“La dottrina non cambia, la novità riguarda solo la prassi pastorale”. Lo slogan, ormai ripetuto da un anno, da una parte tranquillizza quei conservatori che misurano tutto in termini di enunciazioni dottrinali, dall’altra incoraggia quei progressisti che alla dottrina attribuiscono scarso valore e tutto confidano nel primato della prassi. Un clamoroso esempio di rivoluzione culturale proposta in nome della prassi ci viene offerto dalla relazione dedicata a Il Vangelo della famiglia con cui il cardinale Walter Kasper ha aperto il 20 febbraio i lavori del Concistoro straordinario sulla famiglia. Il testo, definito da padre Federico Lombardi come “in grande sintonia” con il pensiero di Papa Francesco, merita anche per questo di essere valutato in tutta la sua portata.
Punto di partenza del cardinale Kasper è la constatazione che “tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso”. Il cardinale evita però di formulare un giudizio negativo su queste “convinzioni”, antitetiche alla fede cristiana, eludendo la domanda di fondo: perché esiste questo abisso tra la dottrina della Chiesa e la filosofia di vita dei cristiani contemporanei? Qual è la natura, quali sono le cause del processo di dissoluzione della famiglia? In nessuna parte della sua relazione si dice che la crisi della famiglia è la conseguenza di un attacco programmato alla famiglia, frutto di una concezione del mondo laicista che ad essa si oppone. E questo malgrado il recente documento sugli Standard per l’educazione sessuale dell’“Organizzazione Mondiale della Sanità” (OMS), l’approvazione del “rapporto Lunacek” da parte del Parlamento europeo, la legalizzazione dei matrimoni omosessuali e del reato di omofobia da parte di tanti governi occidentali. Ma ci si chiede ancora: è possibile nel 2014 dedicare 25 pagine al tema della famiglia, ignorando l’oggettiva aggressione che la famiglia, non soltanto cristiana, ma naturale, subisce in tutto il mondo? Quali possono essere le ragioni di questo silenzio se non una subordinazione psicologica e culturale a quei poteri mondani che dell’attacco alla famiglia sono i promotori?
Nella parte fondamentale della sua relazione, dedicata al problema dei divorziati risposati, il cardinale Kasper non esprime una sola parola di condanna sul divorzio e sulle sue disastrose conseguenze sulla società occidentale. Ma non è giunto il momento di dire che gran parte della crisi della famiglia risale proprio all’introduzione del divorzio e che i fatti dimostrano come la Chiesa avesse ragione a combatterlo? Chi dovrebbe dirlo se non un cardinale di Santa Romana Chiesa? Ma al cardinale sembra interessare solo il “cambiamento di paradigma” che la situazione dei divorziati risposati oggi esige.
Quasi a prevenire le immediate obiezioni, il cardinale mette subito le mani avanti: la Chiesa “non può proporre una soluzione diversa o contraria alle parole di Gesù”. L’indissolubilità di un matrimonio sacramentale e l’impossibilità di un nuovo matrimonio durante la vita dell’altro partner “fa parte della tradizione di fede vincolante della Chiesa che non può essere abbandonata o sciolta richiamandosi a una comprensione superficiale della misericordia a basso prezzo”. Ma immediatamente dopo aver proclamato la necessità di rimanere fedeli alla Tradizione, il cardinale Kasper avanza due devastanti proposte per aggirare il perenne Magistero della Chiesa in materia di famiglia e di matrimonio.
Il metodo da adottare, secondo Kasper, è quello seguito dal Concilio Vaticano II sulla questione dell’ecumenismo o della libertà religiosa: cambiare la dottrina, senza mostrare di modificarla. “Il Concilio – afferma – senza violare la tradizione dogmatica vincolante ha aperto delle porte”. Aperto delle porte a che cosa? Alla violazione sistematica, sul piano della prassi, di quella tradizione dogmatica di cui a parole si afferma la cogenza.
