affetti sensibili, naturali e perfino sensuali? Mi turba mai la preoccupazione immoderata per coloro che il dovere m'impone d'amare, come i parenti e i benefattori? Per causa loro, ho forse compiuto qualche volta meno bene i miei doveri individuali o pastorali? Coltivo amicizie, e sopra tutto amicizie femminili che mi espongono al pericolo di peccare e destano ammirazione e scandalo? In proposito, sotto pretesto d'indipendenza ho mai sfidato stoltamente l'opinione pubblica? Oso imporre sistematicamente silenzio alla coscienza quando mi rimorde su questo punto delicato? Le mie relazioni hanno tutte un motivo divino?
Sono generoso con Dio nella prova come nella gioia, nell'umiliazione come nel trionfo? Sono regolare e fedele nelle ore di aridità spirituale, non sottraendo nulla alle mie pratiche di pietà? Non mi sono stancato mai nelle tentazioni, scoraggiato nelle avversità, rinunciando a continuare il lavoro intrapreso? In una parola, cerco di vedere Dio in tutto?
III. - Perchè siete infinitamente buono. — I motivi che l'ispirano specificano l'amore di Dio. L'amore iniziale è l'amore di speranza.
Ho amato Dio con fiducia? Ho compreso che non si può vivere senza speranza, che, pretendere d'andare a Dio senza nulla aspettare da Lui, è stolto orgoglio? Ho invece sollevato la mia volontà sopra se stessa nel pensiero dei beni eterni? Nonostante le mie colpe non ho mai dubitato della misericordia divina? Non ostante le prove, per quanto aspre, ho sempre creduto fermamente alla bontà di Dio per me? Nell'ora del pericolo ricorro istintivamente alla paternità di Dio.
IV. - Infinitamente amabile. — All'amore di speranza segue l'amore di compiacenza, che aderisce a Dio a motivo delle sue perfezioni.
Mi applico alla contemplazione delle perfezioni di Dio con la meditazione, con la lettura degli scritti dei Santi; nelle creature vedo il riflesso della bellezza, della bontà del Creatore? Mi guardo dalle volgarità e banalità che restringono l'orizzonte, per mantenermi in un'atmosfera ideale, pura, santa, compiacendomi di tutto quanto mi parla di Dio e mi accosta a Lui? Ho fatto sempre i sacrifici necessari per non omettere le mie pratiche di pietà, che mi fanno vivere nel soprannaturale?
V. - Amo il mio prossimo come me stesso per amor vostro. — Dopo l'amore di compiacenza, l'amore di benevolenza che vuole il bene dell’amato; il bene di Dio è la sua gloria nella salvezza delle anime.
Sono cosciente dell'obbligo di carità che m'incombe riguardo al prossimo? Evito solerte quanto potrebbe offendere chicchessia, ciò che sarebbe grave, specialmente per un prete? I peccati che si commettono con la lingua sono molti e pericolosi; facilmente intaccano la giustizia e possono compromettere il nostro ministero privandolo della fiducia dei fedeli, irritando le persone offese dal nostro parlare inconsiderato e malevolo. Vigilo sui miei giudizi da cui procedono le parole, studiandomi di pensar bene di tutti?
Ho vero zelo per la felicità eterna delle anime che mi sono affidate, dedicando tutte le mie energie all'apostolato, alla mortificazione, alla preghiera, non rassegnandomi mai ad una quiete stazionaria, che in nessun modo può essere scusato?
— Signore, faccio mia la supplica di S. Margherita-Maria e vi prego con tutto l'animo: «O Cuore ardente e vivente d'amore, o santuario della divinità, tempio della Maestà sovrana, altare della divina carità! Cuore acceso d'amore per Dio e per me, io vi adoro, vi amo, mi struggo d'amore e venerazione alla vostra presenza! Mi unisco alle vostre sante disposizioni; voglio ardere delle vostre fiamme e vivere della vostra vita!» (20).
