CAP. III Universalità e pluralismo nell'insegnamento

 

3.1 Introduzione

3.1.1 Universalità
Si afferma frequentemente che l'uomo ha diritto ad un'educazione. Il che é parzialmente certo, poiché tale affermazione da sola non significa nulla (é un'ampollosa dichiarazione di diritto, astratta, che di per sé non vuol dire nulla), se non si specifica a quale grado d'educazione e cultura l'uomo - vale a dire ogni uomo, come essere concreto - abbia diritto.

Le tendenze del "mondo moderno", facendo appello al "dogma" della democratizzazione dell'insegnamento e della cultura, basate sull'erronea identificazione della giustizia con l'uguaglianza, e facendo di quest'ultima la norma suprema regolatrice della condotta umana, pretendono di rendere la cultura accessibile a tutti gli uomini nello stesso grado. Si postula così un'educazione sistematicamente egualitaria per un periodo che raggiunge, almeno, i quattordici anni, quando non i sedici o i diciotto, giungendo, persino, a proclamare il "diritto" a che tutti ricevano l'insegnamento universitario, come fosse un vero diritto.
Questo é un modo sufficientemente adatto per distruggere la civiltà e farla finita con la cultura: queste, infatti, saranno necessariamente diluite, perché solo eliminando ogni profondità del sapere e degradando il suo contenuto, é possibile renderle accessibili in uno stesso grado a tutti gli uomini. Col che i danni raggiungeranno sia ciascuno degli uomini così "acculturati", che tutta la società, poiché si distruggerà la civiltà.
La cultura e la civiltà non prevedono l'egualitarismo, ma, al contrario la diversificazione. Il che non implica una specializzazione tale che, al di fuori del ridotto campo di essa, l'uomo ignori qualunque altra realtà.

Vallet de Goytisolo (1) lo ha messo in rilievo col segnalare: "Una civiltà presuppone una cultura globale, anche se diversificata. Non si tratta di far sì che tutti sappiano tutto, né che il sapere sia uniforme, ma che ciascuno sappia quello di cui ha bisogno secondo la sua funzione e che tutti abbiano conoscenza della realtà di base ed educata la mente e il buon senso morale, sociale ed estetico, necessari per non essere vittime di allucinazioni e degradazione".
La civiltà e la cultura presuppongono quel che fino a poco tempo fa - bene o male - si era messo in pratica come condizione delle stesse: universalità e pluralità d'insegnamento. Educazione e insegnamento per tutti, ma con diversi gradi e tipi, come conseguenza dell'ordine sociale naturale e come condizione per raggiungerlo.
Pensare che la cultura, l'educazione e l'insegnamento siano stati, sino all'apparizione della democratizzazione e dell'egualitarismo, terreno riservato a pochi ed inaccessibile al resto degli uomini, é ignorare la storia o falsarla. Soprattutto, quando é precisamente nella nostra epoca che la degradazione della cultura é un fatto reale che annuncia (ed é già possibile osservarlo) il tramonto della civiltà.
Nel passato, quando non esisteva la pretesa che tutti potessero avere lo stesso grado di cultura in maniera uniforme - e non si pensava neppure a che tutti accedessero a un tale egualitarismo - ma in cui l'insegnamento e l'educazione erano universali ma sommamente diversificati e plurali, la cultura era di tutti, tutto il popolo partecipando di essa. Vallet lo ricorda, segnalando che "in Grecia l'Odissea e l'Iliade furono opere popolari. Nel medio evo le cattedrali erano cosa del popolo e le canzoni popolari sprizzavano grazia e nobiltà" (2).
L'Impero romano cadde a causa del potere assoluto dello Stato, che diede origine a quel che per Rostovtzeff (3) definisce: "il fenomeno principale del processo di declinazione è il graduale assorbimento delle classi colte per opera delle masse".
Sui valori della civiltà greca e romana la Chiesa edificò la civiltà più perfetta, e ciò con un insegnamento e una educazione universali, ma diversificati.
La vera cultura non fu patrimonio di pochi. Pensiamo, ad esempio, alla nostra Patria, in cui il popolo seguiva con attenzione non sola l'arte, ma anche il teatro e la poesia: forse che un Lope o un Calderòn non era popolare? Persino le dispute di Bañez e Molina, furono relative ad un tema del quale oggi molto pochi potrebbero anche solo ricordare l'oggetto e il cui contenuto sfugge a gran parte dei nostri contemporanei. Essere colti e educati non consisteva nel saper leggere o scrivere o nell'avere una conoscenza enciclopedica, ma carente di profondità.
Il pensare che la civiltà e la cultura suppongano uniformità ed egualitarismo per tutti gli uomini é disconoscere il processo storico della civiltà. La civiltà si é formata con la diversificazione e quando essa cessò, la civiltà e la cultura degradarono e retrocessero (si pensi, ad esempio, alla massificazione del Basso Impero Romano).

3.1.2 Diversificazione o egualitarismo?
L'universalità (cioè una cultura globale per cui "ciascuno sappia quello di cui ha bisogno secondo la sua funzione" e "tutti abbiano conoscenza della realtà di base e educata la mente e il buon senso morale, sociale ed estetico, necessari per non essere vittime di allucinazioni e degradazione") e la diversificazione (diversi e molteplici gradi e tipi d'insegnamento), sono conseguenze dell'ordine sociale naturale (non già di una costruzione mentale che si vuole subito sovrapporre alla realtà e alla natura per organizzare la società in base a questa concezione razionalista), essendo, per ciò stesso, anche garanzie del medesimo.
L'ordine sociale che s'inferisce dalla stessa natura, e che per essere conosciuto necessita dell'osservazione della stessa, é caratterizzato dalla pluralità delle componenti che lo formano; pluralità sommamente variabile e la cui diversità richiede armonia affinché, nel concorrere di tutte le diverse pluralità, si raggiunga il fine dell'insieme e di ciascuna di loro.
Solo identificando la cultura e la giustizia con l'egualitarismo, solamente facendo dell'egualitarismo la prospettiva che deve regolare l'attività umana, é possibile negare la realtà che la cultura presuppone la diversificazione. E' proprio la natura che ci dice non essere certo che tutti gli uomini abbiano diritto alla stessa educazione e ad identico insegnamento. Non dimentichiamo che, d'altra parte, non si può identificare la cultura, e neppure l'educazione, con l'insegnamento nelle aule.
L'egualitarismo (4), che é la base su cui si sostiene la tesi dell'educazione uguale per tutti, è, infatti, totalmente contrario alla realtà e alla natura, al punto che, persino dove si é preteso di impiantarlo, é sorta una "nuova classe" (5) che smentisce nei fatti le propagande e le utopie, e dimostra come l'egualitarismo sia impossibile.
Sebbene esista certamente un'eguaglianza nell'essenza del genere umano, essa non esige, e neppure considera conveniente, l'eguaglianza d'insegnamento. Richiede soltanto un'educazione sufficiente perché l'uomo raggiunga il suo fine ultimo e supremo - e, secondo la natura, una cultura in armonia con la sua funzione nella società -; é qui che si trova la base e il motivo di quell'universalità di insegnamento che tutti devono avere.
Ma a fianco di quest'eguaglianza essenziale s'incontra un'amplissima gamma di diversità d'ogni indole, totalmente naturali, le quali, eccetto che nell'eguaglianza essenziale, indicano in tutto il resto, le diseguaglianze umane: diseguaglianze fisiche, intellettuali, ambientali, familiari, ecc.
Sono diseguaglianze che caratterizzano l'ordine sociale e che implicano necessariamente e naturalmente una diversificazione nell'insegnamento. Solo negando la ricchezza di questa diversificazione dell'ordine sociale, che rende possibile la civiltà e la convivenza, si può affermare che tutti gli uomini abbiano diritto alla stessa educazione ed insegnamento. Un diritto falso, per la cui instaurazione si stabilisce il "dovere" dello Stato a fornirlo e renderlo efficace (con le spaventose conseguenze che portano alla statalizzazione dell'insegnamento, al monopolio dello Stato e all'unione del potere politico e di quello culturale), che conduce alla schiavitù dell'uomo, il quale perde persino la libertà di riflettere.
E non si affermi che le diseguaglianze naturali non implicano diversità d'insegnamento: quelle diseguaglianze, per le quali l'egualitarismo nell'ordine sociale é incompatibile, non possono essere distrutte senza l'aiuto di un insegnamento modificato; in fondo alla concezione uniformistica dell'insegnamento é latente la concezione dell'ingiustizia di tali diseguaglianze, che si cercano di distruggere proprio attraverso un insegnamento uniforme e uniformizzante.
Affermando che quelle diseguaglianze non possono dar luogo a diseguaglianze nell'insegnamento, si dimentica l'uomo concreto e si mette al suo posto l'uomo astratto, che non esiste nella realtà. Con ciò si contrappone un'idea, forgiata erroneamente prescindendo dalla realtà, alla realtà stessa: non si tratterà più di insegnare in accordo con la natura, ma di agire ignorandola, prescindendone e facendo prevalere l'utopia, i sogni e l'astrazione sulla stessa.