La prima strada per vanificare la Tradizione prende spunto dalla esortazione apostolica Familiaris consortio di Giovanni Paolo II, laddove dice che alcuni divorziati risposati “sono soggettivamente certi in coscienza che il loro precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido” (n. 84). La Familiaris consortio precisa però che la decisione della validità del matrimonio non può essere lasciata alla valutazione soggettiva della persona, ma ai tribunali ecclesiastici, istituiti dalla Chiesa per difendere il sacramento del matrimonio. Proprio riferendosi a questi tribunali, il cardinale affonda il colpo: “Poiché essi non sono iure divino, ma si sono sviluppati storicamente, ci si domanda talvolta se la via giudiziaria debba essere l’unica via per risolvere il problema o se non sarebbero possibili altre procedure più pastorali e spirituali, In alternativa si potrebbe pensare che il vescovo possa affidare questo compito a un sacerdote con esperienza spirituale e pastorale quale penitenziere o vicario episcopale”.
La proposta è dirompente. I tribunali ecclesiastici sono gli organi a cui è normalmente affidato l’esercizio della potestà giudiziaria della Chiesa. I tre principali tribunali sono la Penitenzieria apostolica, che giudica i casi del foro interno, la Rota Romana, che riceve in appello le sentenze da qualsiasi altro tribunale ecclesiastico e la Segnatura Apostolica, che è il supremo organo giudiziario, con qualche analogia con la Corte di Cassazione nei confronti dei tribunali italiani. Benedetto XIV, con la sua celebre costituzione Dei Miseratione, introdusse nel giudizio matrimoniale il principio della duplice decisione giudiziaria conforme. Questa prassi tutela la ricerca della verità, garantisce un risultato processuale giusto, e dimostra l’importanza che la Chiesa attribuisce al sacramento del matrimonio e alla sua indissolubilità. La proposta di Kasper mette in causa il giudizio oggettivo del tribunale ecclesiastico, che verrebbe sostituito da un semplice sacerdote, chiamato non più a salvaguardare il bene del matrimonio, ma a soddisfare le esigenze della coscienza dei singoli.
Richiamandosi al discorso del 24 gennaio 2014 agli officiali del Tribunale della Rota Romana nel quale papa Francesco afferma che l’attività giudiziaria ecclesiale ha una connotazione profondamente pastorale, Kasper assorbe la dimensione giudiziaria in quella pastorale, affermando la necessità di una nuova “ermeneutica giuridica e pastorale”, che veda, dietro ogni causa, la “persona umana”. “Davvero è possibile – si chiede – che si decida del bene e del male delle persone in seconda e terza istanza solo sulla base di atti, vale a dire di carte, ma senza conoscere la persona e la sua situazione?”. Queste parole sono offensive verso i tribunali ecclesiastici e per la Chiesa stessa, i cui atti di governo e di magistero sono fondati su carte, dichiarazioni, atti giuridici e dottrinali, tutti finalizzati alla “salus animarum”. Si può facilmente immaginare come le nullità matrimoniali dilagherebbero, introducendo il divorzio cattolico di fatto, se non di diritto, con un danno devastante proprio per il bene delle persone umane.
Il cardinale Kasper ne sembra consapevole, perché aggiunge: “Sarebbe sbagliato cercare la soluzione del problema solo in un generoso allargamento della procedura di nullità del matrimonio”. Bisogna “prendere in considerazione anche la questione più difficile della situazione del matrimonio rato e consumato tra battezzati, dove la comunione di vita matrimoniale si è irrimediabilmente spezzata e uno o entrambi i coniugi hanno contratto un secondo matrimonio civile”. Kasper cita a questo punto una dichiarazione per la Dottrina della Fede del 1994 secondo cui i divorziati risposati non possono ricevere la comunione sacramentale, ma possono ricevere quella spirituale. Si tratta di una dichiarazione in linea con la Tradizione della Chiesa. Ma il cardinale fa un balzo in avanti, ponendo questa domanda: “Chi riceve la comunione spirituale è una cosa sola con Gesù Cristo; come può quindi essere in contraddizione con il comandamento di Cristo? Perché, quindi, non può ricevere anche la comunione sacramentale? Se escludiamo dai sacramenti i cristiani divorziati risposati (…) non mettiamo forse in discussione la struttura fondamentale sacramentale della Chiesa?”.
