Come per la difesa della famiglia, anche nella difesa della vita vi sono piccoli gruppi che tendono a presentarsi come paladini intransigenti ma che, in realtà, accettano principi inconciliabili con la dottrina cattolica.
Di recente ha preso posizione contro la Marcia per la Vita 2017 un gruppuscolo denominato NO194, che in realtà propone l'aborto terapeutico.
Riproponiamo un saggio di Francesca Pannuti che analizza la posizione di costoro.
Aborto “terapeutico” e proposta di riforma della 194
Mi pare veramente degno di nota l’annuncio della consegna di un Ddl sull’aborto, che contempli il suo divieto e la sua penalizzazione, ad opera dell’Avv. Guerini, presidente dell’associazione No194, su richiesta del Senatore Domenico Scilipoti Ingrò.
La consegna del ddl, avvenuta il 14/12/2015, rappresenta una novità nel panorama politico e premia la tenacia dell’avv. Guerini nella sua battaglia condotta per tenere deste le coscienze sulla necessità di abrogare la legge 194 ed esigere un a pena per tale delitto. L’uomo che viola la sacralità della vita umana, per sua natura, non può non sentire l’esigenza di riparare al grave danno fatto ad un essere umano come lui, togliendogli quel bene fondamentale che è la vita.
Ora, non mi pongo qui l’obbiettivo di fare una disanima del ddl, che si può leggere a questo indirizzo:
[no194.it] , non avendo le competenze in campo giuridico.
Tuttavia non mi posso esimere dal notare un problema molto rilevante che emerge all’interno di tale testo, anche perché nasce da un equivoco molto diffuso nella mentalità corrente.
Mi riferisco a quanto si afferma nell’articolo 2: “L’aborto volontario è consentito solo nel caso di grave pericolo per la vita della donna che porti a termine la gravidanza o affronti il parto, grave pericolo attuale e non altrimenti evitabile che deve essere accertato e rigorosamente documentato in tali termini da una commissione composta da tre medici, nessuno dei quali dipendente o collaboratore della struttura sanitaria scelta dalla donna per l’eventuale interruzione di gravidanza, ed escludendo dall’accertamento qualsiasi analisi inerente un ipotetico suicidio della stessa. Ogni altra ipotesi di aborto volontario è vietata”.
Nella nota a tale articolo, poi, l’avv. Guerini, in previsione di obiezioni, dichiara: “l’unico caso di ammissibilità dell’aborto volontario era tutelato anche prima dell’entrata in vigore della legge 194/78 in quanto coperto dall’art. 54 c.p. (stato di necessità) e dall’art. 32 della costituzione (diritto alla salute), tutela che può essere negata alla donna solo declassandola a macchina riproduttrice, essendo pacifica la lesione di tale diritto qualora si intenda costringere per legge la donna a morire a motivo del suo stato di gravidanza, in violazione tra l’altro degli stessi dettami di fondo di carattere religioso, ad esempio, della dottrina cattolica che, da un lato, pure riconosce le esimenti dello stato di necessità e della legittima difesa e, dall’altro, nega a chiunque, anche allo Stato dunque, il diritto di disporre della vita di un individuo (quale la donna dev’essere ritenuta) dal concepimento alla morte naturale”.
Si nega, così, poi, anche il diritto all’obiezione di coscienza in casi come questo.
Va messo bene in evidenza che il punto cruciale dell’equivoco sta nel senso proprio dell’espressione “diritto alla salute”. Infatti il caso specifico contemplato dal testo del ddl è quello che comunemente ed erroneamente viene chiamato aborto “terapeutico”. Ora, però, le condizioni per cui si può parlare di intervento specificamente terapeutico sono, secondo E. Sgreccia, quelle in cui le cure medico-chirurgiche siano rivolte a «curare o a togliere la parte malata del fisico; nel caso in questione non si tratta di agire su una malattia in atto, ma piuttosto, si ipotizza la soppressione del feto per evitare l’aggravamento della salute o il pericolo di vita della madre» (E. Sgreccia, Manuale di bioetica, Vita e Pensiero, 2007 Milano, p. 573).
Non si tratta, quindi, nell’aborto “terapeutico”, di agire sulla malattia in vista della salute, bensì su ciò che è sano, cioè sul feto, che può essere anche sano, per prevenire una malattia o il rischio di morte della mamma. Si deve parlare, pertanto, di un’interruzione di gravidanza «in presenza del pericolo per la vita o per la salute della madre» (Ibidem).