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qui a lato: San Muziano Maria Wiaux F.S.C.
Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI APRILE
IL SACERDOTE E LA CARITÀ
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Scrive S. Paolo al Corinti: Nunc autem manent fides, spes, charitas, tria haec: mator autem horum est charitas (I, 13, 13).
Lo stesso Apostolo in una commovente preghiera che può essere applicata in modo particolare ai sacerdoti, implora da Dio per i cristiani di Efeso il passaggio dalla fede a un'ardente carità: Ut det vobis secundum divitias gloriae suae... Christum habitare per fidem in cordibus vestris: in charitate radicati et fundati, ... scire etiam supereminentem scientiae charitatem Christi, ut impleamini in omnem plenitudinem Dei (Eph., 3, 16-19).
E' facile stabilire il primato della carità ricordando che Gesù ce la presenta come oggetto del primo e massimo comandamento, che compendia tutta la legge e i profeti; poi riflettendo ch'essa innalza l'uomo a Dio. non perché ne tragga vantaggio, ma affinché riposi in Lui Senza dubbio la carità ci unisce a Dio infinitamente buono e infinitamente amabile, ma per spronarci ad amarlo per Se stesso secondo la bella espressione di S. Bernardo: «Il motivo d'amare Dio è Dio stesso, la misura di amarlo è d'amarlo senza misura» (16).
L'argomentazione di S. Tommaso in proposito è d'una chiarezza precisa: Semper id quod est per se, majus est eo quod est per aliud. Fides autem et spes attingunt quidem Deum secundum quod ex ipso provenit nobis vel cognitio veri vel adeptio boni; sed charitas attingit ipsum Deum, ut in ipso sistat, non ut ex eo aliquid nobis proveniat; et ideo charitas est excellentior fide et spe, et per consequens omnibus aliis virtutibus (17).
E' facile inoltre comprendere che più di ogni altro il sacerdote deve essere eminente in carità. Anzitutto perchè il suo ministero ha per fine diretto e ultimo di crearla, di difenderla, di ripararla, di dilatarla nelle anime: Dii effecti deos efficientes. I santi si formano solo colla carità, vinculum perfectionis (Colos., 3, 14); ora, nemo dat quod non habet. Il prete che non possiede una misura colma, pigiata e sovrabbondante» di carità, non riuscirà mai a comunicarne alle anime una scintilla abbastanza ardente. E' vero che egli dispone dell'efficacia ex opere operato dei sacramenti che amministra; ma questa amministrazione assorbe la minor parte dell'attività del suo apostolato. E poi, perchè i sacramenti producano effettivamente la grazia nelle anime, è necessario che queste apportino nel riceverli disposizioni speciali, dipendenti in gran parte dall'efficacia dello zelo sacerdotale. Se non si può volere per un'altra anima, si può tuttavia aiutarla a volere, e soltanto la carità comunica tale efficacia all'apostolo.
Inoltre, il prete dev'essere eminente in carità perchè, più di ogni altro, è oggetto delle divine predilezioni le quali, secondo S. Giovanni, sono il grande argomento dell'amore. Non si rileggono mai abbastanza queste parole: Deus caritas est. In hoc apparuit caritas Dei in nobis, quoniam Filium suum unigenitum misit Deus in mundum, ut vivamus per eum. In hoc est caritas, non quasi nos dilexerimus Deum, sed quoniam ipse prior dilexit. nos (I Ioan., 4, 9). Quindi l’amore antecedente di Dio, quest'amore provato con il dono del suo Figlio, ci da’ il grande motivo della carità. E fino a qual punto questo motivo s'imponga al sacerdote, ne avremo un'idea mettendo in luce i rapporti di reale e adorabile amicizia che l'uniscono a Gesù. La libera elezione, l'intimità della vita, la comunanza dei beni sono le note della vera amicizia; vediamo come si realizzano fra il sacerdote e Gesù Cristo.
