P. Reginald Garrigou-Lagrange O.P.
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Rigoroso discepolo degli insegnamenti di san Tommaso d’Aquino e per questo definito «tomista di stretta osservanza», ma anche un metafisico e allo stesso tempo un contemplativo come san Giovanni della Croce.
È Réginald Garrigou-Lagrange (1877-1964), il teologo domenicano conosciuto come il capostipite del tomismo romano e ricordato ancora oggi come uno dei grandi avversari della Nouvelle théologie impersonata da pensatori come Yves-Marie Congar, Henri de Lubac o Jean Daniélou.
Oggi, del “maestro dell’Angelicum”, (l’ateneo pontificio di Roma dove insegnò per più di mezzo secolo), rimane intatta e attuale la forza del suo pensiero, a cominciare da capolavori come Dieu, son existence et sa nature, De Revelatione, Le tre età della vita interiore, Perfezione cristiana e contemplazione, o di un testo giovanile del 1909, spesso citato e molto amato da Paolo VI, come Le sens commun, la philosophie de l’être et les formules dogmatiques.
Réginald Garrigou-Lagrange incise così profondamente sulla teologia della prima metà del Novecento da essere definito da François Mauriac «il mostro sacro del tomismo».
Al secolo Gontran Marie, nasce in Guascogna il 21 febbraio del 1877 e nel 1897 deciderà di entrare nell’ordine dei frati predicatori (dopo aver abbandonato gli studi in medicina e una fidanzata). Studia filosofia alla Sorbona di Parigi e poi teologia alla famosa scuola belga Le Saulchoir: Garrigou-Lagrange si trova in perfetta sintonia con il magistero cattolico a cominciare dall’enciclica sulla riscoperta del tomismo di Leone XIII (Aeterni Patris, 1879) o quella di san Pio X che condanna il modernismo (Pascendi, 1907).
Diventa – direbbe uno dei suoi futuri più grandi estimatori, il cardinale Pietro Parente – un vero «campione della teologia»; i suoi modelli di riferimento sono i commentatori classici del tomismo: da Gaetano a Báñez, da Giovanni da san Tommaso a Billurat.
Ma è con l’approdo all’Angelicum di Roma (1909) e con la fondazione della cattedra di Ascetica e mistica (nel 1917, assieme al confratello Juan Arintero) che emerge il Garrigou-Lagrange più originale e innovativo, innamorato della spiritualità di san Tommaso e della mistica di Giovanni della Croce.
Nel 1926 tocca proprio a lui, in veste di consultore, dare il parere definitivo al titolo di Dottore delle Chiesa per il santo riformatore del Carmelo.
Garrigou-Lagrange sarà in grado di infondere la passione per la mistica e la contemplazione in un suo promettente allievo di dottorato: Karol Wojtyla (1948). Il futuro Giovanni Paolo II si laurea con il teologo discutendo una tesi sulla fede nelle opere di Giovanni della Croce; a padre Garrigou-Lagrange Wojtyla rimarrà sempre legato, ricordandolo pubblicamente, nel ventennale della morte, nel 1984, come un «compianto e amato maestro».
Gli anni che anticipano il Vaticano II vedono Garrigou-Lagrange simpatizzare per le tesi dell’Action française (poi sconfessata da Pio XI, a cui prontamente obbedirà), aderire al cattolicesimo di stampo franchista e allontanarsi da Maritain dopo la pubblicazione di Umanesimo integrale; sarà questo il periodo degli scontri teologici con Blondel, De Lubac (feroce sarà la sua critica a Surnaturel del 1946) o Chenu.
Amaro il suo commento a un articolo di Daniélou apparso su “Études” nel dopoguerra, in cui sosteneva «un ritorno alle dottrine patristiche come assai più vicine alla mentalità moderna» rispetto a san Tommaso.
Di fronte a tante critiche la sua replica (raccolta in via confidenziale dal suo discepolo Innocenzo Colosio) è ferma: «Io sono l’ultimo tomista; dopo di me il tomismo muore!».
Se per gli avversari è soltanto il «piccolo fonografo di san Tommaso», sono questi però gli anni dei grandi riconoscimenti: sarà uno degli estensori dell’enciclica di Pio XII Humani generis (1950) e papa Giovanni XXIII lo nomina perito della commissione preparatoria del Concilio Vaticano II (1960), incarico che Garrigou-Lagrange, già dal 1955 consultore del Sant’Uffizio di Alfredo Ottaviani, non potrà accettare, per l’aggravarsi della sua salute: ma resterà sempre grato a papa Roncalli per quel «gesto di stima».
Rimangono fisse nella memoria di chi lo ha conosciuto le sue lezioni del sabato sera all’Angelicum, a cui accorrevano masse di studenti provenienti dagli altri atenei pontifici solo per ascoltarlo; o l’impronta lasciata su molti suoi allievi divenuti teologi di fama proprio durante il Vaticano II, come Michael Browne, Mario Luigi Ciappi (entrambi futuri cardinali) o Rosaire Gagnebet.
O ancora il suo proverbiale distacco dai beni materiali: per tutta la vita ha destinato l’intero stipendio da professore e i proventi dei diritti d’autore ai poveri e ai mendicanti che venivano a bussare alla porta della sua cella; proverbiale è anche la sua devozione per i bambini morti in concetto di santità, ai quali dedica parecchi saggi).
Ridotto da una malattia incurabile alla progressiva perdita della lucidità, dopo un soggiorno nel convento di Santa Sabina a Roma viene ricoverato alla clinica San Domenico in piazza Sassari; lì trova la forza per le sue estreme preghiere e per sperimentare, prima della morte il 15 febbraio 1964, la sua ultima «notte oscura» – come rivelò il domenicano Innocenzo Venchi – alla stregua del suo amato Giovanni della Croce.
(Filippo Rizzi, per Avvenire 2014)