In realtà non c’è nessuna contraddizione nella prassi plurisecolare della Chiesa. I divorziati risposati non sono dispensati dai loro doveri religiosi. Come cristiani battezzati sono sempre tenuti ad osservare i comandamenti di Dio e della Chiesa. Essi hanno dunque non solo il diritto, ma il dovere di andare a Messa, di osservare i precetti della Chiesa e di educare cristianamente i figli. Non possono ricevere la comunione sacramentale perché si trovano in peccato mortale, ma possono fare la comunione spirituale, perché anche chi si trova in condizione di peccato grave deve pregare, per ottenere la grazia di uscire dal peccato. Ma la parola peccato non rientra nel vocabolario del cardinale Kasper e mai affiora nella sua relazione al Concistoro. Come meravigliarsi se, come lo stesso papa Francesco ha dichiarato lo scorso 31 gennaio, oggi “si è perso il senso del peccato”?
La Chiesa dei primordi, secondo il cardinale Kasper, “ci dà un’indicazione che può servire come via d’uscita” a quello che egli definisce “il dilemma”. Il cardinale afferma che nei primi secoli esisteva la prassi per cui alcuni cristiani, pur essendo ancora in vita il primo partner, dopo un tempo di penitenza, vivevano un secondo legame. “Origene – afferma – parla di questa consuetudine, definendola ‘non irragionevole’. Anche Basilio il grande e Gregorio Nazianzeno – due padri della Chiesa ancora indivisa! – fanno riferimento a tale pratica. Lo stesso Agostino, altrimenti piuttosto severo sulla questione, almeno in un punto sembra non aver escluso ogni soluzione pastorale. Questi Padri volevano, per ragioni pastorali, al fine di “evitare il peggio”, tollerare ciò che di per sé è impossibile accettare”.
E’ un peccato che il cardinale non dia i suoi riferimenti patristici, perché la realtà storica è tutt’altra da come la descrive. Il padre George H. Joyce, nel suo studio storico-dottrinale sul Matrimonio cristiano (1948) ha dimostrato che durante i primi cinque secoli dell’era cristiana non si può incontrare nessun decreto di un Concilio, né alcuna dichiarazione di un Padre della Chiesa che sostenga la possibilità di scioglimento del vincolo matrimoniale. Quando, nel secondo secolo, Giustino, Atenagora, Teofilo di Antiochia, accennano alla proibizione evangelica del divorzio, non danno alcuna indicazione di eccezione. Clemente di Alesandria e Tertulliano sono ancora più espliciti. E Origene, pur cercando qualche giustificazione per la prassi adottata da alcuni vescovi, precisa che essa contraddice la Scrittura e la Tradizione della Chiesa (Comment. In Matt., XIV, c. 23, in Patrologia Greca, vol. 13, col. 1245). Due tra i primi concili della Chiesa, quello di Elvira (306) e quello di Arles (314), lo ribadiscono chiaramente. In tutte le parti del mondo la Chiesa riteneva lo scioglimento del vincolo come impossibile e il divorzio con diritto a seconde nozze era del tutto sconosciuto. Quello, tra i Padri, che trattò la questione dell’indissolubilità più ampiamente fu sant’Agostino, in molte sue opere, dal De diversis Quaestionibus (390) al De Coniugijs adulterinis (419). Egli confuta chi si lamentava della severità della Chiesa in materia matrimoniale ed è sempre incrollabilmente fermo sull’indissolubilità del matrimonio, dimostrando che esso, una volta contratto non si può più rompere per qualunque ragione o circostanza. E’ a lui che si deve la celebre distinzione tra i tre beni del matrimonio: proles, fides e sacramentum.
Altrettanto falsa è la tesi di una duplice posizione, latina e orientale, di fronte al divorzio, nei primi secoli della Chiesa. Fu solo dopo Giustiniano che la Chiesa di Oriente iniziò a cedere al cesaropapismo, adeguandosi alle leggi bizantine che tolleravano il divorzio, mentre la Chiesa di Roma affermava la verità e l’indipendenza della sua dottrina di fronte al potere civile. Per quanto riguarda san Basilio invitiamo il cardinale Kasper a leggere le sue lettere e a trovare in esse un passo che autorizzi esplicitamente il secondo matrimonio. Il suo pensiero è riassunto da quanto scrive nell’Ethica: “Non è lecito ad un uomo rimandare la sua moglie e sposarne un’altra. Né è permesso ad un uomo sposare una donna che sia stata divorziata da suo marito” (Ethica, Regula 73, c. 2, in Patrologia Greca, vol. 31, col. 852). Lo stesso si dica dell’altro autore citato dal cardinale, san Gregorio Nazianzeno, che con chiarezza scrive: “il divorzio è assolutamente contrario alle nostre leggi, sebbene le leggi dei Romani giudichino diversamente” (Epistola 144, in Patrologia Greca, vol. 37, col. 248).