L'uniformità d'insegnamento non é cosa buona e neppure possibile.
Non é possibile perché, anche limitandosi al piano intellettuale e nonostante il degrado conseguente al volerlo rendere uguale e accessibile a tutti nello stesso grado, i più dotati saranno sempre avvantaggiati rispetto ai meno dotati, in modo naturale e inevitabile.
Non é buona perché, a parte altre considerazioni che seguiranno, l'uniformismo riduce necessariamente il contenuto dell'insegnamento ad un campo ridottissimo, dal quale restano escluse molte e diverse conoscenze che sono necessarie perché gli uomini (diversi e concreti) esercitino funzioni e compiti diversi nella società, senza le quali la società non sarebbe possibile e sarebbe distrutta la base stessa della cultura e della civiltà.

Quella diversificazione, tale pluralità dell'insegnamento, d'altra parte, non impedisce l'universalità dello stesso, ma, al contrario, é la condizione perché quell'universalità diventi un fatto. Solo con la pluralità dell'insegnamento é possibile che tutti gli uomini acquisiscano un'istruzione concorde con la natura di ciascuno di loro e con la funzione che ognuno svolge o dovrà svolgere: un insegnamento, vale a dire, adeguato ad ogni uomo considerato come un essere concreto, con una personalità determinata e in una data situazione di tempo e luogo. L'insegnamento, infatti, deve essere in accordo con la persona che lo riceve: dalla diversità delle persone (ma delle persone concrete, non delle persone come astrazione) deriva la differenza del tipo e grado di insegnamento.
Tra le differenze e diseguaglianze degli uomini ve ne sono di primordiali, come quelle familiari e locali, relative cioè all'ambiente più prossimo che circonda il bambino, la persona: ma con la crescente massificazione si dimentica ogni giorno di più l'importanza che l'ambiente familiare e locale ha per l'educazione e l'insegnamento. E' soprattutto quest'ambiente quello che più influisce - e più deve influire, perché é il più naturale -, in tutto lo sviluppo della personalità, nella sua crescita e nell'acquisizione d'abitudini che portano ad operare con rettitudine.
Ciò é precisamente dovuto al fatto che quest'ambiente é quello che fornirà convinzioni e sentimenti duraturi, vincoli che legheranno a Dio, alla famiglia, ai suoi simili, alla terra, alla Patria, ai propri governanti, alle cose, alla realtà e alla stessa natura: in definitiva, fornirà quella stabilità la cui mancanza é la malattia più perniciosa dell'uomo d'oggi, come ha notato Simone Weil (6). In esso si imparerà quel che Saint-Exupery denomina "apprivoisser", senza il quale l'uomo sarà perduto, senza tale "addomesticamento" (ovvero "l'atto per il quale le cose diventano sostanza stessa del soggetto e questi si rende responsabile di esse per sempre", come scrive Rafael Gambra (7) nello spiegare quel che Saint-Exupery intendeva con la parola "apprivoissement"), l'uomo mancherà di ogni stabilità, ed essendone la di lui difesa più efficace, eviterà la massificazione: questa è una minaccia divenuta realtà, la quale si avvia ad annientare l'uomo avvicinandovisi, come ha posto in rilievo Vallet de Goytisolo (8), ogni istante di più.

3.1.3 Cultura di massa o "dis-massificazione"?
La cultura di massa - che porta all'egualitarismo nell'insegnamento e nell'educazione -, é impossibile, perché cultura e massa sono termini contrapposti.
E' conosciuto, anche se non sufficientemente meditato, l'interrogativo con cui Rostovtzeff conclude la sua Storia sociale ed economica dell'Impero romano: "E' possibile estendere una civiltà elevata alle classi inferiori senza degradarne il contenuto e diluirne la qualità sino all'evanescenza? Non è ogni civiltà destinata a decadere non appena comincia a penetrare nelle masse?" (9).
In problema non consiste nel rendere istruite le masse, cosa impossibile, ma piuttosto nell'evitare la decadenza della civiltà, impedendo la massificazione. La civiltà decade quando si massifica, e non é possibile cercare di far penetrare in essa la cultura. Non ci sono state, né ci sono e non ci saranno mai, masse istruite.
I fatti mostrano che l'interrogativo di Rostovtzeff diviene certezza quando si persegue e si pretende l'egualitarismo - in altre parole che tutti abbiano la stessa cultura - e nella misura in cui si pretende di conciliare le masse con la cultura, senza una preventiva opera di dis-massificazione con la quale smettano d'essere masse.
Senza dubbio, lo stesso Rostovtzeff segnala che "i tentativi violenti di livellamento non hanno mai condotto all'elevamento delle masse: essi non hanno fatto altro che distruggere le classi superiori, accelerando così il processo di imbarbarimento " (10).
Questo ci porta alla distinzione, segnalata da Pio XII (11) nel discorso Benignitas et humanitas, fra "popolo" e "massa": "Il popolo vive e si muove di vita propria; la massa é di per se inerte e può essere mossa solo dall'esterno. Il popolo vive della pienezza di vita degli uomini che lo compongono, ognuno dei quali - al proprio posto e nella maniera a lui propria - é una persona cosciente della propria responsabilità e delle proprie convinzioni. La massa, al contrario, aspetta l'impulso dall'esterno: facile giocattolo nelle mani di chiunque sfrutti i suoi istinti o le sue impressioni, disposta a seguire successivamente oggi questa bandiera, domani una diversa".
E' allora che l'affermazione di Rostovtzeff diviene certezza: quando si considera che una civiltà (come la Cristianità medievale o la Spagna d'epoca più tarda), deve essere la civiltà di tutto il popolo, ossia degli uomini che lo compongono, con la necessaria diversificazione derivante dalla diversità degli uomini concreti.
Abbiamo precedentemente segnalato (12) le ragioni per cui compete ai genitori l'educazione dei propri figli; vogliamo adesso mettere bene in risalto l'importanza dell'ambiente familiare e locale come base di ogni educazione ed insegnamento, mostrando contemporaneamente la loro importanza, sia in quanto attraverso essi si ottiene un'universalità di insegnamento, che perché sono in parte il fondamento della diversificazione dell'insegnamento in gradi e tipi, ed anche per la loro primaria importanza per tutta l'organizzazione sociale.