Riguardo a questo pericolo, si possono immaginare due scenari un po’ diversi. Il primo sarebbe quello del rischio evidentissimo, praticamente certo, per la vita della madre nella prosecuzione della gravidanza; il secondo, quello di un aggravamento della salute della mamma, le cui previsioni cliniche non sono così facili da assodare.
Si possono immaginare, come spesso si fa oggi, anche altri scenari di un interessamento della salute o di semplici ripercussioni psicologiche, nel caso della non accettazione della gravidanza o di malformazioni del feto.
In definitiva, si scivola facilmente in un’estensione arbitraria delle indicazioni per eseguire l’aborto, moltiplicando i casi difficili in cui si può trovare la donna durante la gestazione.
Tengo a far notare, infatti, che in Italia si è partiti dalla sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975 della Corte Costituzionale ove si contemplava la possibilità dell’aborto cosiddetto “terapeutico” diretto a proteggere non solo la vita, ma anche la salute della madre. La sentenza però precisava “...... ritiene anche la Corte che sia obbligo del legislatore predisporre le cautele necessarie per impedire che l'aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della gestazione: e perciò la liceità dell'aborto deve essere ancorata ad una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla".
Nella legge 194/78, poi, nonostante che nell’art. 1 si sancisca la tutela della vita umana sin dal suo inizio, si recita all’art. 4: «Per interruzione volontaria della gravidanza entro i novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito...».
In tale legislazione, quindi si è partiti dal caso del grave pericolo per la donna e da dichiarazioni di principio che prendono le mosse dalla sentenza del 1975, per poi estendere le indicazioni dell’aborto terapeutico a criteri di carattere socio - economico.
Nella pratica, infine, si è giunti all’aborto con caratteristiche eugenetiche sotto il pretesto della tutela della “salute riproduttiva della donna”.
Mi pare logico concludere che la sentenza del 1975, che dichiarava la legittimità dell’aborto “terapeutico” in casi di estrema gravità, sia stata “la testa di ponte” per introdurre in modo surrettizio l’aborto in Italia. Da lì ha preso le mosse la legge 194.
E questo perché certamente c’è stata, e c’è tuttora, una volontà politica che ha portato a questo (escludiamo che ciò sia nelle intenzioni dell’avv. Guerini), ma anche perché c’è un vulnus, un equivoco di fondo nello stesso concetto di aborto “terapeutico”.
Sgreccia, al proposito, rileva come eventuali complicanze o aggravamenti nella salute durante la gravidanza sono meglio controllabili con un’adeguata assistenza clinica, resa oggi possibile dalle avanzatissime tecnologie che permettono di ridurre sempre più i rischi per la salute.
Aggiunge poi: «Esistono poi condizioni di salute, che solitamente vengono prese in considerazione per la IVG, nelle quali, tuttavia, l’interruzione della gravidanza pesa ancora di più negativamente nei confronti della salute, che non la prosecuzione o, comunque, l’interruzione non porterebbe sostanziale giovamento. E’ anche qui chiara la non giustificazione medica dell’interruzione; ... esistono infine, delle condizioni in cui l’aggravamento è reale, ma può essere affrontato con metodi diversi dall’interruzione (la dialisi periodica nelle gravide affette da grave insufficienza renale, la cardiochirurgia in donne con difetti cardiaci, ecc.). Non occorre spendere molte parole per comprendere come in questi casi la vera terapia, quella che elimina direttamente la malattia senza offendere la vita del feto, è l’unica lecita» (Manuale, cit., p. 575).
Si può concludere a favore di una sempre maggiore riduzione dei casi di vero rischio per la salute della donna, visto che molte delle indicazioni che erano state addotte a favore della necessità della IVG in casi gravi, come tubercolosi, malattie vascolari, epatiche e pancreatiche, tumori (a parte quelli dell’apparato genitale), perdono valore di fronte ai progressi enormi della scienza medica. Inoltre lo scompenso che si causa in una donna per la perdita del figlio sconsiglia in molte circostanze acute l’IVG.