La “pratica penitenziale canonica” che il cardinale Kasper propone come via di uscita dal “dilemma”, aveva nei primi secoli un significato esattamente opposto a quello che egli sembra volergli attribuire. Essa non veniva compiuta per espiare il primo matrimonio, ma per riparare il peccato del secondo, ed esigeva ovviamente il pentimento di questo peccato. L’undicesimo concilio di Cartagine (407), ad esempio, emanò un canone così concepito: “Decretiamo che, secondo la disciplina evangelica ed apostolica, la legge non permette né ad un uomo divorziato dalla moglie, né a una donna ripudiata dal marito, di passare ad altre nozze; ma che tali persone devono rimanere sole, oppure si riconcilino a vicenda, e che se violano questa legge, essi debbono fare penitenza” (Hefele-Leclercq, Histoire des Conciles, vol. II (I), p. 158).
La posizione del cardinale si fa qui paradossale. Invece di pentirsi della situazione di peccato in cui si trova, il cristiano risposato si dovrebbe pentire del primo matrimonio, o quanto meno del suo fallimento, di cui magari egli è totalmente incolpevole. Inoltre, una volta ammessa la legittimità delle convivenze postmatrimoniali, non si vede perché non dovrebbero essere consentite le convivenze prematrimoniali, se stabili e sincere. Cadono gli “assoluti morali”, che l’enciclica di Giovanni Paolo II Veritatis splendor aveva con tanta forza ribadito. Ma il cardinale Kasper prosegue tranquillo nel suo ragionamento.
“Se un divorziato risposato -1. Si pente del suo fallimento nel primo matrimonio, 2. Se ha chiarito gli obblighi del primo matrimonio, se è definitivamente escluso che torni indietro, 3. Se non può abbandonare senza altre colpe gli impegni assunti con il nuovo matrimonio civile, 4. Se però si sforza di vivere al meglio delle sue possibilità il secondo matrimonio a partire dalla fede e di educare i propri figli nella fede, 5. Se ha desiderio dei sacramenti quale fonte di forza nella sua situazione, dobbiamo o possiamo negargli, dopo un tempo di nuovo orientamento (metanoia), il sacramento della penitenza e poi della comunione?”.
A queste domande ha già risposto il cardinale Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (La forza della grazia, “L’Osservatore Romano”, 23 ottobre 2013) richiamando la Familiaris consortio, che al n. 84 fornisce delle precise indicazioni di carattere pastorale coerenti con l’insegnamento dogmatico della Chiesa sul matrimonio: “Insieme col Sinodo, esorto caldamente i pastori e l’intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza. La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia”.
La posizione della Chiesa è inequivocabile. La comunione ai divorziati risposati viene negata perché il matrimonio è indissolubile e nessuna delle ragioni addotte dal cardinale Kasper permette la celebrazione di un nuovo matrimonio o la benedizione di un’unione pseudo-matrimoniale. La Chiesa non lo permise ad Enrico VIII, perdendo il Regno di Inghilterra, e non lo permetterà mai perché, come ha ricordato Pio XII ai parroci di Roma il 16 marzo 1946: “Il matrimonio fra battezzati validamente contratto e consumato non può essere sciolto da nessuna potestà sulla terra, nemmeno dalla Suprema Autorità ecclesiastica”. Ovvero nemmeno dal Papa e tantomeno del cardinale Kasper.
(di Roberto de Mattei su “Il Foglio” del 01/03/2014)
"Cardinale Pietro Parente; Mons. Antonio Piolanti; Mons. Salvatore Garofano: Voci selezionate dal Dizionario di Teologia Dogmatica". SCISMA (gr. = separazione, divisione): è il delitto di chi si separa dalla Chiesa Cattolica per far setta particolare sotto pretesto che quella erri o approvi disordini e abusi.
