Caratteristiche del Martirio
Il martirio vero non può verificarsi se non nella piena e sincera adesione alla fede cattolica. Tre sono le dimensioni del martirio. La prima è quella della fortezza, la seconda è quella della fede, la terza è quella della carità. In primo luogo la fortezza. San Tommaso d’Aquino, insistendo sulla necessità della carità nel martirio e richiamando le parole di san Paolo "anche se dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova" (1Cor 13, 3), dice che nel martirio la carità è la virtù imperante, mentre la virtù imperata (quella virtù che compie l’atto del martirio) è la fortezza. Una virtù obliata in questi tempi e soprattutto travisata. Per la tendenza al pacifismo oggi si proclama la non violenza in assoluto come un valore a sé stante, mentre noi sappiamo bene che la non violenza in sé non è un valore, dipende dalle circostanze, poiché c’è una violenza giusta e ovviamente c’è una violenza ingiusta. Quindi bisogna dimostrare come la fortezza, che comporta certamente anche una certa aggressività ed un certo uso della forza, possa essere una virtù morale. San Tommaso dice che il compito della fortezza è quello di rendere l’uomo stabile, perseverante nella virtù, nel bonum honestum, quindi nel bene assoluto, anche davanti alle minacce di morte. L’uomo forte non è semplicemente colui che persevera, ma è precisamente colui che esercita la virtù della fortezza in tutte le sue sfumature e accezioni, davanti ai mali sia maggiori che minori. La fortezza e il coraggio non hanno valore di virtù se non perseverano nella verità, nel bene morale obiettivo e nel bene soprannaturalmente rivelato da Dio. La fortezza, e in particolare la fortezza eroica dei martiri, si collega strettamente con l’adesione alle verità di fede. San Tommaso, fondandosi sulla sapienza degli antichi, in particolare di Aristotele, dice che Dio diede alla dimensione sensitiva dell’uomo le passioni, che sono delle disposizioni fondamentalmente buone, ma devono essere moderate dalla virtù, dalla ragione. Le passioni che s’accompagnano alla fortezza sono due: l’audacia, che aggredisce il male per eleminarlo, e il timore, che fugge davanti al male. La fortezza, sia sul piano naturale dei valori umani, sia sul piano soprannaturale, presenta sempre questo duplice aspetto di aggressione e di fuga. Bisogna moderare l’audacia, per perseverare davanti alla minaccia del male senza pretendere di eliminarlo. Occorre poi reprimere la passione del timore per essere pazienti. Là dove non si può evitare il male, bisogna sopportarlo, con razionalità, con fiducia, con perseveranza.
Entrambi i lati della fortezza (sia la sua aggressività, sia la sua disponibilità a patire là dove il male è inevitabile) sono virtuosi e buoni. Tommaso tuttavia dichiara, molto giustamente, che l’aspetto più eroico della fortezza è quello della pazienza, senza tuttavia escludere, come fanno i nostri pacifisti, l’aspetto della moderata aggressione. L’aspetto della pazienza prevale nettamente, perché la fortezza dà all’uomo una certa stabilità davanti ai mali difficili da combattere. È più difficile — continua san Tommaso — sopportare a lungo il male, che aggredirlo per debellarlo e rimuoverlo. Quindi la pazienza prevale sull’aggressività. Ecco perché il vangelo ci consiglia di non opporre resistenza al male, consiglio travisato dai nostri contemporanei i quali affermano che il non resistere al male vuol dire lasciarsi calpestare nei propri diritti e lasciarsi schiaffeggiare. Ma è questa la pazienza? No, cari fratelli, non è questa la pazienza. Perché? Perché il vangelo è delicato e va spiegato non con la rozzezza della nostra privata interpretazione (come dice san Pietro in 1Pt 1, 20-21), ma alla luce della tradizione di santa romana Chiesa, unica interprete autentica del vangelo. La Chiesa dice che Gesù nel vangelo differenzia accuratamente i precetti dai consigli.
San Tommaso usa un’espressione stupenda quando afferma che il vangelo, essendo legge della perfezione, è legge della libertà dei figli di Dio. Perciò il Signore si contenta di riconfermare la legge: " Sono venuto non per abolire, ma per dare compimento " (Mt 5, 17). La legge non è abrogata, ma è ribadita dall’autorità divina del Salvatore. Gesù ci dà consigli non per fare ciò che è doveroso e necessario, ma per fare sempre di più. Questa è la generosità della carità, che non si accontenta di poco, ma che ha uno spirito di supererogatorietà (così la chiama san Tommaso), giacché tende a una perfezione sempre maggiore.
