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Fatima, porta della speranza
Il messaggio di Fatima non rappresenta solo un antidoto alla penetrazione degli errori del comunismo, apre anche i cuori alla speranza nel futuro della Chiesa e della società intera. Sei Pontefici hanno riconosciuto e onorato le apparizioni della Cova da Iria. Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI visitarono il Santuario da Papi, mentre Giovanni XXIII e Giovanni Paolo I vi si recarono da cardinali. Pio XII vi inviò il suo delegato, il cardinale Aloisi Masella. Chi non è mai stato a Fatima non perda l’occasione di andarci, nel centenario di quest’evento. Chi c’è già stato, ci ritorni.
RC n.123 - aprile 2017 di Roberto de Mattei
Chi si reca in pellegrinaggio a Lourdes lo fa per immergersi nell’atmosfera soprannaturale di un luogo. La Grotta in cui la Madonna apparve a santa Bernadette nel 1858 e le piscine in cui i malati continuano ad essere immersi nell’acqua miracolosa, sono lembi di terra benedetta in una società ormai sconsacrata. Chi va a Fatima, lo fa invece per trarre refrigerio spirituale non da un luogo, ma da un Messaggio celeste: il cosiddetto “segreto”, che la Madonna affidò a tre pastorelli cento anni fa, tra il maggio e l’ottobre del 1917. Lourdes guarisce soprattutto i corpi, Fatima offre una direzione spirituale alle anime disorientate.
Il 13 maggio 1917, alla Cova de Iria – un luogo sperduto, tutto sassi e ulivi, vicino al villaggio di Fatima in Portogallo –, a tre bimbi che stavano badando alle loro pecore, Francesco e Giacinta Marto e la cuginetta Lucia dos Santos, apparve, secondo le loro parole, «una Signora, tutta vestita di bianco, più splendente del sole, che diffondeva una luce più chiara e intensa di un bicchiere di cristallo pieno di acqua pura, attraversato dai raggi del sole più ardente». Questa Signora si rivelò come la Madre di Dio, incaricata di portare un messaggio agli uomini, e dette appuntamento ai tre pastorelli per il 13 del mese successivo e così via, fino al 13 ottobre. L’ultima apparizione si concluse con un grandioso miracolo atmosferico, detto la “danza del sole”, visto fino a oltre 40 chilometri di distanza, da decine di migliaia di testimoni.
Il segreto rivelato dalla Madonna a Fatima consiste di tre parti, che formano un insieme organico e coerente. La prima è la terrificante visione dell’inferno in cui precipitano le anime dei peccatori; a questo castigo si contrappone la misericordia del Cuore Immacolato di Maria, supremo rimedio offerto da Dio all’umanità per la salvezza delle anime.
La seconda parte riguarda una drammatica alternativa storica: la pace, frutto della conversione del mondo e dell’adempimento delle richieste della Madonna, oppure una terribile punizione che avrebbe atteso l’umanità, se questa si fosse ostinata nelle vie del peccato. La Russia sarebbe stata lo strumento di questo castigo.
La terza parte, divulgata dalla Santa Sede nel giugno 2000, dilata la tragedia alla vita della Chiesa, offrendo la visione di un Papa e di vescovi, religiosi, religiose e laici colpiti a morte dai persecutori. Le discussioni che si sono aperte negli ultimi anni su questo “Terzo Segreto” rischiano però di offuscare la forza profetica della parte centrale del Messaggio, riassunta da due frasi decisive: «la Russia diffonderà nel mondo i suoi errori» e «Infine, il mio Cuore Immacolato trionferà».
Il 13 luglio del 1917, quando la Madonna rivolge ai fanciulli di Fatima queste parole, la minoranza bolscevica non ha ancora conquistato il potere in Russia. Ciò avverrà qualche mese dopo con la “Rivoluzione di Ottobre”, che segna l’inizio della diffusione nel mondo di una filosofia politica, che si propone di scardinare i fondamenti dell’ordine naturale e cristiano. «Per la prima volta nella storia – affermò Pio XI nella sua enciclica Divini Redemptoris del 19 marzo 1937 – stiamo assistendo ad una lotta freddamente voluta e accuratamente preparata dall’uomo contro tutto ciò che è divino (2 Tess. 1, 4)». Non c’è stato nel Novecento crimine analogo al comunismo, per lo spazio temporale in cui si è disteso, per i territori che ha abbracciato, per la qualità dell’odio che ha saputo secernere. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica questi errori si sono come liberati dall’involucro che li conteneva, per propagarsi come miasmi ideologici a tutto l’Occidente, sotto forma di relativismo culturale e morale.
Gli errori del comunismo sembrano essere penetrati all’interno della stessa Chiesa cattolica. Papa Bergoglio ha recentemente ricevuto in Vaticano gli esponenti dei cosiddetti “movimenti popolari”, rappresentanti della nuova sinistra marx-ecologista, e ha espresso la sua simpatia verso i regimi filo-marxisti dei fratelli Castro a Cuba, di Chávez e Maduro in Venezuela, di Morales in Bolivia, di Rafael Correa in Ecuador, di José Mujica in Uruguay, dimenticando le parole di Pio XI che, nell’enciclica Divini Redemptoris del 19 marzo 1937, definiva il socialcomunismo come «intrinsecamente perverso».