Lo scisma si distingue formalmente dall'eresia perché questa spezza il vincolo dogmatico professando l'errore, quello invece rompe il vincolo sociale ricusando obbedienza ai legittimi Pastori. Lo scisma però a lungo andare cade fatalmente nell'eresia perché viene a negare l'autorità e l'infallibilità della Chiesa. In ogni tempo si ebbero nel cristianesimo spiriti leggeri e superbi che si ribellarono alle legittime autorità rendendosi autonomi. I principali scismi che la storia registri furono quelli dei Novaziani nel secolo III e dei Donatisti nel secolo IV e V. Ma quello più doloroso. iniziato da Fozio (sec. IX) e consumato da Michele Cerulario (sec. XI) che tiene lontano dal seno della vera Chiesa tante cristianità un tempo insigni per un gran numero di Santi e di Dottori, è lo scisma grecorusso.
Gli scismatici sono membra avulse dal corpo della Chiesa, quasi rami inariditi. Se sono in cattiva fede, non si possono salvare perché, come diceva S. Agostino, «foris ab Ecclesia constitutus et separatus a compage unitatis et vinculo caritatis, aeterno supplicio punieris, etiamsi pro Christi nomine vivus incendiaris» (Ep. 173 ad Donatum).
"Cardinale Pietro Parente; Mons. Antonio Piolanti; Mons. Salvatore Garofano: Voci selezionate dal Dizionario di Teologia Dogmatica". SCIENZA (divina): scienza è la cognizione delle cose secondo la loro causa. Tale è la perfetta cognizione intellettiva e in questo senso si attribuisce a Dio.
La divina Rivelazione esalta la sapienza di Dio: S. Paolo ne raccoglie le più antiche testimonianze in quel grido (Rom. 11, 33): «O sublimità di ricchezze della sapienza e della scienza di Dio!». La Chiesa definisce (Conc. Vat., sess. 3, c. 1; DB. 1782) che Dio è dotato di un intelletto infinito. Il concetto dell'onniscienza divina è familiare a tutta la tradizione. Ragioni: a) l'intellettualità è la più alta perfezione della creatura umana e angelica: ora le perfezioni create devono essere in Dio in modo eminente (v. Analogia); b) l'ordine e le finalità del cosmo rivelano una Causa intelligente; c) l'intellettualità e quindi la scienza sono proprietà connaturali di ogni ente spirituale: conoscere significa ricevere in sé intenzionalmente le forme delle cose esterne senza alterare o perdere la forma propria: questo è possibile solo allo spirito, che, rimanendo identico a se stesso, è capace, dice Aristotile, di diventare tutte le cose conoscendole. Essendo Dio sommamente spirituale è intelligente in modo supremo; anzi per la sua semplicità (v. questa voce) il suo intelletto e la sua conoscenza s'identificano con la sua essenza: Dio è il suo stesso conoscere e però la sua scienza è perfettissima, infinita come la sua natura. Dio conosce anzitutto se stesso (oggetto primarie), poi tutte le creature presenti, passate e future possibili e reali. Gli Scolastici distinguono: scientia visionis (per le cose reali); scientia simplicis intelligentiae (per le cose possibili). I Molinisti aggiungono la scientia media (v. Molinismo e Prescienza).
Sul modo di conoscere le creature i Teologi discutono; la migliore opinione è quella che sostiene la cognizione mediata: Dio conoscendo perfettamente la sua essenza conosce in essa anche tutte le cose reali e possibili, che sono imitazioni attuate o attuabili dell'essenza divina. Se Dio conoscesse le cose direttamente, fuori di se stesso, allora le cose attuerebbero in certo modo l'intelletto divino, il che ripugna. Conoscendo tutto con un atto semplicissimo, che s'identifica con la sua essenza. Dio non ragiona come noi, passando da una nozione all'altra, ma intuisce ed esaurisce con un solo intuito tutta l'intelligibilità della sua natura e d'ogni ente creato o creabile.
"Cardinale Pietro Parente; Mons. Antonio Piolanti; Mons. Salvatore Garofano: Voci selezionate dal Dizionario di Teologia Dogmatica". SCIENZA (di Cristo): è il complesso delle cognizioni che Cristo ebbe come Dio e come Uomo.