1. LIBERA ELEZIONE
Non è inutile rilevare subito che la carità è anzitutto un'amicizia particolare tra l'uomo e Dio.
Comunemente si da una definizione incompleta dell'amore, dicendo che consiste nella volontà di fare del bene a qualcuno. Questo è benevolenza, e un sentimento di bontà basta a spiegarlo, benché possa essere e generalmente sia un effetto dell'amore. Ma l'amore va più oltre e sospinge l'anima all'intera donazione di sé, all'immolazione per l'amato: Ut animam suam ponat quis pro amicis suis (Ioan. 15, 13). E quando tale sentimento profondo è reciproco si ha l'amicizia. Ascoltiamo S. Tommaso: Nec benevolentia sufficit ad rationem amicitiae, sed requiritur quaedam mutua amatio, quia amicus est amico amicus. Talis autem mutua benevolentia fundatur super aliqua communicatione (18).
Ora, mediante la carità, andiamo a Dio che ci vuoi comunicare la sua beatitudine, La sua vita intima, e andiamo a Lui coll’oblazione di noi stessi ex toto corde, ex tota mente, ex totis viribus. V'è dunque un mutuo scambio che costituisce l'amicizia reale.
Però bisogna rilevare una nota speciale, che, per la sua intensità più o meno vibrata, caratterizza, accentuandolo, il sentimento di cui trattiamo: questa nota è la libertà.
Vi sono affetti imposti quale sacro dovere e non saranno mai qualificati di amicizia, benché suppongano il dono reciproco; per esempio, l'affetto filiale. Non si scelgono i propri genitori. Quindi, per quanto vivo possa essere l'impulso del cuore che ad essi ci porta, non ha a che fare con-l'impulso che ci guida all'amico di nostra elezione. In un senso verissimo e splendido, tutte le anime create da Dio nella sua indipendenza inalienabile, sono scelte da Lui: Elegit nos in ipso ante mundi constitutionem (Ephes., 1, 4). A loro volta esse son libere di andare a Lui o di dannarsi. Ma l'elezione divina del sacerdote è un elezione tutta particolare, che supera ogni altra in delicatezza, in elevatezza, perché i beni che l'amicizia di Dio vuole comunicare al suo ministro sorpassano infinitamente i beni ch'Egli destina al semplici cristiani, fossero anche santi; lo vedremo più innanzi.
Aspirare al sacerdozio vuoi dire aspirare ad una dignità regale, a funzioni sante: Vos autem genus electum, regale sacerdotium, gens sancta, populus acquisitionis, ut virtutes annuntietis ejus qui de tenebris vos vocavit in admirabile lumen suum (1 Petr. 2, 9). Ora, non si ascende ad un trono che per eredità o per elezione; diversamente, sarebbe usurparlo. L'Apostolo non eccettua da questa condizione neppure Gesù Cristo nella sua elevazione al supremo Sacerdozio: Nec quisquam sumit sibi honorem, sed qui vocatur a Deo, tanquam Aaron. Sic et Christus non semetipsum clariflcavit ut pontifex fieret; sed qui locutus est ad eum: Filius meus es tu, ego hodie genut te. Quemadmodum et in alio loco dicit: Tu es sacerdos in aeternum (Hebr. 5, 4 seq.).
Con quanta soavità penseremo dunque a queste parole che Gesù rivolge a ciascuno di noi: Non vos me elegistis, sed ego elegi vos, et posui vos ut eatis et fructum afferatis (Ioan. 15, 16). Quel nostro fratello, quel nostro amico d'infanzia non hanno ricevuto tanto privilegio. A noi, non ad essi, si applica ancora il testo: Praevenisti eum in benedictionibus dulcedinis, posuisti in capite ejus coronam de lapide pretioso (Ps. 20, 3). Eravamo nel Cuore dell'Unico Sacerdote, quando con una scelta ufficiale, creava il collegio apostolico: Elegit duodecim quos et apostolos nominavit (Luc. 6, 13). Non lo fece freddamente, ma in queste elezioni pose quanto in Lui vi poteva essere di meglio, tutte le sue tenerezze anticipate.