 

3.2 Importanza primordiale dell'ambiente familiare e locale
Che l'educazione e l'insegnamento non possano essere uniformi e ugualitari, ma debbano essere sommamente diversificati e plurali, si deduce - in primo luogo e fondamentalmente -, dall'ambiente più prossimo al bambino, cioè dall'ambiente familiare e locale che circonda la persona.
I bambini, lo abbiamo detto precedentemente, appartengono ad una famiglia; ma anche l'ambiente più prossimo che circonda il bambino dopo la famiglia é intimamente legato a questa. Un ambiente rurale é diverso dall'ambiente della città, ed uno contadino da uno industriale.
"La formazione dell'uomo - scrive Rafael Gambra (13) - é, innanzi tutto, familiare e ambientale. Il bambino riceve le prime convinzioni, emozioni e sentimenti dal suo ambiente, soprattutto quello familiare".
Quando al bambino manca la formazione familiare, avviene, frequentemente, che cresca tarato spiritualmente. E' nelle famiglie dove appare prima la diversità d'educazione e insegnamento. Diversità completamente naturale e sana, perché fondata nell'ordine stesso della natura. Tale diversità non comporta che i fini dell'educazione e dell'insegnamento non siano raggiunti. Al contrario, l'educazione familiare, peculiare e caratteristica di ogni famiglia (come peculiare é ciascuna di esse e i membri che la compongono), raggiunge pienamente le finalità dell'educazione, così come le abbiamo precedentemente considerate (14). Infatti, il fine perseguito dall'educazione non si raggiunge con mezzi uguali per tutti, ma attraverso mezzi che variano e dipendono dalle necessità e caratteristiche degli uomini concreti.
Così, un bambino con grande sensibilità dovrà essere trattato in modo diverso da uno che non l'abbia così spiccata o che ne sia quasi privo; uno molto cerebrale, in modo diverso da uno che lo sia meno, ecc. Ciò presuppone un tratto differente, che può essere dato solo nelle famiglie.
Le prime conoscenze che il bambino acquisisce sono, inoltre, ottenute attraverso l'ambiente in cui vive, familiare e locale. Chi appartiene a una famiglia contadina, acquisirà fin da piccolo un senso della realtà e della natura che mancherà a chi non é vissuto a contatto con essa. Da ciò sorge la diversità d'educazione e d'insegnamento che, di conseguenza, non deve essere soppressa anche per permettere ad altri di sapere o acquisire quelle conoscenze, quel senso della realtà.
L'ambiente familiare e locale fa sì che il bambino si senta parte di un mondo, di una società dove é conosciuto e amato e con cui, facendone parte, é solidale, imparando a stimarla e ad amarla. E' un legame necessario (a persone, istituzioni e cose) e caratteristico della natura umana, per quanto oggi si cerchi di farlo scomparire. Nel bambino, esiste un senso di responsabilità che si sviluppa col conoscere i problemi della società in cui vive e per i quali cercherà soluzione con affetto, perché sono parte della sua vita, perché sono problemi "suoi".
I fini dell'educazione si raggiungono per mezzo dell'educazione familiare e ambientale, non malgrado le differenze di ambiente che circondano il bambino. Essi si conseguono grazie a quelle differenze, perché la famiglia é l'ambiente più prossimo al bambino, il suo migliore educatore, cui tale compito spetta in modo naturale.
E' naturale che quelle differenze ambientali diano luogo anche a diversità nell'insegnamento in aula, di cui poi parleremo. Nel fare astrazione dall'uomo concreto e fondando tutto sull'uguaglianza, deriva che l'insegnamento deve essere uguale per tutti, perché altrimenti è "ingiusto": é per questo che si vuole l'eliminazione della famiglia come istituzione educativa e, in nome dell'egualitarismo, si strappano i bambini dal loro ambiente familiare e locale.
Non si può far tabula rasa dell'ordine naturale eliminando l'educazione familiare e ambientale, senza provocare gravissimi danni: non solo allo stesso educando, alla famiglia e all'ambiente più prossimo nel quale il bambino vive secondo natura, ma a tutta la società e allo stesso Stato. Ciò é evidente se si pensa che l'ordine sociale é frutto dell'armonia tra le sue diverse componenti - diverse per natura - e non frutto della ragione separata dalla realtà: pertanto, quanto più ogni parte svolgerà il proprio ruolo, tanto maggiore sarà l'armonia e l'ordine sociale.
Marcel de Corte (15) lo segnalava a proposito dell'importanza che l'educazione familiare svolge in vista dell'educazione politica, intesa in senso lato: "Non é forse in essa (la famiglia) che impariamo, senza saperlo, "quest'arte del vivere gli uni con gli altri", senza la quale non c'è società politica possibile? "E' nel seno delle nostre famiglie che cominciano i nostri affetti politici" annotò Burke, e Augusto Comte aggiunse che "l'efficacia morale della vita domestica consiste nell'essere l'unica transizione naturale che, abitualmente, può liberarci della pura personalità per elevarci gradualmente verso la vera socialità".