Il messaggio di Fatima rappresenta un antidoto alla penetrazione di questi errori. Sei Pontefici hanno riconosciuto e onorato le apparizioni della Cova da Iria. Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI visitarono il Santuario da Papi, mentre Giovanni XXIII e Giovanni Paolo I vi si recarono quando erano ancora il cardinale Roncalli e il cardinale Luciani. Pio XII vi inviò il suo delegato, il cardinale Aloisi Masella.
Chi non è mai stato a Fatima non perda l’occasione di andarci, nel centenario di quest’evento. Chi è già stato una o più volte, faccia come ho fatto io: ci ritorni. Non troverà, almeno fino a Pasqua, una grande massa di pellegrini. Ignori il nuovo santuario, che nella sua bruttezza ricorda quello di san Pio da Pietrelcina a San Giovanni Rotondo, e limiti la sua visita alla cappellina delle apparizioni, al vecchio santuario, che ospita le spoglie dei beati Giacinta e Francesco, e al colle del Cabeço dove, nel 1916, l’Angelo del Portogallo anticipò le apparizioni ai tre pastorelli. Fatima svela ai suoi devoti la portata della tragedia del nostro tempo, ma apre anche i cuori ad una invincibile speranza nel futuro della Chiesa e della società intera.
Radici cristiane:
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La strage di Tanta e di Alessandria è un brusco richiamo alla realtà per papa Francesco, alla vigilia del suo viaggio in Egitto. Gli attentati in Medio Oriente, come in Europa, non sono sciagure naturali, evitabili con incontri ecumenici, come quello che papa Bergoglio avrà il 28 aprile con il Grande Imam di Al-Azhar, ma sono episodi che ci ricordano l’esistenza sulla terra di profonde divisioni ideologiche e religiose che possono essere sanate solo dal ritorno alla verità.
E la prima verità da ricordare, se non si vuole mentire a sé stessi e al mondo, è che gli attentatori di Alessandra e di Tanta, come quelli di Stoccolma e di Londra, non sono squilibrati o psicolabili, ma portatori di una visione religiosa che dal VII secolo combatte il Cristianesimo. Non solo l’Europa, ma l’Occidente e l’Oriente cristiano, hanno definito nei secoli la propria identità difendendosi dagli attacchi dell’Islam, che non ha mai rinunciato alla sua egemonia universale.
Diversa è l’analisi di papa Francesco che, nell’Omelia della Domenica delle Palme ha ribadito la sua vicinanza a coloro che «soffrono per un lavoro da schiavi, soffrono per i drammi familiari, per le malattie. Soffrono a causa delle guerre e del terrorismo, a causa degli interessi che muovono le armi e le fanno colpire».
Alzando quindi gli occhi dal foglio, il Papa ha aggiunto: preghiamo anche per la conversione del cuore «di quelli che fanno e trafficano le armi». Papa Bergoglio ribadisce quanto ha spesso dichiarato: non è né l’Islam in sé stesso, e neppure una sua deviazione a minacciare la pace nel mondo, ma gli “interessi economici” dei trafficanti di armi.
Nell’intervista con il giornalista Henrique Cymerman, pubblicata sul quotidiano catalano La Vanguardia il 12 giugno 2014, Francesco aveva affermato: «Scartiamo un’intera generazione per mantenere un sistema economico che non regge più, un sistema che per sopravvivere deve fare la guerra, come hanno fatto sempre i grandi imperi. Ma, visto che non si può fare la terza guerra mondiale, allora si fanno guerre locali. E questo cosa significa? Che si fabbricano e si vendono armi, e così facendo i bilanci delle economie idolatriche, le grandi economie mondiali che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro, ovviamente si sanano».
Il Papa non sembra credere che si possa scegliere di vivere e di morire per inseguire un sogno politico o religioso. Ciò che muove la storia sono gli interessi economici che un tempo erano quelli della classe borghese contro la classe proletaria, oggi sono quelli delle multinazionali e dei paesi capitalisti contro “i poveri della terra”. A questa visione degli eventi, che discende direttamente dall’economicismo marxista, si contrappone oggi quella geopolitica del presidente degli Stati Uniti Donald Trump e del presidente della Federazione Russa Vladimir Putin.
Trump e Putin, hanno riscoperto gli interessi nazionali dei rispettivi paesi e sullo scacchiere del Medio Oriente combattono una dura partita sul piano diplomatico e su quello mediatico, non escludendo di trasporla sul piano militare. L’Islam agita a sua volta lo spettro della guerra religiosa nel mondo.
Quali sono le parole che, alla vigilia della Santa Pasqua, i fedeli attendono dal Capo della Chiesa cattolica? Aspettiamo di sentirci dire che le vere cause delle guerre non sono né di ordine economico, né di ordine politico, ma innanzitutto di ordine religioso e morale. Esse hanno le loro origini più profonde nel cuore degli uomini e la loro radice ultima nel peccato. È per redimere il mondo dal peccato che Gesù Cristo ha sofferto la sua Passione, che oggi è anche la Passione di una Chiesa perseguitata in tutto il mondo.