Questa grazia preesistente della nostra vocazione ci fu rivelata progressivamente nelle diverse tappe della nostra vita: prima Comunione forse, entrata nel Seminarlo Minore, poi nel Seminario Maggiore, ascensione ai vari gradi che precedono il sacerdozio; ed ogni manifestazione era accompagnata da una luce più viva alla nostra intelligenza, da un più caldo influsso sul nostro cuore, da più valido aiuto alla nostra volontà: Elegit eum et praeligit eum. Siamo stati scelti, separati dalla massa dei fedeli: Vos elegit Dominus ut stetis coram eo (2 Par. 9, 11).
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Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins
Verso le vette della Santità Sacerdotale
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RITIRO DEL MESE DI MARZO
IL SACERDOTE E LA SPERANZA
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2. - POSSIAMO. DOBBIAMO VIVERE DI SPERANZA
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La speranza, virtù teologica, ci fa aspettare Dio stesso. che conosceremo nella luce della sua conoscenza, facie ad faciem, che ameremo nel suo proprio amore nella vita eterna.
Ma questo fine, per essere raggiunto, suppone mezzi, i quali pure formeranno l'oggetto della virtù.
V'è sempre proporzione fra mezzi e fine. Per andare a Dio è necessario l'aiuto di Dio, in altri termini, la grazia; e questo aiuto è certo.
La nostra speranza si fonda sulla parola stessa di Die, il quale, rivelandoci i suoi disegni, ci manifesta pure la sua efficace volontà di chiamarci alla beatitudine superna. Inutile insistere su questo punto; è insegnamento della fede, fondamento della nostra speranza: Universa propter semetipsum operatus est Dominus (Prov. 16, 4), l'essere intelligente, si potrebbe dire, ancor più degli altri, perché creato per Dio. come può dimostrare, e dimostra la stessa ragione, è destinato alla beatitudine infinita.
Ora di tale suo volere di beatificarci. Dio ci ha dato un pegno, e questo pegno è Nostro Signore Gesù Cristo, principio dell'ordine sopranaturale, causa efficiente, causa meritoria, causa esemplare, causa finale della grazia. E' dato a noi Colui che vede e possiede il Padre, che ne gode con eterna sazietà. E' nostro e vuole condurci al Padre, darci al Padre. Adorabile realtà, e sublime mistero! Quante volte abbiamo letto, senza comprenderle, le parole rivelate che affermano tale certezza! Parvulus natus est nobis, et Filius datus est nóbis (Isaia 9, 6). — Sic Deus dìlexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret (Ioan., 3, 16). Destinati a possedere Dio in eterno, lo possediamo fin d'ora nel tempo!
Egli si è dato a noi per associarci alla sua vita: Veni ut vitam habeant (Ioan., 10, 10). — Ego sum vita (id. 14, 6) per applicarci ì suoi meriti: Per quem maxima et pretiosa nobis promìssa donavit, ut per haec efficiamini divinae consortes naturae (2 Petr. 1, 4); ecco il centro preciso e stupendo dei mistero! S. Paolo ne parla con mirabile certezza, tutto riassumendo in questa frase concisa diretta ai Corinti: Et sicut in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivificabuntur (1 Cor. 15, 22).