"In quest'affermazione banale si trova un tesoro inesauribile. Infatti: cos'è che ci insegna a vivere gli uni con gli altri, se non il ricevere una educazione politica nelle forme più diverse? Educazione all'amicizia, all'obbedienza, alla fiducia, alla giustizia, alla generosità, allo spirito d'economia, al rispetto della pietà verso le tradizioni; educazione dell'intelligenza e della volontà; educazione alla continuità temporale col ricordo del passato, con l'occupazione nel presente e la preoccupazione per il futuro; educazione nello spazio sociale grazie alle relazioni coi vicini, i collaterali, i consanguinei, i parenti, gli imparentati, ecc. Non si finirebbe mai di enumerare le sfaccettature con risonanza politica dell'educazione impartita dalla famiglia con instancabile prodigalità, e senza aver prestabilito il minimo piano; educazione svolta in funzione delle necessità sempre mutevoli della vita, con una capacità creatrice e un potere d'invenzione che sorge in modo improvvisato. L'imperiosa pressione della "natura sociale propria dell'uomo" confonde l'osservatore, perché agisce in ogni membro della comunità familiare che si confronta con "la natura degli esseri, delle cose e degli avvenimenti".
"Nulla é meno statico della famiglia, in essa tutto si muove: iniziativa, attività, novità. In essa nulla risponde a un piano prestabilito: tutto é, per così dire, lasciato all'improvvisazione. Senza dubbio, l'educazione irradiata obbedisce ad una "idea direttrice" viva: il consolidamento dell'essere e il migliore divenire del gruppo e di ciascuno dei suoi membri. Nella famiglia la persona non si sviluppa che in relazione ad un "bene comune" che la supera e la costituisce.
"Ogni educazione che la persona riceve, va a costituire l'abito dei sentimenti sociali al loro livello più naturale e meno artificiale; in un gruppo in cui si viene perpetuamente controllati, nessuno può nascondere sotto una maschera il suo eventuale egoismo. Nessuna finzione duratura é possibile! L'animale sociale, compromesso nella disciplina della vita di società, nel miglioramento delle relazioni con gli altri e nella subordinazione dei suoi istinti, emozioni e passioni alla ragione e alla volontà, appare al nudo, allo stato autentico, così come é realmente senza l'imbellettamento dei sistemi e delle ideologie.
"Nella famiglia apprendiamo che "l'essere e il dovere sociale coincidono", con la stessa facilità con cui respiriamo l'aria del luogo. L'imperativo sociale non è imposto ai miei atti dal di fuori, ma sorge dall'interno del "mio stesso essere". La vita familiare porta l'uomo a riconoscere, per lo meno nelle sue azioni, che l'obbligo sociale si identifica col suo stesso essere: "devi perché sei".
"Nella famiglia l'uomo accetta, per effetto dell'educazione "climatica" in cui é immerso, la propria natura sociale e i doveri relativi verso i suoi, così come accetta se stesso. Non é costretto a scegliere tra famiglie diverse: ne ha solo una. Non può scegliere coloro che lo circondano: gli sono dati. Impara così ad acconsentire alle società maggiori nelle quali si integra, specialmente alla sua patria, che non é oggetto di scelta e costituisce il timone della società politica di cui é membro.
"Come comprendere la terra dei padri senza far riferimento alla famiglia? Come sottrarsi all'obbligo di amarla, che inizia nella famiglia, senza scuotere con ciò i fondamenti della comunità politica?
"Ma il ruolo educativo della famiglia in materia politica non si limita a questo. La famiglia c'insegna a sottoscrivere senza riserve quella che é l'anima stessa di ogni società organizzata: "La gerarchia designata dai servizi che presta".
"L'eguaglianza che affascina i nostri contemporanei é la definizione della morte sociale. Che scambi potranno esserci in un'associazione d'eguali, al di fuori di un commercio verbale, fallace e vano? Lo scambio esige differenziazione, e la differenziazione a sua volta esige la gerarchia al vertice, dalla quale lo scambio si trasforma in dono. Non sarà mai eccessivamente sottolineato che la comunità familiare é quella in cui i genitori danno sempre, senza mai ricevere in cambio dai propri figli, altro che segnali d'affetto. I servizi e i beni forniti dai genitori non hanno reciprocità da parte dei figli. Solo più tardi, quando essi avranno a loro volta fondato un focolare, i figli diventeranno donatori. La reciprocità del "quid pro quo" si estende nella successione.
"In questo sta l'essenza stessa della gerarchia: "il vero capo é colui che dà senza ricevere in cambio, o colui la cui liberalità é senza misura rispetto a quanto riceve", poiché dirige nel doppio senso di ordinamento e di comando - senza di che ogni società si sgretola - ed é l'unico che può farlo".