Nella preghiera per la pace che compose l’8 settembre 1914, non appena esplose il primo conflitto mondiale, Benedetto XV esortò a implorare privatamente e pubblicamente «Dio, arbitro e dominatore di tutte le cose, affinché, memore della sua misericordia, allontani questo flagello dell’ira con il quale fa giustizia dei peccati dei popoli. Imploriamo che nei nostri voti comuni ci assista e favorisca la Vergine Madre di Dio, la cui faustissima nascita, che celebriamo in questo stesso giorno, rifulse al travagliato genere umano come aurora di pace, dovendo ella dare alla luce Colui nel quale l’eterno Padre volle riconciliare tutte le cose, “rappacificando con il sangue della sua croce sia le cose che sono sulla terra, sia quelle che sono nei cieli” (1 Col. 1, 20)».
È un sogno immaginare che un Papa possa rivolgere all’umanità parole di questo genere in una situazione internazionale tempestosa come quella che oggi viviamo?
(Roberto de Mattei, Il Tempo, 10 aprile 2017)
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Marciare per salvare la Civiltà. Il perché di una scelta.
Per il sesto anno di seguito, l’Italia è in recessione. Lo ha certificato anche l’ISTAT ma pochi giornali ne hanno parlato: TelevideoRai ha riportato la notizia nelle rubriche secondarie e non nella celebre pagina ‘103’ dove vanno a finire le notizie più importanti e clamorose.
Solamente Avvenire se n’è accorto e, ad onor del vero, è dal novembre/dicembre che cerca di sensibilizzare la società e gli altri media su questa tematica fornendo studi, cifre, dati, riflessioni di esperti. Perché è stata scelta questa linea editoriale da parte dell’intero mondo dell’informazione italiano? Perché, attenzione, l’Italia non è in recessione economica per il sesto anno di seguito: l’Italia è in recessione demografica!
Non solo gli italiani non procreano più, ma neanche adottano più bambini (in particolare nel sistema delle adozioni internazionali). Se Atene piange, inoltre, Sparta non ride: anche gli stranieri infatti procreano sempre di meno. E l’ISTAT per far ingollare meglio la pillola non parla più di abitanti ma di residenti, falsando cioè il dato reale in quanto (non neghiamolo) il concetto di residenza e di domicilio in Italia sono agli antipodi una dall’altra. Allo stesso modo, probabilmente per la prima volta, per non mostrare il vero e proprio vuoto che si sta creando tra la popolazione italiana l’ISTAT si esprime in termini percentuali millesimali, abbandonando la tipica percentuale a due zeri che ci hanno insegnato alle elementari. Oltre a questo, aumenta di anno in anno il numero dei morti che, ormai, ha superato anche le cifre spaventose degli anni 1916/1917: poiché in quel biennio ci furono le più dure battaglie della Grande Guerra cosicché lo scenario è ancora più preoccupante e logicamente assurdo. Ormai l’indice di sostituzione (il fatto cioè che ogni anno ad ogni morto corrisponda almeno un nuovo vivo) è semplice teoria dei manuali statistici: la realtà ci dice altro.
La domanda di sopra, tuttavia, rimane: perché non si dà importanza ad una notizia (ormai una vera e propria “serie storica”) che riguarda sia il presente che il futuro, prossimo come anteriore, di tutta la Nazione? La verità, come accade spesso, è tanto semplice quanto amara: è meglio tacere questi argomenti, o parlarne velocemente, perché altrimenti bisognerebbe richiudere il Vaso di Pandora da cui sono usciti fuori tutti i problemi che ci stanno portando sempre più ad una vera e propria era glaciale demografica che sembra non avere fine e che sarà sempre più drammatica. Ogni anno spariscono dal nostro Paese intere comunità, e quelle che resistono invecchiano sempre di più. I legami si spezzano e tra poco non sarà strano trovare persone che vivranno senza avere accanto né familiari diretti né parenti più o meno prossimi.
Noi stiamo assistendo ai frutti di una cultura individualistica, nonché radicalmente pessimista e/o nichilista, ed il più lontana possibile da una concezione di identità e comunità aristotelicamente intesa: l’uomo non è più un animale politico, cioè sociale, ma bensì la concretizzazione del celebre assioma di Lucrezio ed Hobbes homo homini lupus. Ci troviamo dinanzi ad una vera e propria cultura della morte che, volenti o nolenti, ci condiziona in ogni nostro agire e di pensare. Non dobbiamo meravigliarci infatti se in Italia non si procrea più e se non ci si cura dell’aumento vertiginoso degli anziani se, infatti, fin da piccoli siamo portati a considerare come modelli da seguire delle persone che a 40 o 50 anni (se non ancora di più) ancora non hanno legami stabili e rifiutano categoricamente di sostenere una gravidanza preferendo invece ricorrere a scappatelle di ogni genere, purché ovviamente di breve durata, per poter soddisfare i propri bisogni affettivi e sessuali.