Quindi si capisce perfettamente come l’etica individuale del vangelo sia insopportabile per l’uomo di oggi, che è collettivista e mal tollera la sua libertà. Per essere perfetto, devo avere la virtù della pazienza, devo subire il male, non devo opporvi resistenza. Che generosità, che bellezza, che nobiltà spirituale nel rinunciare ai propri diritti, cari fratelli! Gesù ce lo dice chiaramente: " A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra " (Lc 6, 29). Perfezione stupenda. Tuttavia ciò non toglie il diritto alla legittima difesa. Chi rivendica il suo diritto è nel giusto. Ma anche chi rinuncia al suo diritto fa bene. Perciò il vangelo ci consiglia di essere pazienti, di non resistere al male. Alcuni, non riuscendo a capire che si tratta di un’etica soprannaturale e individuale, biasimano questo consiglio con argomentazioni sociali, naturali e politiche. Ora affermo, in termini un po’ paradossali, che è non solo lecito, ma anche molto lodevole porgere la propria guancia. Tuttavia guai a me se porgo la guancia al carnefice del mio fratello! Io posso rinunciare al diritto che è mio, proprio perché è mio, ma se rinuncio al diritto del mio fratello sono ingiusto e, se sono ingiusto, non posso considerarmi caritatevole. Se lo facessi, si tratterebbe di carità menzognera, non autentica, inesistente. La carità non toglie di mezzo la giustizia, ma riconferma le sue esigenze. Perciò sul piano sociale, naturale e politico, là dove sono in ballo diritti non miei, ma di tutta una comunità, di tutta una nazione, persino di tutta la Chiesa, questi diritti vanno ribaditi con estrema chiarezza, con severità e anche con aggressività (che come s’è detto è una passione della fortezza). Spero di aver chiarito la distinzione.
La seconda dimensione del martirio è quella della fede. Mi limiterò soltanto ad alcuni aspetti della questione. San Tommaso dice che l’oggetto specifica l’atto e l’abito della virtù. Quindi dall’oggetto la virtù prende la sua definizione, la sua essenza, la sua struttura. Ora l’oggetto della fede è la verità rivelata da Dio. La fede illumina la nostra ragione. Nella fede possiamo capire — sia pure in minima parte, perché adesso vediamo solo come in uno specchio e non ancora faccia a faccia — a quale eccelso compito è destinato dal Creatore il nostro intelletto. Nella nostra epoca apparentemente intellettualistica s’assiste invece allo spaventoso avvilimento della facoltà intellettiva. Pensate al soggettivismo, al relativismo, all’indifferentismo... L’uomo moderno ha perso il gusto di dire: "questo è vero, questo è falso". È un gusto squisitamente evangelico, perché il Salvatore dice: " Sia il vostro parlare sì, sì o no, no; il di più viene dal maligno " (Mt 5, 37). Sono parole tremende. Qui si vede da che parte viene il soggettivismo e il relativismo moderni. Bisogna dire con chiarezza che l’uomo ha accesso alla verità. E la verità rivelata ci obbliga moralmente. Bisogna sottomettere l’intelletto alla verità.
È chiaro allora che non ci sono màrtiri se non cattolici. Gli altri non possono pretendere la gloria del martirio. Hanno coraggio, questo sì, senz’altro. Sono anche ammirati. Ma se non c’è testimonianza data alla verità, non c’è martirio. Questa è la stoltezza dell’uomo moderno, il quale da relativista non vede l’obbligatorietà e la normatività della verità e dice: " Sì, sono màrtiri i cattolici, ma sono màrtiri anche gli altri ". Non è così. Bisogna stare nella verità con fortezza e con perseveranza.
La fede poi sostiene le stesse verità naturali dell’intelligenza umana. Insomma la fede necessariamente deve diventare anche una cultura umana, naturale, sul piano sia individuale sia sociale e politico.
La terza dimensione del martirio è quella della carità. La carità senza la verità non è carità. San Tommaso dice con chiarezza che questo dipende dalla struttura stessa delle facoltà umane. L’intelletto precede la volontà. Non intendo dire che la volontà non abbia qualcosa di suo che si aggiunge all’intelletto (questo è innegabile). Quello che voglio affermare è che, affinché la volontà sia corretta, deve aderire non alle sue fantasie e ai suoi capricci, ma a quello che l’intelletto le presenta come verità obiettiva e certa. Non si può dire: " Quella persona non ha fede, però è tanto caritatevole! ". Semmai si potrà dire che quello è un filantropo. Però tra filantropia e carità c’è una differenza abissale. L’amore naturale, pur essendo giusto, edificante e bello, non salva. Invece l’amore soprannaturale è una partecipazione alla terza persona della santissima Trinità. Dio ha effuso nei nostri cuori la carità che si fonda sulla verità e non su qualsiasi verità, bensì sulla verità soprannaturale, certa e obiettiva dell’amore.
Preghiamo i festeggiati di oggi — i bambini innocenti fatti uccidere da Erode alla nascita di Gesù — che intercedano per noi dal cielo affinché ci sia data sì l’audacia, sì la carità, ma soprattutto la fermezza, la gioia, l’obiettività e la sicurezza della verità e così sia.