I benefici innumerevoli che la società riceve attraverso l'educazione familiare, non possono essere sostituiti da altri tipi d'educazione in cui la famiglia non occupa il ruolo che le spetta naturalmente.
La mancanza dell'educazione familiare produce danni a non finire, come lo sradicamento, il disadattamento, la ribellione, le tare psicologiche, la delinquenza, la massificazione, ecc.: senza l'educazione manca tutto quanto ha esposto Marcel de Corte.
Si può amare solo ciò che si conosce: se si separa il bambino dal suo ambiente familiare e locale, non potrà amare nulla in modo reale; invece, attraverso essi e grazie alla stabilità, potrà salire verso altre sfere o campi sociali.

 

3.3 Diversi gradi e tipi di insegnamento
L'universalità di insegnamento, pertanto, non é in contrasto con la pluralità dello stesso; anzi, al contrario, quella é condizione di questo, e solo con quella é possibile che la cultura giunga a tutto il popolo e la civiltà non scompaia.
Alla diversità di luogo - inteso nel suo aspetto più prossimo, familiare e locale - in cui il bambino vive, corrisponde, per ciò stesso, un diverso insegnamento in relazione allo stesso ambiente in cui vive.

3.3.1 L'insegnamento elementare
L'insegnamento elementare non può separare il bambino dal suo ambiente familiare e locale: il fine dell'educazione supera quello dell'istruzione e, al contempo, l'istruzione deve essere educatrice e non solamente istruttiva, cioè limitata ad apportare una serie di dati e conoscenze, facendo astrazione dal loro aspetto e valore morale. Come osserva Rafael Gambra (16), "supporre che l'insegnamento e la cultura siano qualcosa che si realizza esclusivamente nelle aule, assumendo contenuti e programmi per mezzo di libri e spiegazioni determinate, é una restrizione concettuale provocata dalla mentalità razionalista. Normalmente questi elementi, che l'uomo riceve dall'ambiente familiare, circostante e vitale, saranno - nell'insieme della sua cultura e della sua educazione - molto più profondi e decisivi di quanto potrà in seguito ricevere da libri e centri di insegnamento".
La scuola é il prolungamento della famiglia: non é la famiglia a dover supplire la scuola, ma il contrario. Il primato non spetta alla scuola, ma alla famiglia (dalla quale riceve, per delega dei genitori, la facoltà di educare e insegnare che ad essi spetta naturalmente), per cui la scuola non può perseguire una finalità distinta o contraria a quella assegnatale dalla famiglia e, su un altro piano, dalla Chiesa (17). La scuola é complementare alla famiglia - e perciò non può far valere diritti su essa - perché nell'ordine dei fini alcuni sono superiori ed altri subordinati.
Perciò, il bene che si vuole ottenere dall'insegnamento scolastico (se implica l'allontanamento permanente o considerevole dalla vita familiare o se é opposto ai desideri e sentimenti dei genitori), è annullato dal male che produce e le sue conseguenze sono assai più pregiudizievoli degli ipotetici benefici che si ottengono con l'insegnamento scolastico.
Ma se l'insegnamento non deve essere meramente istruttivo, ma anche - e nella misura in cui é possibile nei centri d'insegnamento -, educativo, ossia deve collaborare al fine primario costituito dall'educazione, cos'è che si deve insegnare?
Henry Charlier (18) evidenzia che "la meta dell'insegnamento non consiste nel far ritenere ai bambini il maggior numero di cose possibili, ma nell'insegnare loro a pensare. Che la memoria sia piena d'innumerevoli conoscenze accumulate dalle generazioni umane é completamente inutile, se lo spirito non sa unirle in idee e classificarle [...] E' su fatti molto semplici che i bambini imparano a pensare. E' necessario insegnare ad osservare i fatti invece di rimpinzare la memoria; semplificare l'insegnamento, non complicarlo".
E' certo che l'insegnamento ha due diverse utilità, che consistono, come segnala Henry Charlier (19), nel "dover formare lo spirito ed insegnare ai bambini molte cose pratiche che é loro necessario sapere. Deve preparare la ragione all'esattezza; l'intelligenza ad osservare bene, e, d'altro lato, aprire ai bambini le carriere con cui si guadagneranno da vivere". Non si deve dimenticare nessuna di queste cose, ma coordinarle perfettamente, perché "l'utilità pratica dell'insegnamento, per così dire, é annullata se lo spirito ragiona male e se l'intelligenza é cieca" (20).
L'insegnamento deve perciò stare in contatto col mondo reale, con la natura, e non rinchiudersi in astrazioni intellettuali o pseudo intellettuali, che rendono incapaci d'ogni realizzazione pratica e portano allo sfascio. Il che, se é importante in ogni insegnamento, lo é specialmente in quello elementare, perché é quello in cui il bambino acquisirà o mancherà dei primi elementi necessari al suo sviluppo. Pertanto, deve essere "una vera scienza pratica o un'arte veramente pratica" (21), e mai "una specie di teoria astratta della pratica, o un rimaneggiamento scientifico quantitativo che si crede pratico, ma che allontana tanto dalla vita e dai mestieri, quanto dalla pura teoria intellettuale" (22).
Orbene, se l'insegnamento deve insegnare a pensare, "pensare non é creare, né ricreare il mondo; é penetrare profondamente la natura delle cose e vedere le relazioni sfuggite agli occhi, mettere in rapporto fra loro i fatti osservati" (23). Questa conoscenza delle cose può realizzarsi solo sul campo e, perciò, l'insegnamento non deve allontanare - specie quello elementare e quello non tipico di futuri studi superiori -, il bambino dal suo ambiente locale.
L'insegnamento elementare deve essere, in primo luogo, religioso. Deve pure insegnare il linguaggio e il suo uso, perché attraverso di esso noi comunichiamo e capiamo, anche se nel grado necessario alla sua elementarità. A questo deve aggiungersi la storia, mettendo al livello dei bambini la conoscenza della loro patria e del loro popolo, perché congiuntamente all'educazione familiare imparino a conoscerlo e ad amarlo. Infine, le quattro operazioni fondamentali e la regola del tre, ma senza concedere all'aritmetica il primato, perché, come nota opportunamente Henry Charlier (24), "la matematica non é ... un mezzo di formazione tanto universale quanto le lettere. Ragionare con rigore ed esattezza sulle quantità non é una buona formazione intellettuale per giudicare le qualità, che é la nostra principale occupazione della vita: qualità dell'uomo, delle sensazioni, dei fatti e degli avvenimenti".
D'altra parte, l'insegnamento elementare deve essere tale da poter essere ricevuto da tutti i bambini. Il che non comporta l'obbligo di doverlo ricevere, ma implica, di fatto, il dovere di non partecipare ad un insegnamento corruttore e, in ambito giuridico, l'impossibilità di trasformare un diritto in un obbligo di legge imposto dallo Stato o dalla società.
Affinché tutti i bambini possano ricevere l'insegnamento elementare, é necessario che là dove sono i bambini ci siano delle scuole. Pertanto, materialmente, l'insegnamento elementare deve essere completamente portato in tutti i villaggi - per piccoli che siano -, posto che, come abbiamo evidenziato, non bisogna separare i bambini dal loro ambiente, ma operare in accordo con questo.

3.3.2 Il mestiere come educatore
Abbiamo evidenziato che l'insegnamento non deve separare dall'ambiente e che deve essere svolto a contatto con la realtà. Ciò significa che non deve staccare dai mestieri, deve esservi unito, svolgersi parallelamente al contatto con le cose nei laboratori, nei campi, nel mare... con tutto quanto é un mestiere.
Dove il contadino avrà appreso ad osservare il cielo per prevenire la grandine e la tormenta? Dove il carpentiere e il falegname a tagliare il legno ed assemblarne i pezzi? Come sapere quando si deve seminare? In che modo distinguere se un legno é secco o fresco e se serve per fare un mobile o, al contrario, se si dovrà aspettare o escluderlo? Sono, queste, conoscenze che si imparano sul campo, spesso dalla mano del padre o del familiare che vi si dedica. Sono conoscenze impossibili da imparare a scuola, dai libri o nei corsi teorici, per quanto li si frequentino.
L'insegnamento dei mestieri non può essere impartito nelle aule. Questo non é "classismo", né dimenticare o rinunciare al fine educativo, ma é una conseguenza naturale della vita. In questo modo si conoscerà il mestiere sin da bambino, si sarà familiari ad esso e s'imparerà ad amarlo e stimarlo, e gli uomini che si dedicano ad esso lo assimileranno nel modo più naturale. E questo non implica si debba obbligatoriamente seguire il mestiere dei genitori o dell'ambiente con cui si é a contatto: se si hanno attitudini e si vuole, ci si potrà dedicare a "studiare" e prepararsi a una carriera universitaria o di livello medio o per qualunque altra attività per la quale si abbiano le capacità.

3.3.2.1 L'educazione dei valori della persona
D'altronde, come ha recentemente messo in risalto Michel de Penfentenyo (25), anche i mestieri sono educatori sotto un duplice aspetto: educano ai valori propri della persona e sociali.