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Non ci si deve meravigliare se in Italia c’è l’inverno demografico quando consideriamo che i prodotti anticoncezionali (rivolti sia ad un pubblico femminile che maschile) siano a disposizione anche nei bagni pubblici delle stazioni e degli autogrill (cosa anche molto discutibile: se entro in un bagno pubblico, magari a pagamento, non penso che avrò da espletare funzioni sessuali). Non dobbiamo meravigliarci di quanto detto sopra perché esiste una legge, la celeberrima 194, che permette di uccidere il frutto del rapporto tra un uomo ed una donna: come si può parlare di tutela della vita se una Legge dello Stato ha depenalizzato ed esteso l’aborto anche a soggetti che preferiscono andare a fare la bella vita piuttosto che prendersi cura di una creatura appena nata? Come è possibile non capire la stretta connessione che esiste tra il tracollo del numero dei matrimoni cioè della formazione di una coppia stabile, nucleo fondamentale della comunità più ampia che è la Nazione? Come è possibile non vedere la correlazione tra l’aumento vertiginoso dei rapporti sessuali consumati occasionalmente e l’assenza di gravidanze tra i giovani? Come è possibile non considerare che le cosiddette precauzioni durante questo tipo di rapporti sono essenzialmente precauzioni di natura anti-concezionale? E come si possono spacciare per farmaci quelli che sono dei veri e propri veleni?
Se ci trovassimo in ambito fitosanitario o veterinario, ad esempio, i prodotti di sterilizzazione sarebbero vietati all’uso comune: nel caso umano, invece, vengono venduti liberamente, spesso anche senza ricetta di prescrizione. Di cosa dobbiamo meravigliarci se ormai la figura sociale, culturale e professionale delle escort e dei gigolò è ormai entrata nel linguaggio comune delle persone e viene riproposta a piè sospinto, e sempre senza alcun tipo di giudizio bensì in maniera sempre positiva e propositiva, nella gran parte delle produzioni televisive e cinematografiche italiane, in particolare prodotte o trasmesse dalla RAI? Come si può minimamente immaginare di crescere, e per tutta la vita, un frugoletto fin dal concepimento se (in particolare dall’approvazione della Legge sul Divorzio) si sostiene in tutti i modi che i legami più sono liquidi più saremo felici?
Come è possibile invogliare i giovani a procreare se esiste una legge (la famosa 40) che permette di ricorrere a qualsiasi tecnica pur di avere figli anche in un’età considerata generalmente e scientificamente non fertile? In che modo si può concepire un figlio, che sarà della coppia per tutta la loro vita, e non a tempo o solo quando se ne ricorderanno, se l’età media dei rapporti di matrimonio diminuisce di anno in anno per la gioia degli avvocati, dei sociologi, dei politici e degli psicologi che ci spiegano che il fatto di rompere la routine di coppia porta grandi benefici sia al corpo che allo spirito dei divorziandi? E come è possibile parlare di vita, e dunque di natalità, se lo Stato si sta impegnando in prima persona per la diffusione, autorizzata!, delle cosiddette droghe leggere? Ma se sono droghe, come possono essere leggere? Esiste per caso un omicidio leggero ed un omicidio pesante? O esiste semplicemente una gradualità nell’efferatezza o nella gravità del reato commesso?
Nei giorni scorsi, come ormai non accadeva da diverso tempo, si è tornato a parlare della condizione della vita umana, della sua fragilità e del rapporto tra la vita e la morte sia all’origine della vita sia alla sua fine: eutanasia, aborto, fecondazione in vitro, creazione di ibridi e concepimenti completamente artificiali. Tutto insieme, letteralmente. Non è stato un confronto facile né tanto meno pacifico. Si è parlato spesso più con la pancia che con la ragione. Sono stati fatti paragoni a momenti tristi della storia umana, e si è cercato anche di immaginare un futuro diverso da quello che si pensava di poter vivere fino a pochi(ssimi) anni fa.
Sono state messe in contrapposizione società e legge, fede e ragione, cultura elitaria e cultura popolare, partiti di destra e partiti di sinistra, medicina ed etica. Ci si è accapigliati, scontrati, anche presi a male parole per (siamo sinceri) non risolvere granché del grande mistero che abbiamo dinanzi. Perché di questo si tratta, ci piaccia o non ci piaccia: la vita (ed in particolare la vita umana) è un mistero. E come tale fino a pochi anni fa era vista, osservata, ammirata, studiata, venerata.
Ma ora non è così: si sono ribaltati completamente sia i giudizi che il metro di paragone per parlare e valutare questo mistero. Si ama e si desidera, per sé ma soprattutto per gli altri, ciò che era considerato impensabile mettendo insieme, anche lessicalmente, nozioni agli antipodi ed concettualmente stridenti come diritto e morte. E lo si fa nei bar, nelle piazze, nei circoli culturali, con gli amici, sulle riviste di moda, nei giornali, nei video di YouTube, finanche in Parlamento. E tutto come se fosse una cosa normale e senza conseguenze più o meno pesanti, più o meno evidenti. Ma su una cosa concordano tutti gli attori in scena: si tratta di un cambiamento epocale della società (e quindi della cultura e dei giudizi, senza contare il modo di intendere la propria identità, la propria storia, il modo di immaginare il proprio futuro) paragonabile ad una vera e propria rivoluzione. E questa rivoluzione coincide con il Vaso di Pandora cui accennavamo sopra.