Come Dio il Verbo ha comune col Padre e con lo Spirito Santo quell'atto d'intellezione divina, che s'identifica con la divina essenza e per cui Dio Uno-Trino conosce se stesso e tutte le cose possibili e reali (passate. presenti e future). Questa verità poggia sulla vera divinità e consostanzialità del Verbo incarnato (Conc. di Nicea) e sull'integrità della sua natura divina (Conc. Calcedonese). La negano i Monofisiti, gli Agnoeti, i Kenotici (cfr. queste voci).
Questa scienza divina del Verbo, essendo infinita, non poteva essere comunicata formalmente all'anima umana assunta, la quale invece doveva avere quella specie di cognizioni, che sono possibili alla creatura intellettuale, cioè la visione beatifica, la scienza infusa e la scienza acquisita. a) Visione beatifica è propria dei beati; non poteva mancare in Cristo, neppure durante la vita terrena, attesa l'unione ipostatica, che è molto più della visione; b) Scienza infusa è dono di Dio, che infonde nell'intelletto le specie intelligibili delle cose, per cui si conosce senza il concorso dei sensi: questa scienza accompagna nei beati e negli Angeli la visione beatifica e quindi fu anche in Cristo, capo degli Angeli e re dei beati; c) Scienza acquisita è quella che si attua in ogni uomo per mezzo dell'astrazione dai fantasmi della cognizione sensitiva: Cristo, Uomo perfetto, doveva naturalmente avere anche questa scienza, in cui solo poteva progredire, secondo il Vangelo (Lc. 2, 52). Queste tre scienze avendo diverso carattere, possono stare insieme nella stessa anima e Cristo si serve ora dell'una ora dell'altra, né sono superflue, perché hanno diversa gradazione di luminosità.
La scienza divina e la multiforme scienza umana di Cristo esclude da lui qualsiasi ignoranza; se Gesù dice (Mc. 13, 32) di non conoscere n giorno del giudizio finale, l'espressione va intesa nel senso che Gesù non può manifestare quel giorno (così i Padri). Cfr. Decr. S. Uffizio, 1918 (DB, 2183-2185).
"Cardinale Pietro Parente; Mons. Antonio Piolanti; Mons. Salvatore Garofano: Voci selezionate dal Dizionario di Teologia Dogmatica". SCETTICISMO (dal gr. = guardo, considero): è una dottrina e una tendenza, che pone in discussione e nega parzialmente o interamente il valore oggettivo della conoscenza umana e quindi la sua certezza.
Lo scetticismo ebbe origine dai Sofisti, che a scopo oratorio e politico insegnavano a dimostrare con speciose argomentazioni la verità d'una tesi e insieme della rispettiva antitesi. Contro questi perturbatori dello spirito combatté energicamente Socrate, mettendo in evidenza la forza dei concetti universali, che sono una solida base di verità e di certezza. Ma il fondatore dello Scetticismo come sistema di dubbio universale fu Pirrone di Elide (+275 a. C.): da lui lo Scetticismo prese il nome di Pirronismo e si oppose al dogmatismo stoico. I Platonici, che svalutavano la cognizione sperimentale riducendola alla sfera di semplici opinioni. subirono l'influsso scettico nella media e nella nuova Accademia (Arcesilao +241 a. C. e Carneade + nel 126 a. C.). Ma lo Scetticismo sistematico ebbe validi continuatori nei due filosofi Enesidemo di Creta (+130 d. C.) e Sesto Empirico (seconda metà del II secolo d. C.), che scrisse le celebri Ipotiposi in difesa dei due principi pirroniani. Lo Scetticismo affiora qua e là col suo dubbio dissolvente attraverso i secoli, come nella dottrina di Cartesio (dubbio metodico non sistematico), nel sistema fenomenistico e anche nel Kantismo (v. questa voce), che comprometteva il valore oggettivo della cognizione, negando alla ragione la capacità di attingere la cosa in sé, il noumeno. Tutti i sistemi antintellettualistici sono intinti di scetticismo: così il fideismo del Jacobi, il Volontarismo pessimistico di Schopenhauer, il Prammatismo di James. Lo Scetticismo ha un peccato di origine, che ne avvelena tutta la struttura: esso mette in dubbio la capacità della ragione a raggiungere la verità e la certezza e nega il valore della cognizione. Ma logicamente ne risulta che nessuna verità, nessuna teoria è certa e sicura, neppure quella degli Scettici! L'intelletto umano fatto naturalmente per la verità, come l'occhio per la luce, può ingannarsi qualche volta, per accidens, ma non sempre per se, altrimenti la natura sarebbe un assurdo. La filosofia moderna, che da Cartesio a Kant, ha attentato alla dignità della natura e alle capacità naturali dello spirito umano è caduta in uno smarrimento scettico, che l'Idealismo ha cercato invano di superare. L'unico rimedio è il realismo moderato della filosofia cristiana. che. insieme con la migliore filosofia greca, costruisce la scienza e la metafisica sul postulato d'un naturale rapporto tra essere e pensiero, tra natura e spirito.