Come eravamo in Adamo per la nostra rovina, così siamo in Cristo per la nostra salvezza e ciò senza interruzione, poiché Egli compì l'opera sua con tutta la sua vita, con tutti i suoi misteri. Eravamo in Lui quando si incarnava, quando nasceva, quando lavorava, soffriva, moriva, risuscitava, ascendeva al Cielo. Ecco tutta la teologia dell'Apostolo, sotto la penna del quale sovrabbondano i testi: Mortui sumus ***** Christo... (Rom., 6, 2), consepulti sumus ***** ilio... (id., 6. 4). Convivificavit nos in Christo, et conresuscitavit, et consedere fedi in coelestibus in Christo Jesu (Ephes., 2, 5).Che si potrebbe desiderare di più forte e di più soave insieme per infondere ferma speranza? Noi leggiamo ancora nella lettera agli Efesini: Dio ha fatto tutto ciò, ut stenderet in saeculis ervenientibus abundantes divitias gratiae mune in bonitate super nos in Christo Jesu. Gratia enim estis salvati per fidem; et hoc non ex nobis, Dei enim donum est (Ephes., 2, 7) Si stenta a lasciare questo capitolo. Ma no, non lasciamolo; leggiamo ancora, leggiamo sempre, meditiamo tale dottrina e viviamone; con essa dilatiamo i nostri cuori, ravviviamo le nostre anime.
Le hanno gustate i Padri che le predicavano ampiamente. Ecco S. Leone a proposito dell'Incarnazione: Verbum caro factum est, et habitavit in nobis. In nobis utique, quos sibi Verbi divinitas coaptavit, cujus caro de utero virginis sumpta nos sumus 11). E a proposito della Natività, ricordando l'insieme della dottrina: Sicut ***** Christo in Passione crucifixi in Resurrectione resuscitati, in Ascensione ad dexteram Patris collocati, ita ***** ipso sumus in hac Nativitate congeniti 12).
Ecco Tertulllano a proposito della Risurrezione: Quemadmodum enim nobis arrhabonem. Spiritus reliquit, ita et a nobis arrhabonem carnis accepit, et vexìt in coelum, pignus totius summae illuc quandoque redigendae. Securi estote, caro et sanguis, usurpastis et coelum et regnum Dei in Christo 13).
Ecco in fine S. Ambrogio parlando dell'Ascensione: Debuit tamen novo victori novum iter parari; semper enim victor tanquam maior praecelsior est: sed quia aeternae sunt iustitiae portae, eaedemque novi et veteris testamenti, quibus coelum aperitur, non mutantur utique sed elevantur: quia non unus homo, sed totus in omnium Redemptare mundus intrabat 14).
Non insistiamo più oltre, ma riflettiamo che la parola di S. Paolo: Nostra autem conversatio in coelis est (Philip., 3, 20) non è una semplice promessa, ma una realtà. La nostra vita, mihi vivere Christus est (id. 1, 21), è in Cielo. Quando Gesù vi salì glorioso volle collocare anche noi lassù insieme alla sua adorabile umanità: Vado ad Patrem meum et Patrem vestrum... parare vobis lo*****! (Ioan. 16, 38)... Ecco il grande motivo della nostra speranza; motivo ancor più forte per noi sacerdoti se pensiamo che Gesù è nostro più che d'ogni altro.
— Viviamo in alto, molto in alto! Viviamo fidenti anche se il nostro passato ci apparisse «degno di odio», anche se ci sentissimo ricoperti di peccati. Qualche cosa di noi stessi ha già preso posto in Cielo. Il mistero della nostra glorificazione ha bisogno di essere completato, ma in realtà è già cominciato. Questo basta per farci tendere la nostra volontà in uno sforzo generoso che ci permetterà di gustare, umili ma con pace, le ispirate parole che le nostre labbra pronunciano troppo spesso macchinalmente: Pars mea Dominus; propterea expectabo eum (Thren. 3, 24). — Qui confidimi in Domino, sicut mons Sion; non commovebitur in aeternum qui habitat in Jerusalem (Ps. 124,: — In te Domine speravi, non confundar in cesternum (Ps. 30, 1).
E a quest'ultima filiale protesta dell'animo nostro, Dio risponderà: Sacerdotes ejus induam it et sancii ejus exultatione exultabunt Ps 12. 17).