Combattere la cultura della morte significa combattere in favore della cultura della vita, alzando lo stendardo dell’amore per propria Patria, per i propri concittadini, per le future generazioni come anche per le categorie più svantaggiate e deboli. Dobbiamo ammettere infatti che se la cultura della morte dilaga è anche perché non si è saputo proporre, ed anche difendere, efficacemente la cultura della vita.
Fare questo significa affermare verità scomode che nessuno vuole ascoltare: e per farsi sentire allora bisogna gridare. E la storia e l’esperienza ci insegnano che non c’è grido più efficace che quello elevato durante una marcia: la storia dei sindacati, dei partiti politici, dei gruppi religiosi, dei gruppi per i diritti civili etc è piena di manifestazioni di questo tipo che hanno spesso portato a grandi conquiste per tutta l’umanità.
C’è la possibilità di marciare per dire NO alla cultura della morte e SI alla cultura della vita: è la Marcia per la Vita che si svolgerà a Roma il 20 Maggio prossimo. La risposta alla negatività sarà la nostra personale risposta affermativa alla vita per mezzo del nostro grido a squarciagola.
Che aspetti? Vieni anche tu a marciare e gridare con noi il tuo personale SI ALLA VITA.
Di Francesco Del Giudice per campariedemaistre.com
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di Riccardo Cascioli
22-03-2017
C'è un’aria sempre più pesante nella Chiesa: chiunque osi soltanto mostrare qualche perplessità su alcuni interventi di papa Francesco o semplicemente ribadisca le verità di fede che la Chiesa ha sempre annunciato, finisce nel mirino dei nuovi giacobini. L’ultimo in ordine di tempo a fare le spese di questo clima è il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Gerhard Muller, che sarà questa sera a Trieste per un incontro nel quadro dell’iniziativa della cattedra di san Giusto.
Ebbene il suo arrivo è stato preceduto da una lettera di protesta del solito gruppetto catto-comunista, a cui ha fatto da sponda il quotidiano locale (laicista) Il Piccolo: “Raccolta firme contro l’arrivo del cardinale anti-Bergoglio”, titolava il giornale. Inutile ribadire che mai il cardinale Muller si è voluto porre contro il Papa, ma ormai basta affermare la centralità della dottrina nell’appartenenza alla Chiesa per scatenare la caccia alle streghe. E siccome non lo si può dire apertamente, si usa come pretesto la questione pedofilia: in questo caso Muller è diventato il capro espiatorio per le rumorose dimissioni di una vittima di abusi sessuali dalla commissione ad hoc istituita dal Papa (e ci sarebbe da riflettere sull’uso che si sta facendo di un dramma come la pedofilia per regolare i conti con vescovi non proprio in linea con l’attuale pontificato).
Il caso di Trieste comunque è grave, meriterebbe un intervento deciso da parte della Sala Stampa della Santa Sede, ma chissà perché ci sentiremmo di scommettere sul silenzio. Forse perché ultimamente assistiamo, ad esempio, a continue e impunite esternazioni imbarazzanti contro i cardinali che hanno firmato i Dubia, anche ad opera di persone ritenute vicine al Papa. È il caso presentato nei giorni scorsi dal vaticanista Sandro Magister, che ha pubblicato alcuni stralci degli interventi del vescovo Bruno Forte e dello storico della Chiesa Alberto Melloni lo scorso 9 marzo a Roma, in occasione di una conferenza. Se Forte ha indicato i seminatori di dubbi quale causa di «insicurezze e divisioni tra i cattolici e non solo», Melloni l’ha buttata sulla derisione definendo i cardinali «quattro ciliegie che si credono la metà del ciliegio».
Il 25 febbraio c’era stato invece un attacco pesante di don Vinicio Albanesi, fondatore della comunità di Capodarco, che ricevuto in udienza con la sua comunità, aveva invitato il Papa a lasciare perdere «quanti cincischiano con i dubia. Sono un po’ farisei e nemmeno scribi, perché non capiscono la misericordia con cui lei suggerisce le cose. Lei abbia pazienza. È una fatica, ma noi siamo con lei e la sosterremo sempre». Incredibile che si possa parlare così pubblicamente di cardinali davanti al Papa, ma c’è da dire che da parte del Pontefice non c’è stata alcuna reazione.
Un silenzio che può essere interpretato in modi diversi, ma certamente c’è chi lo capisce come un segnale che certi insulti si possano rivolgere tranquillamente. E si comporta di conseguenza. Del resto, duole dirlo, lo stesso papa Francesco nella recente intervista al giornale tedesco Die Zeit, ha espresso parole ben poco lusinghiere nei confronti del cardinale Raymond Burke. Il tema era la vicenda dell’Ordine di Malta, ma l’accusa di incapacità rivolta a quello che resta nominalmente il cardinale patrono dei cavalieri di Malta, è senza precedenti.