3.3.2.1.1 L'educazione del pensiero
Nel primo aspetto, innanzi tutto, l'apprendere un mestiere comporta al contempo l'imparare a pensare.
Henri Charlier (26) lo evidenzia nello scrivere "i filosofi e i professori, che si credono specialisti dell'universale, saranno probabilmente gli ultimi ad accettare che nell'apprendere seriamente un mestiere si forma lo spirito per distinguere le idee, astrarre e generalizzare. Quei falegnami popolari dei secoli XVII e XVIII, che ci hanno lasciato tanti mobili ammirevoli - e che ancora sono visibili nello stesso posto in cui furono fatti -, non sempre sapevano leggere: ma nelle loro opere c'è, senza dubbio, un'alta civiltà! Comperare un tronco di albero per fare con esso un armadio e portare a buon fine quel lavoro: questo é senza dubbio quel che si dice conoscere un mestiere... C'è un progetto dell'armadio, c'è una logica nelle attività, un ordine generale che deve essere colto astrattamente; sugli ipotetici pezzi di legno che il carpentiere non vede se non nella sua immaginazione, e che confronta con un progetto che é l'idea dell'armadio, il suo spirito impara ad astrarre e a generalizzare tanto seriamente quanto come su questi esempi venerabili: "Pietro é uomo", o "un cavallo raro é caro"".
"Imparare un mestiere - segnala Michel de Penfentenyo (27) - é, dunque, imparare a pensare, ma imparare a pensare all'interno del concreto e della stessa vita, cosa che implica molta disciplina dello spirito e della volontà, della quale non si occupano i libri. Questo lo si verifica ogni giorno, quando ammiriamo nell'uomo di mestiere "quel pensiero organico, alimentato da tutta la ricchezza del reale e ben legato al suo centro, che è Dio" (Thibon).
"Un pensiero di questo tipo é evidentemente più fecondo, per essere impregnato della stessa vita delle cose, del pensiero elaborato da un'intelligenza che non riceve le lezioni della vita se non attraverso l'espressione mediata dello scritto o dell'immagine. Perciò la vita dei mestieri e delle professioni, assieme alla vita di famiglia, é certamente il più fecondo mezzo organico per l'educazione integrale degli uomini. In quanto tale può essere un antidoto molto efficace per numerose sregolatezze del pensiero moderno".

3.3.2.1.2 Mestiere e cultura
Quanto alla relazione mestiere-cultura, Charlier scrive: "Ogni vero mestiere implica, per se stesso, una vera cultura" (28).
La cosa farà probabilmente mettere le mani nei capelli a tutti coloro che considerano come cultura l'uniformismo che abbiamo precedentemente criticato. Si tratta di una "cultura" uniforme, che Simone Weil non dubitò di qualificare come "strumento maneggiato dai professori per fabbricare professori che a loro volta fabbricheranno professori" (29). Cultura uniforme, torniamo a ripeterlo, che estingue la vera cultura, perché questa é diversificata e plurale, così come la stessa vita lo é per i diversi uomini concreti.
Scrive Penfentenyo (30): "Certamente, la cultura artistica non é cultura tecnica, né la cultura medica é cultura militare o scientifica.
"Facciamo riferimento agli infimi gradi dell'intelligenza applicata e non alle vette della vita metafisica. Ma non é meno certo che per la maggioranza degli uomini - che non sono né Platone, né san Tommaso d'Aquino, né Michelangelo -, le grandi intuizioni estetiche o metafisiche non saranno mai possibili senza che la ragione sia passata in qualche modo per le umili discipline delle verità e delle bellezze più elementari; la sapienza popolare che troviamo in tanti buoni operai e contadini mostra quanto quegli umili gradi di cultura ben incarnata aprano la strada ad una sapienza molto superiore e che va infinitamente più lontano delle sole conoscenze tecniche; mi piace abbastanza la bella formula del nostro amico B. Champon nell'ultimo quaderno del CERC (Centre d'Etudes et de Recherches des Cadres): "I tesori dell'arte, siano vecchie chiese o residenze, che esistono nel più piccolo villaggio delle nostre vecchie cristianità, sono altrettanti testimoni della ricca cultura di quei popoli illetterati"."

3.3.2.1.3 Mestiere e personalità
"Il mestiere - scrive ancora Penfentenyo (31) - é anche crogiolo della personalità morale e sociale. Sin dal momento in cui un uomo appartiene ad una certa classe, produce un'irradiazione ed é un'autorità sociale perché è formato dal proprio mestiere. Marinaio, professore, macellaio, notaio, orologiaio, sono altrettante personalità, e, pertanto, autorità naturali. La vita sociale si arricchisce e diviene gerarchica in rapporto alla varietà delle diverse personalità umane.
"Non ci si aspetta dall'ufficiale che sia prima e innanzi tutto un diplomatico, ma un uomo di governo; non si chiede al notaio che abbia principalmente spirito d'avventura, ma che sia il custode delle regole e forme giuridiche per il momento in cui sarà il consigliere legale delle famiglie. Neppure si chiede all'artista che si preoccupi della produttività, ma che dia nuove espressioni alla bellezza.
"In questo modo si potrebbe disegnare la galleria dei ritratti psicologici degli uomini dei mestieri, che sarebbe, di fatto, la galleria delle personalità più caratteristiche e al tempo stesso la galleria delle virtù sociali specifiche che costituiscono l'insieme della ricchezza multiforme di una società".

3.3.2.2 Educazione dei valori sociali
I mestieri sono anche educatori dei valori sociali per tre aspetti fondamentali, come il più volte citato Penfentenyo segnala (32): la responsabilità personale, la continuità e l'equilibrio della vita sociale, la promozione delle autorità sociali.
"Tre capitoli dell'educazione - scrive (33) - che ci portano agli antipodi dello spirito moderno, dello spirito ugualitario e collettivista...; di quello spirito che diseduca l'uomo nella misura in cui lo tratta come un essere perpetuamente bisognoso di assistenza, irresponsabile cronico e isolato socialmente, che deve essere programmato, vigilato e assicurato, come fa uno Stato che cerca in ogni occasione di fargli contemporaneamente da famiglia, nutrice, maestro di scuola, fornitore, medico, assicuratore, e, ovviamente, alla fine dei suoi giorni, becchino gratuito e obbligatorio".

3.3.2.2.1 La responsabilità personale
"Il senso della responsabilità personale é uno dei principali criteri d'educazione morale e sociale. Gli spiantati, gli incapaci, le vittime della massificazione sociale, non hanno che un senso molto debole della loro responsabilità, perché mancano di quei legami di dipendenza verso le cose o le persone, che vanno a formare la responsabilità" (34). Il senso di responsabilità é fornito dai mestieri in quanto danno stabilità, conoscenze e senso comune.
"Uno é responsabile di sua moglie e dei suoi figli nella misura in cui é davvero legato ad essi. Ugualmente, si é responsabili di un lavoro o di una professione nella misura in cui si é in qualche modo sposati a quel lavoro, nella misura in cui si é incorporati a quel mestiere; non si può educare al senso di responsabilità senza un minimo di incarnazione concreta. Perciò, quanto più un mestiere ci pone in contatto con le leggi della vita, tanto più quel mestiere educa al senso di responsabilità.
"Se un apprendista commette uno sbaglio, se un agricoltore rovina la semina, se un pilota d'aerei commette un errore di rotta o se un commerciante moltiplica i suoi errori di gestione, gli interessati se ne accorgono in modo molto diretto e personale; l'apprendista, il pilota o l'agricoltore sono immediatamente puniti, perché la natura delle cose nega la possibilità di accordi.
"Un uomo di mestiere che moltiplica i suoi errori viene escluso (nel caso di un marinaio o di un aviatore é persino eliminato fisicamente): la selezione naturale entra completamente in gioco; e se non viene eliminato dai propri interessi corre il rischio di esserlo per opera della clientela o dei suoi compagni di lavoro, perché le microsolidarietà delle persone dei mestieri sono tali che chi non rispetta le regole del gioco, subisce immediatamente il disprezzo e, eventualmente e successivamente, l'espulsione.
"Come si vede, in questo modo le comunità lavorative sviluppano simultaneamente il senso di responsabilità e il senso di solidarietà o, se si preferisce, il senso delle solidarietà responsabili; il che é assai importante per i tempi che corrono, nei quali si vedono masse disorganiche lasciarsi imbrogliare così facilmente dai propagandisti della solidarietà. E' però una solidarietà che rifiuta ogni senso di responsabilità: bisogna, dunque, stare molto attenti ai meccanismi del binomio solidarietà-responsabilità. Il binomio opera in modo completamente naturale nella vita professionale, perché la solidarietà dell'uomo col suo ambiente, la sua funzione e i suoi compagni o superiori appaiono come una necessità vitale".