"Cardinale Pietro Parente; Mons. Antonio Piolanti; Mons. Salvatore Garofano: Voci selezionate dal Dizionario di Teologia Dogmatica". SANTITÀ (di Cristo): santo in genere è ciò che ha attinenza con la divinità. In senso concreto e cristiano la santità importa nell'uomo una certa partecipazione della natura divina per mezzo della grazia, una figliolanza adottiva e l'immunità dalla colpa.
L'Umanità di Cristo è santissima in forza dell'unione ipostatica e della grazia di cui fu arricchita senza limiti. a) Per l'unione ipostatica l'Umanità assunta sussiste per l'essere stesso del Verbo e però nessuna unione più stretta con Dio è pensa bile né alcuna cosa creata che appartenga più propriamente a Dio di quella Umanità. Per la stessa unione Cristo Uomo è Figlio non adottivo, ma naturale di Dio e perciò impeccabile (v. Impeccabilità). b) Oltre a questa santità di carattere sostanziale, l'Umanità di Cristo ha la santità di ordine accidentale in virtù della grazia e dei doni soprannaturali. Per l'unione ipostatica la Umanità di Cristo è santa; per la grazia e i doni opera santamente, cioè in modo deiforme. E la grazia di Cristo è così piena che, come dice S. Giovanni, «tutti riceviamo dalla sua pienezza». Così l'Umanità del Salvatore è la fonte inesauribile d'ogni santità: gli splendori della Chiesa una e santa sono una irradiazione di quella sacrosanta Umanità.
L'Evangelo (Lc., 2, 52) parla d'un progresso di Gesù nella sapienza e nella grazia: in verità Egli fu pieno di tutta la sapienza e di tutta la grazia fin dal primo istante dell'Incarnazione. Quel progresso quindi va inteso, come suggeriscono i Padri, non in senso reale, ma in senso manifestativo.
Santità di Maria: concepita senza macchia (v. Immacolata) fu immune dal fomite della concupiscenza e da ogni peccato anche veniale (Conc. di Trento); fu pertanto ripiena d'una grazia perfetta, superiore a quella dei Santi e degli Angeli, non infinita in senso assoluto, ma proporzionatamente alla sublime dignità di Madre di Dio.
"Cardinale Pietro Parente; Mons. Antonio Piolanti; Mons. Salvatore Garofano: Voci selezionate dal Dizionario di Teologia Dogmatica". SANTITÀ DELLA CHIESA: la santità è la seconda dote o proprietà che il Simbolo Niceno-costantinopolitano attribuisce alla Chiesa e che promana dall'intima natura della medesima. Se infatti la Chiesa è «l'unione di Cristo con l'uomo in forma sociale» deve essere santa, come tutto quello che è a contatto con Dio.
La Bibbia presenta la santità come l'attributo proprio della Chiesa: «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, al fine di santificarla… di prepararsela come sposa immacolata, senza rughe e senza neo» (Efes. 5, 26); «Cristo ci elesse affinché fossimo santi e immacolati al suo cospetto» (Efes. 1, 4): «Diede se stesso per noi affin di riscattarci da ogni iniquità e di purificarsi un popolo accettevole e zelante di opere buone» (Tit. 2, 14).
La santità della Chiesa è triplice: santità dei principi, delle membra, dei carismi. La santità dei principi consiste nel fatto che la Chiesa è dotata di mezzi che sono atti a produrre la santità negli uomini (santità attiva). Realmente la dottrina dogmatica e morale della Chiesa (magistero) è il fermento che solleva la massa umana dalle oscurità della terra agli splendori del cielo, i suoi sacramenti (ministero) sono i canali che trasmettono la grazia santificante, la sua autorità (impero) tende unicamente a guidare i fedeli per la via della perfezione.