Ai Dubia dunque non arrivano risposte, in compenso arrivano insulti a chi li ha formulati. E soprattutto accuse di disobbedienza, di ostilità nei confronti del Papa, di seminatori di zizzania e via di questo passo. Ma per capire questi attacchi vale la pena ricordare chi sono i nuovi inquisitori. Abbiamo citato Alberto Melloni, persona che si picca di essere molto vicino a papa Francesco, e sicuramente tra i più insistenti nell’insulto ai cardinali dei Dubia.
Nell’incontro pubblico di cui all’inizio dell’articolo, Melloni dopo aver definito come «improprio lo strumento stesso delle domande fatte al Papa», afferma che vescovi e cardinali non hanno il diritto di trattare il Papa da imputato. Ora, a parte che i Dubia sono uno strumento previsto e molte volte usato per chiarire il senso di alcuni documenti e non solo; e a parte che nessuno ha trattato il Papa da imputato, bisogna ricordare che il Melloni oggi “papista” è lo stesso Melloni firmatario di un documento di aperta contestazione a san Giovanni Paolo II.
Correva l’anno 1989, Giovanni Paolo II era papa da 11 anni, e teologi e intellettuali di sinistra non potevano sopportare un’interpretazione del Concilio Vaticano II che non andasse nel senso di una rottura con la Chiesa precedente e della fondazione di una nuova Chiesa. Meno che mai potevano sopportare che il Papa nominasse dei vescovi non in linea con la rivoluzione in corso. Così dopo un durissimo testo del teologo moralista Bernard Haring (sarà un caso che ora sta tornando di moda?) che contestava il Papa in materia di morale sessuale, nel gennaio 1989 esce la Dichiarazione di Colonia, un attacco frontale al Papa firmato da 162 teologi di lingua tedesca. Iniziativa che viene poi replicata in Olanda, Spagna, Francia, Belgio e altri paesi.
E in maggio è seguita dalla Lettera ai cristiani di 63 teologi italiani, che non riconoscendosi nel Magistero di Giovanni Paolo II decidono di farsi loro stessi magistero rivolgendosi direttamente al popolo di Dio. Non solo Melloni è tra i firmatari: ovviamente ci sono i suoi soci della “Scuola di Bologna”, il fondatore Giuseppe Alberigo in testa; c’è il priore della Comunità di Bose Enzo Bianchi, c’è l’attuale vice-presidente della Conferenza episcopale italiana e vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla; ci sono i nomi più noti della teologia italiana, i cui testi tuttora fanno scuola nei seminari e nelle università pontificie. E molti di loro sono fra gli attuali “papisti”, censori e fustigatori di quanti ricordano che non esiste la Chiesa di Francesco ma esiste la Chiesa di Cristo.
Ma basta dare un’occhiata alle rivendicazioni di allora per capire cosa sta accadendo oggi: la richiesta di una “svolta pastorale”, libertà dei teologi dal Magistero, nomine dei vescovi fatte dal basso (ovviamente solo se progressiste), lo “spirito del Concilio” contro “la lettera del Concilio”, autonomia delle Chiese locali da Roma.
Allora c’era Giovanni Paolo II; adesso che c’è papa Francesco bandiera della “svolta pastorale”, invece gli stessi personaggi invocano il centralismo romano, nomine dei vescovi dall’alto in barba a tutte le procedure tradizionali, obbligo di una sola linea teologica, punizione severa per chiunque intendesse obiettare.
È l’evidenza che le posizioni di certi “papisti”, turiferari e guardiani della rivoluzione, non hanno niente a che vedere con l’amore per la Chiesa e per l’unità intorno al Papa: è solo un’operazione ideologica per fare avanzare un’agenda che rompe con la tradizione, al fine di affermare una “nuova Chiesa del popolo”. E si sa, quando il popolo lo vuole, non c’è spazio per Dubia.
[www.lanuovabq.it]
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La legge in discussione sul fine vita non è accettabile Dichiarazione dell’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi, Presidente dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân
05-04-2017 - di S. E. Mons. Giampaolo Crepaldi
Il nostro Osservatorio segue l’evoluzione del disegno di legge cosiddetto sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT) e, quindi, sul “fine vita”.
Nella sua prolusione del 20 marzo scorso, il Cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei Vescovi italiani, ha avuto parole chiare sul problema etico dell’eutanasia in generale e sulla legge in discussione in particolare: «La legge sul fine vita, di cui è in atto l’iter parlamentare, è lontana da un’impostazione personalistica; è, piuttosto, radicalmente individualistica, adatta a un individuo che si interpreta a prescindere dalle relazioni, padrone assoluto di una vita che non si è dato. In realtà, la vita è un bene originario: se non fosse indisponibile tutti saremmo esposti all’arbitrio di chi volesse farsene padrone. Questa visione antropologica, oltre ad essere corrispondente all’esperienza, ha ispirato leggi, costituzioni e carte internazionali, ha reso le società più vivibili, giuste e solidali. È acquisito che l’accanimento terapeutico – di cui non si parla nel testo – è una situazione precisa da escludere, ma è evidente che la categoria di “terapie proporzionate o sproporzionate” si presta alla più ampia discrezionalità soggettiva, distinguendo tra intervento terapeutico e sostegno alle funzioni vitali. Si rimane sconcertati anche vedendo il medico ridotto a un funzionario notarile, che prende atto ed esegue, prescindendo dal suo giudizio in scienza e coscienza; così pure, sul versante del paziente, suscita forti perplessità il valore praticamente definitivo delle dichiarazioni, senza tener conto delle età della vita, della situazione, del momento di chi le redige: l’esperienza insegna che questi sono elementi che incidono non poco sul giudizio. La morte non deve essere dilazionata tramite l’accanimento, ma neppure anticipata con l’eutanasia: il malato deve essere accompagnato con le cure, la costante vicinanza e l’amore. Ne è parte integrante la qualità delle relazioni tra paziente, medico e familiari».