Ora, essendo la vita il bene fondamentale che rende possibile il godimento di tutti gli altri (beni sociali, economici, salute, ecc.), si comprende bene come sia sproporzionato sopprimere il bambino per motivi economici, sociali o fisici. La persona infatti precede la società e la fonda, quindi quest’ultima non ha il diritto sulla vita del singolo innocente. Si comprende pure come la vita del figlio non può essere strumentalizzata a vantaggio della salute della mamma, sia perché il valore della vita non può essere equiparato a quello della salute, sia perché la maternità, come ogni altro compito, prevede la possibilità del rischio della salute. Quindi l’obbligo della società è quello di apportare assistenza adeguata nella cura delle malattie e nel sostegno della vita di tutti in modo indistinto.
Questa premessa aiuta meglio a capire come occorre affrontare, dal punto di vista bioetico, i limitatissimi casi di cui si parla nel ddl in questione.
E tra questi Sgreccia ne ravvisa due: quello in cui la continuazione della gravidanza comporti la morte della mamma e del bambino, mentre l’aborto consentirebbe alla mamma di vivere; l’altro, in cui la prosecuzione della gestazione comporterebbe la morte della mamma, mentre resterebbe la speranza per la vita del figlio.
Mi pare che si possa premettere anche che le previsioni mediche, per quanto altamente probabili, non possono contenere certezza assoluta.
Tenuto conto di ciò, occorre fare alcune considerazioni di carattere morale, che derivano dalla sola ragione e che, in quanto tali, devono essere poste alla base delle considerazioni giuridiche. E ciò per il fatto che se si esclude la morale dal diritto, quest’ultimo si trasforma in arbitrio.
Per il primo caso (ma ciò vale per tutto), occorre precisare che l’intenzione di salvare la madre non è sufficiente per legittimare la bontà di un’azione che si rivolge in modo diretto contro il feto. E’ necessario che l’azione in sé sia buona e non solo l’intenzione. Non si può inoltre invocare il diritto per la madre di legittima difesa, perché in realtà il feto è innocente e non ha il ruolo di un ingiusto aggressore che attenti alla vita della mamma.
Occorre fare molta attenzione a questa visione distorta molto diffusa.
E’ invece «dovere del medico sostenere la vita sia della madre sia del bambino e offrire tutti i mezzi terapeutici per la salvezza di entrambi. Tra questi mezzi non esiste quello dell’uccisione diretta, che non è né atto medico né atto etico... la vita innocente non può essere direttamente soppressa per nessuna per nessuna ragione essendo valore trascendente, e non può essere direttamente sacrificata da altri neppure per la salvezza di qualcuno» (ivi, p. 580).
Se si ammettono eccezioni a questo principio si apre la strada all’eutanasia e ad altre forme di discriminazioni.
Nel caso, poi, in cui vi siano, con la prosecuzione della gestazione, la previsione della morte della mamma e la speranza per la vita del figlio, si può tentare il taglio cesareo, quando c’è la concreta possibilità di salvare il bimbo, se la mamma è in fin di vita. Comunque va tenuto fermo il principio secondo cui «non si può scegliere la vita della madre, con un’azione diretta di soppressione del figlio, perché nessun uomo ha il diritto di scelta nella vita altrui» (ibidem).
Ben diversa è la circostanza in cui, durante l’intervento del medico, teso a salvare la vita di entrambi, uno dei due muoia accidentalmente e in modo indipendente dall’intenzione e dall’azione diretta dell’operatore sanitario, la quale deve essere sempre rivolta a salvare e curare.
Ecco che, da queste considerazioni di carattere bioetico appare evidente che le motivazioni addotte dall’avv. Guerini nella nota al suo ddl risultano smentite. Non si verifica il caso della donna ridotta a macchina riproduttrice, bensì piuttosto va auspicato un impegno serio a realizzare in pieno e a sviluppare al massimo le possibilità della scienza medica e della tecnologia, per ridurre al minimo i “casi estremi” e gestirli al meglio.
Va tenuto conto anche che nel 2007 in Nicaragua si è registrato un calo del tasso di mortalità del 10% dopo l’approvazione all’unanimità, nel 2006, della legge che vieta l’aborto per qualsiasi motivo, anche quello “terapeutico”.
Si vede, in conclusione, come il cosiddetto “diritto alla salute” viene equivocato come diritto ad eliminare una vita a vantaggio di un’altra. La salute, infatti, come abbiamo dimostrato si difende solamente tramite cure adeguate, non mediante interventi occisivi quali l’aborto, anche sotto l’appellativo inadeguato di “terapeutico”.