La santità delle membra risulta dallo spettacolo costantemente verificatosi nella storia del cristianesimo di moltissimi fedeli viventi secondo i precetti del Vangelo (santità comune) e di molti altri che seguendo anche i consigli evangelici sono giunti fino alle ardue vette dell'eroismo (santità esimia) che suole essere sancita dalla canonizzazione. Tutti i secoli della storia dei popoli cristiani, da S. Paolo a S. Benedetto, da S. Francesco d'Assisi a S. Teresa di Gesù, da S. Vincenzo de' Paoli a S. Giovanni Bosco sono intersecati dalla scia luminosa della santità eroica (santità passiva).
La santità dei carismi emerge dal dono dei miracoli, con i quali lo Spirito Santo suole manifestare la sua presenza in tutto il corpo mistico (sono infatti i miracoli grazie gratis datae per l'edificazione della Chiesa) come in qualche membro dotato di singolare virtù, perché Dio, in via ordinaria si serve delle anime a Lui più care per operare le sue meraviglie (segni della santità).
"Cardinale Pietro Parente; Mons. Antonio Piolanti; Mons. Salvatore Garofano: Voci selezionate dal Dizionario di Teologia Dogmatica". SANTIFICAZIONE: è l'azione trasformatrice, che rende l'uomo santo.
La santificazione è relativa al concetto di santità. Santo (in ebr.* = separare) significa ciò che è separato dalle cose profane e consacrato a Dio. La santità difatti ha un aspetto negativo (allontanamento dal peccato) e un aspetto positivo (unione amichevole con la Divinità). Nella religione ebraica, nonostante i motivi d'interiorità. dell'A. T., prevalse man mano quella santità esteriore, legale, che toccò l'apice nei Farisei. Gesù Cristo accese la fiamma della vera santità, presentandola come una rigenerazione, come vita nuova alimentata principalmente dall'amore fino a una misteriosa partecipazione della vita stessa di Dio. L'aspetto negativo (purificazione e liberazione dal peccato) è sviluppato particolarmente da S. Paolo, l'aspetto positivo (comunicazione vitale e immanenza mutua tra Dio e uomo) da S. Giovanni e da S. Pietro, che parla di una partecipazione della natura divina nell'uomo redento (v. Consorzio divino). Questi preziosi elementi della rivelazione scritta elaborati dai Padri e dai Dottori concorrono a formare la Teologia della santificazione suggellata dal Magistero Ecclesiastico. La santificazione ha tre fasi: genetica, statica e dinamica.
1° Geneticamente la santificazione, nell'ordine presente, è trapasso da uno stato di peccato all'amicizia di Dio per mezzo della grazia. Per questo trapasso v. Giustificazione.
2° Staticamente la santificazione è la condizione dell'uomo elevato dalla grazia santificante e dai doni annessi. Si può dire che è la santità quoad esse.
3° Dinamicamente la santificazione è l'attività soprannaturale dell'uomo santificato che tende a conquistare una vita d'unione con Dio sempre più intensa con la lotta assidua contro le passioni e le tentazioni e con l'esercizio delle virtù. La storia del Cristianesimo registra due errori opposti riguardo alla santificazione: – il Pelagianesimo (v. questa voce), che nega il peccato originale e la necessità della grazia, attribuendo l'opera della santità alla natura (naturalisrno); il Luteranesimo (v. questa voce), che invece esagera il peccato originale, nega la possibilità d'una rigenerazione e d'una collaborazione dell'uomo con Dio, riducendo la santità nostra a un'imputazione esterna di quella divina (pseudosupernaturalismo). La Chiesa ha condannato l'uno e l'altro errore e in armonia con la rivelazione, insegna che la santificazione è opera di Dio, che infonde la grazia, ma richiede la libera cooperazione dell'uomo sia nel momento dell'acquisto della grazia sia per conservare e accrescere il dono di Dio. L'uomo santificato deve lottare e lavorare continuamente per progredire nella santità, specialmente sotto l'impulso e con l'esercizio della carità (v. questa voce), che è la misura della vera santità.