Dal punto di vista strettamente giuridico, merita grande attenzione la Dichiarazione del Centro Studi Rosario Livatino, firmata da 250 giuristi, che ha denunciato, con precisione incontestabile, che il testo di legge è a contenuto eutanasico.
La legge in discussione in Parlamento trasforma le “Dichiarazioni” anticipate di trattamento in “Disposizioni” cui il medico non potrà sottrarsi; non tiene conto che nelle diverse situazioni di vita il giudizio che il paziente dà del suo stato di salute cambia, né considera che spesso i pazienti si dimenticano, nel tempo, di ritirare o variare le dichiarazioni da loro fatte molto tempo prima. Il testo di legge pone dei vincoli alla somministrazione attiva di farmaci, ma non ne pone alla sospensione dei trattamenti, prevede che il tutore possa decidere a suo talento nei confronti della persona interdetta e, nel caso in cui anche il medico sia d’accordo, niente può trattenere anche la sospensione di alimentazione e idratazione. Infine non prevede l’obiezione di coscienza per il medico.
Davanti a questa oggettiva visione delle cose è da considerarsi fuori luogo una diversità di vedute su questo grave argomento all’interno delle associazione cattoliche che più da vicino si occupano di queste problematiche etiche e giuridiche.
La Chiesa si è sempre attenuta ai principi della legge morale naturale e degli insegnamenti del Signore e, su queste tematiche decisive per una società che voglia dirsi umana, ha espresso un insegnamento coerente e preciso. Ad esso bisogna attenersi anche nel momento attuale e in occasione delle nuove sfide legislative.
Si tratta di evitare, in particolare, che entrino nel pensare cattolico i principi individualistici dell’autodeterminazione assoluta, in modo che la verità della persona umana e il suo autentico bene possano guidare anche in futuro l’agire nei confronti dei sofferenti, degli anziani, dei disabili e delle persone giunte al termine della loro vita terrena.
da:
[www.vanthuanobservatory.org]
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Solo la penitenza evita il castigo
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D'AGOSTINO SU AVVENIRE DIFENDE LA LEGGE SULLE DAT FACENDO FINTA CHE NON SIA EUTANASIA
Così, grazie anche alle ''rassicurazioni'' del quotidiano della Cei, sarà legittimo per legge uccidere persone come Eluana Englaro
di Marco Ferraresi
Con uno sconcertante editoriale del professor Francesco D'Agostino, il quotidiano Avvenire - e quindi la Cei - si schiera decisamente a favore dell'attuale proposta di legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) in discussione alla Camera (per quanto migliorabile), e critica pesantemente quanti si oppongono alla legge e la considerano il primo passo verso la legalizzazione dell'eutanasia. D'Agostino - che scrive in qualità di presidente dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani (Ugci), organismo sotto la diretta tutela del segretario della CEI, monsignor Nunzio Galantino - sostiene la necessità di una buona legge sul fine vita e quella attualmente in dicussione per lui evidentemente lo è, seppure sia da emendare in alcuni punti. Si tratta di una posizione che non solo non è condivisa dalla maggioranza dei medici, ma neanche da quella dei giuristi cattolici. E infatti l'uscita di D'Agostino ha provocato l'immediata presa di distanza da parte di Marco Ferraresi, membro del Comitato centrale dell'Ugci, che nella lettera aperta che qui pubblichiamo contesta a D'Agostino le sue affermazioni.
CARO D'AGOSTINO, SULLE DAT NON MI RAPPRESENTI
In un articolo pubblicato su Avvenire il 30 marzo, il Presidente dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani, Francesco D'Agostino, ritiene che la proposta di legge sul fine vita "non è in alcun modo finalizzata a introdurre in Italia una normativa che legalizzi l'eutanasia". Chi ritiene il contrario leggerebbe il testo "in modo forzato", analogamente a quanto farebbe un interprete "subdolo e malevolo".
Quale membro del Consiglio centrale dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani mi dissocio dalle considerazioni del Presidente, che dimostra a mio avviso di non aver compreso il testo della proposta di legge. Esso introdurrebbe, eccome, l'eutanasia nel nostro ordinamento. Lo argomenta bene l'appello del Centro Studi Livatino firmato da oltre 250 giuristi. Tra i profili critici delle riflessioni di D'Agostino, ne sottolineo tre.