3.3.2.2.2 La continuità e l'equilibrio della vita sociale
I mestieri, essendo vincolati e prossimi all'ambiente naturale, evitano la massificazione e i perniciosi effetti del gigantismo. Contemporaneamente, producono la naturale stabilità dell'uomo nel suo ambiente e ne rendono impossibile l'isolamento nella società massificata, in cui spesso vive, stimolando solidarietà umane concrete: essi costituiscono perciò un'efficace barriera ai movimenti di massa e ai totalitarismi (35).

3.3.2.2.3 La promozione delle autorità sociali
La naturalità dei mestieri e delle professioni danno luogo alla promozione delle autorità sociali. Le élite naturali sono conseguenza del loro dinamismo interno e della loro stabilità: sorgono nel seno di quelle organizzazioni - in modo naturale, non imposto né provocato dall'esterno -, perché hanno vita propria. E' per questo che gli uomini stabiliscono relazioni professionali realmente umane e riconoscono le autorità sorte al loro interno.
Come spiega lo stesso Penfentenyo (36), "l'autorità che si esercita in esse appare ai subordinati come legata a un'esistenza abbastanza dura, a una superiorità professionale evidente, a doveri e sacrifici che la collocano al di sopra di privilegi, in modo sufficiente perché coloro che devono andare ad occuparli vengano spinti più dalla naturale promozione sociale che dall'ambizione.
"In esse l'autorità dei capi si trova legata in modo molto evidente al destino della comunità di lavoro, che in qualche modo s'immunizza dai rischi ordinari di degradazione delle proprie funzioni autonomamente e previamente. Difesa dai suoi stessi abusi e dalla propria degenerazione, non può mancare alla giustizia, alla verità e al bene delle persone se non pregiudicando se stessa; non può distruggere alcunché se non distruggendo sé stessa in un termine medio o lungo.
"Gli interessi dei capi - parlo di quelli che formano un corpo con la stessa vita di coloro che comandano - si identificano a tal punto con gli interessi del popolo, che i nemici degli uni lo sono anche degli altri...".

3.3.3 L'insegnamento medio
Parlando dell'insegnamento elementare abbiamo visto che questo deve essere il più generalizzato possibile, per non separare il bambino dal suo ambiente vitale, familiare e locale.
Ma, nell'insegnamento medio, questa modalità deve continuare? Deve essere generale? Deve estendersi a tutti? Ancora, l'insegnamento medio deve essere unico? oppure, al contrario, esiste diversità di insegnamenti medi? Il baccellierato é l'unico insegnamento medio?
Come osserva Rafael Gambra (37): "Oltre a quest'insegnamento generale di base, ne esiste uno particolare per coloro che dedicheranno la loro vita alla ricerca, alle professioni umanistiche e a quelle tecniche che richiedono un capitale di conoscenze speculative. Quest'insegnamento non é più generale - e non si può desiderare che lo sia -, dal momento che prepara ad un'attività da esercitare per tutta la vita, e, per legge naturale, sono i meno quelli che la eserciteranno. Spingere tutti a seguire questo livello di studi costituirebbe una enorme perdita di energie e farebbe sì che la gran maggioranza delle funzioni della vita sociale fosse ricoperta in seguito a un insuccesso nelle professioni umanistiche o scientifiche".
"Concludere - dice altrove (38) - che l'insegnamento medio - inteso come baccellierato - debba estendersi alla totalità dei cittadini, costituisce quel sofisma che i logici definiscono come "prendere la specie per il genere", dato che, come é noto, il baccellierato non é l'insegnamento medio, bensì uno degli insegnamenti medi, assieme ad altri ugualmente medi (periti, magistrali, ecc.): per la precisione é il tipo di insegnamento medio che devono frequentare quegli alunni che rivolgono la loro vita verso gli studi superiori, specialmente quelli universitari. E' per questo che in esso si frequentano, anche nella fase iniziale, materie come il latino, cui difficilmente possono essere interessati coloro che non avranno un destino universitario; é per questo che gli studi possiedono (o devono possedere) un senso disinteressato e contemplativo che non può coincidere, neppure desiderandolo, col contenuto informativo e strumentale che per l'uomo non universitario devono avere gli studi medi" (39).
Oggi si pensa che chi non ha passato lunghi anni nelle aule - spesso a tempo perso - non é "formato", "preparato". Tuttavia, come segnalava Mario Laserna per la Colombia (40) (e la cosa si potrebbe estendere generalmente a tutti i paesi), "la scuola primaria di quattro anni che esisteva sino a poco tempo fa nei paesi più avanzati, ha formato alunni che scrivevano senza errori d'ortografia, conoscevano l'analisi logica e grammaticale, compivano rapidamente e senza errori le quattro operazioni, sviluppavano una capacità di astrazione che molti baccellieri di oggi potrebbero invidiare loro e manifestavano per tutta la vita un genuino desiderio di apprendere". Può dirsi la stessa cosa oggi, non solo dei baccellieri, ma anche degli universitari?
In verità, come segnalava Balmes (41), "se desideriamo pensare bene, dobbiamo cercare di conoscere la verità, la realtà delle cose. A che serve discorrere sottilmente o con apparente profondità, se il pensiero non é conforme alla realtà? Un semplice operaio, un modesto artigiano, che ben conoscono l'oggetto della loro professione, pensano e parlano di essa meglio di un presuntuoso filosofo che con elevati concetti e parole altisonanti vuol dare lezioni su ciò che non capisce".