L’appello che viene fatto, infine, alla dottrina cattolica, è privo di fondamento, sia perché, come abbiamo rilevato, non si pone il caso della legittima difesa, sia perché l’Istruzione Donum vitae al punto 3 della parte I afferma:
«Come per ogni intervento medico sui pazienti, si devono ritenere leciti gli interventi sull'embrione umano a patto che rispettino la vita e l’integrità dell'embrione, non comportino per lui rischi sproporzionati, ma siano finalizzati alla sua guarigione, al miglioramento delle sue condizioni di salute o alla sua sopravvivenza individuale ... L'applicazione di questo principio morale può richiedere delicate e particolari cautele trattandosi di vita embrionale o di feti. La legittimità e i criteri di tali interventi sono stati chiaramente espressi da Giovanni Paolo II:
"Un intervento strettamente terapeutico che si prefigga come obiettivo la guarigione di diverse malattie, come quelle dovute a difetti cromosomici, sarà, in linea di principio, considerato come auspicabile, supposto che tenda a realizzare la vera promozione del benessere personale dell'individuo, senza arrecare danno alla sua integrità o deteriorarne le condizioni di vita. Un tale intervento si colloca di fatto nella logica della tradizione morale cristiana”». E al punto 3 dell’introduzione: «La biologia e la medicina nelle loro applicazioni concorrono al bene integrale della vita umana quando vengono in aiuto della persona colpita da malattia e infermità nel rispetto della sua dignità di creatura di Dio. Nessun biologo o medico può ragionevolmente pretendere, in forza della sua competenza scientifica, di decidere dell'origine e del destino degli uomini. Questa norma si deve applicare in maniera particolare nell'ambito della sessualità e della procreazione, dove l'uomo e la donna pongono in atto i valori fondamentali dell'amore e della vita».
Inoltre, sia nel Catechismo della Chiesa cattolica (n. 2271) sia nell’Enciclica Evangelium vitae (n. 62) si dichiara che l’aborto diretto non è consentito come fine, ma neanche come mezzo. Un’azione per essere retta infatti deve contemplare non solo un fine buono, ma anche un mezzo buono.
Pertanto, la dottrina della Chiesa cattolica non può che confermare quanto la scienza bioetica sostiene, sulla base della retta ragione ispirata alla legge naturale, come si legge nel documento dal titolo Chiarificazione della Congregazione per la dottrina della Fede sull’aborto procurato:
«Quanto alla problematica di determinati trattamenti medici al fine di preservare la salute della madre occorre distinguere bene tra due fattispecie diverse: da una parte un intervento che direttamente provoca la morte del feto, chiamato talvolta in modo in appropriato aborto "terapeutico", che non può mai essere lecito in quanto è l'uccisione diretta di un essere umano innocente; dall'altra parte un intervento in sé non abortivo che può avere, come conseguenza collaterale, la morte del figlio: "Se, per esempio, la salvezza della vita della futura madre, indipendentemente dal suo stato di gravidanza, richiedesse urgentemente un atto chirurgico, o altra applicazione terapeutica, che avrebbe come conseguenza accessoria, in nessun modo voluta né intesa, ma inevitabile, la morte del feto, un tale atto non potrebbe più dirsi un diretto attentato alla vita innocente. In queste condizioni l'operazione può essere considerata lecita, come altri simili interventi medici, sempre che si tratti di un bene di alto valore, qual è la vita, e non sia possibile di rimandarla dopo la nascita del bambino, né di ricorrere ad altro efficace rimedio" (Pio XII, Discorso al "Fronte della Famiglia" e all'Associazione Famiglie numerose, 27 novembre 1951)».
Mi piace concludere con le parole di Giovanni Paolo II sulla responsabilità e sul ruolo degli operatori sanitari:
«La loro professione li vuole custodi e servitori della vita umana. Nel contesto culturale e sociale odierno, nel quale la scienza e l'arte medica rischiano di smarrire la loro nativa dimensione etica, essi possono essere talvolta fortemente tentati di trasformarsi in artefici di manipolazione della vita o addirittura in operatori di morte. Di fronte a tale tentazione la loro responsabilità è oggi enormemente accresciuta e trova la sua ispirazione più profonda e il suo sostegno più forte proprio nell'intrinseca e imprescindibile dimensione etica della professione sanitaria, come già riconosceva l'antico e sempre attuale giuramento di Ippocrate, secondo il quale ad ogni medico è chiesto di impegnarsi per il rispetto assoluto della vita umana e della sua sacralità» (Enciclica Evangelium vitae, n. 89).
Francesca Pannuti, per
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