3.3.4 L'insegnamento universitario e gli insegnamenti superiori
Per quanto concerne l'insegnamento universitario diremo, molto brevemente, che esso deve essere alla portata di tutti, il che é cosa ben diversa dal fatto che tutti vadano all'università. Essere alla portata di tutti, vuol dire che tutti coloro che abbiano spirito o vocazione universitaria e capacità sufficiente per farlo, possano, se questo é il loro desiderio, andare all'università.
Oggi l'università é spesso trasformata in una fabbrica di titoli, condizione necessaria per esercitare una professione: senza dubbio non é questo il fine dell'università. Un gran numero di titoli universitari odierni non corrispondono a quel che é l'università, o meglio, a quel che dovrebbe essere. Dopo aver ottenuto il titolo, dopo essere passati per le aule - molte volte e nei confronti di un gran numero d'indirizzi, oggi considerati universitari -, non si riesce in alcun modo ad essere un universitario. Si é tanto poco universitari quanto lo si era prima, per quanta qualificazione tecnica si sia ottenuta.
Tuttavia, in qualunque senso si consideri l'insegnamento universitario (sia come universalità del sapere, che come certificazione specifica di una professione), non si può pretendere di metterlo né alla portata di tutti, né della maggioranza, ma solo di coloro che sono capaci di frequentare con profitto detti studi, per non far calare l'alto livello necessario a che non si degradi il sapere.
L'universalità e la pluralità anteriormente segnalate esigono che l'insegnamento superiore, universitario, esista soltanto per la formazione d'autentiche élite del sapere. Da ciò deriva che, assieme a un autentico insegnamento universitario, debbano esistere altri insegnamenti superiori, imprescindibili per esercitare molteplici professioni, ma che non richiedono, e non richiederanno mai il carattere universitario, quand'anche fossero chiamati con questo nome.
In questo modo é possibile ottenere le finalità di molteplici insegnamenti superiori senza che perdano il loro carattere specifico, e al tempo stesso fare esistere un autentico insegnamento universitario, che non é soltanto superiore, ma qualcosa di davvero universitario.

 

NOTE

  1. Juan Vallet de Goytisolo: Algo sobre temas de hoy, Speiro, Madrid, 1972, p. 269. O, come dice in altro luogo: "Universalità, ma pluralità d'insegnamento. A ciascuno quella che gli fornisce la formazione più adatta al suo ambiente geografico, storico e sociale, alle sue possibilità; quella che meglio lo forma per il suo incarico professionale, realizzare la sua funzione, esercitare il suo impiego, rendersi conto della sua situazione in questo mondo, un passo - che si deve cercare di rendere fruttifero - dopo l'altro". In Sociedad de masas y derecho, Taurus, Madrid, 1969, p. 646.
  2. J. Vallet de Goytisolo: Algo sobre temas de hoy, Speiro, Madrid, 1972, p. 269-270. Cfr. Sociedad de masas y derecho, pp. 612-613.
  3. Michael Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, La Nuova Italia editrice, Firenze 1976, p. 619.
  4. Eugenio Vegas Latapie: El mito del igualitarismo, in Verbo, n. 75-76, maggio-giugno-luglio 1969, pp. 377 e succ. Consideraciones sobre la democracia, Afrodisio Aguado, Madrid, 1965; J. Vallet de Goytisolo: Sociedad de masas y derecho, specialmente il capitolo V della prima parte, ed. cit.
  5. Cfr. Milovan Djilas: La nueva clase, Suramericana, Buenos Aires, 1961.
  6. Simone Weil: L'enracinement, Gallimard, 1973, p. 62.
  7. Rafael Gambra: El silencio de Dios, Prensa Española, Madrid, 1968, p. 52.
  8. J. Vallet de Goytisolo: Sociedad de masas y derecho, op. cit.
  9. M. Rostovtzeff: op. cit., p. 619.
  10. M. Rostovtzeff: op. cit., p. 619, la citazione originaria del testo spagnolo: "la nostra civiltà non durerà che a condizione di non essere la civiltà di una classe, la civiltà delle masse", é presente nell'edizione italiana in questo modo: "la nostra civiltà non sarà duratura se non a condizione ch'essa sia la civiltà non di una sola classe, ma delle masse". Pertanto ho optato con la citazione proposta, di senso equivalente alle intenzioni dell'autore (N.d.T.).
  11. Pio XII: Benignitas et humanitas del 24-12-1944, trad. it. I sommi postulati di un retto e sano ordinamento democratico, Cristianità, Piacenza 1991.
  12. Cfr. Estanislao Cantero: ¿A quièn corresponde educar y enseñar?, in Verbo, nn. 159-160.
  13. R. Gambra: Forum sobre la enseñanza, in Verbo, n. 52, p. 161.
  14. Cfr. E. Cantero: " fini dell'educazione, in Verbo, n. 158.
  15. Marcel de Corte: La educaciòn politica, in Verbo, n. 59, pp. 637-639.
  16. R. Gambra: El tema de la enseñanza y la revoluciòn cultural, in Verbo, n. 89, novembre 1970, p. 890.
  17. Cfr. E. Cantero: ¿A quièn corresponde educar y enseñar?, Verbo, nn. 159-160.
  18. H. Charlier: Culture, école, métier, Nouvelle éditions latines, Parìs, 1959, p. 25.
  19. Idem, op. cit., p. 25.
  20. Idem, op. cit., p. 26.
  21. Idem, op. cit., p. 26.
  22. Idem, op. cit., p. 26.
  23. Idem, op. cit., p. 40.
  24. Idem, op. cit., p. 31.
  25. M. de Penfentenyo, La formaciòn de los hombres por los oficios y las profesiones, in Verbo, nn. 119-120, novembre-dicembre 1973. Le epigrafi sono prese da quest'opera.
  26. H. Charlier: op. cit., p. 34.
  27. M. de Penfentenyo: op. cit., p. 995.
  28. H. Charlier: cit. da Penfentenyo, op. cit., p. 997.
  29. Simone Weil: op. cit., p. 92.
  30. Michel de Penfentenyo: op. cit., p. 997.
  31. Idem, op. cit., p. 999.
  32. Idem, op. cit., p. 1001.
  33. Idem, op. cit., p. 1001.
  34. Idem, op. cit., p. 1002-1003.
  35. Idem, op. cit., p. 1004-1005.
  36. Idem, op. cit., p. 1007-1008.
  37. R. Gambra, El tema de la enseñanza y la revoluciòn cultural", op. cit., p. 892.
  38. Idem, La democratizaciòn de la enseñanza media, in Verbo, nn. 26-27, pp. 402-403.
  39. Mario Laserna, Rettore della Universidad de los Andes in Colombia, segnalava che: "se si vuole estendere a tutti o alla maggioranza il beneficio dell'educazione post primaria, come é senza dubbio lodevole fare, converrebbe diversificare la secondaria. In questo modo si risponderebbe alle necessità del paese e alle aspirazioni di molti giovani, senza far straripare l'università. La formula sembra poco democratica, ma, senza dubbio, essa da molte più probabilità ai settori più modesti che un sistema unico, nel quale sono sconfitti in anticipo". (in Planteamiento y reforma de la enseñanza universitaria, nella rivista "Universitas", Buenos Aires, n. 4, marzo 1968, p. 14). Soluzione analoga per il Portogallo viene proposta da Guilherme Braga da Cruz: Reforma do ensino superior. Dos anteprojectos de parecer para a Junta Nacional de Educaçao, Cidadela, Coimbra, 1973; cfr. la recensione in Verbo, nn. 117-118, agosto-ottobre 1973, pp. 845 e succ. Nello stesso senso può vedersi in Verbo n. 74, l'informativa del collegio docente di un istituto di Madrid, che si somma nella parte fondamentale a quanto redatto dalla Asociaciòn Provincial de Catedràticos de Enseñanza Media di Madrid.
  40. M. Laserna: op. cit., p. 14.
  41. Jaime Balmes: El criterio, cap. I, n. 1, p. 488, nell'edizione della B.A.C.