In primo luogo, la proposta di legge snatura la professione medica, conferendo al paziente un potere sulle determinazioni del medico: il testo della proposta infatti prevede il diritto del paziente di dettare "disposizioni" di trattamento, che il professionista sarebbe obbligato ad eseguire.
In secondo luogo, il testo in discussione alla Camera prevede sì alcuni limiti alla volontà del paziente (la non contrarietà a norme legali, alla deontologia e alle buone prassi clinico-assistenziali). Ma questi limiti - a parte la loro genericità e dunque manipolabilità in sede giudiziale - sono contemplati unicamente per la richiesta positiva di applicazione di trattamenti sanitari. Al contrario, i limiti non operano con riguardo, in negativo, al "diritto" del paziente di rifiutare o interrompere le terapie e finanche l'idratazione e l'alimentazione artificiali (si v. gli artt. 1, comma 7, e 3, comma 4), queste ultime considerate tout court delle terapie. Con la conseguenza che il medico potrebbe essere costretto dal paziente ad atti eutanasici anche commissivi (per es. togliere una flebo contenente un antibiotico di rilievo vitale).
In terzo luogo, l'articolo di D'Agostino tace su altri profili gravi del testo in discussione, come l'eutanasia di minori e incapaci, decidibile dai genitori e tutori, a meno che un medico non si opponga e il giudice dia ragione al medico (cfr. art. 2).
Che proprio il Presidente dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani si esprima in questo modo su punti così delicati, che ineriscono al diritto alla vita e al comandamento di non uccidere, non può che suscitare dolore e sconcerto.
Nota di BastaBugie: sono passati solo nove mesi dall'approvazione della Legge Cirinnà e, in barba a tutti i "paletti", la totale equiparazione tra Unioni Civili e Matrimonio è già avvenuta. Lo dimostrano le sentenze degli ultimi giorni: utero in affitto e adozione tout court per le coppie gay. C'è da stupirsi? Niente affatto. E' accaduto esattamente lo stesso per aborto, divorzio e fecondazione assistita. La morale è semplice: sui principi non negoziabili non si può accettare alcun compromesso politico. Eppure la Cei e i parlamentari cattolici non vogliono capirlo e sul "fine vita" stanno ripetendo lo stesso errore.
Tutto questo lo spiega bene Riccardo Cascioli nel seguente video della durata di tre minuti e mezzo:
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ORA PER AVVENIRE VA BENE LA MORTE DI ELUANA ENGLARO
Giacomo Rocchi, Consigliere della Corte di Cassazione, nell'articolo sottostante dal titolo "Ora per Avvenire va bene la morte di Eluana Englaro" spiega come la proposta di legge sulle Dat, se approvata, renderebbe assolutamente legittima la morte di un paziente come Eluana Englaro. Basta leggere gli articoli della proposta e paragonarli a quanto successo allora. Eppure secondo il professor D'Agostino questa non è eutanasia. Così si mente ai lettori di Avvenire.
Ecco dunque l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 1° aprile 2017:
L'articolo del professor Francesco D'Agostino apparso su Avvenire del 30 marzo e già commentato dalla Bussola ieri, contiene un passaggio "pesante": «Il disegno di legge non è in alcun modo finalizzato a introdurre in Italia una normativa che legalizzi l'eutanasia. Questo è ciò che invece sostengono alcuni tra i suoi avversari, ma per farlo devono interpretarlo in modo forzato. Onestà vuole che una legge vada valutata per ciò che dice e non per ciò che potrebbe farle dire un interprete subdolo o malevolo».
Visto che il mio lavoro è di interpretare ed applicare le leggi (non di fare il filosofo), propongo al prof. D'Agostino (e ai nostri lettori) una "prova sul campo" del progetto di legge in discussione: vediamo come funzionerebbe.
Prima, però, faccio una domanda: cosa è avvenuto con l'uccisione di Eluana Englaro? Rispondo: una disabile in stato di incoscienza, dopo essere stata interdetta, è stata fatta morire interrompendo nutrizione e idratazione per decisione del padre/tutore cui hanno dato attuazione medici e paramedici. La disabile non era malata né, tanto meno, prossima alla morte. Io questa la definisco eutanasia: l'uccisione di una disabile decisa da chi riteneva che ella fosse «morta il giorno dell'incidente stradale», resa possibile da un ordine dei giudici e da sanitari che eseguivano la decisione del tutore. Non so come la definisca il prof. D'Agostino.
E allora, vediamo cosa dice l'articolo 2 del progetto di legge: «Il consenso informato della persona interdetta ai sensi dell'articolo 414 del codice civile è espresso o rifiutato dal tutore, sentito l'interdetto ove possibile, avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita della persona».
Quindi abbiamo un tutore (come era Beppino Englaro) che può rifiutare le terapie erogate all'interdetta (come era Eluana Englaro). Può rifiutare anche la prosecuzione di nutrizione e idratazione? Certamente sì: lo dice l'art. 1, menzionando «il diritto di revocare in qualsiasi momento (...) il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l'interruzione del trattamento, incluse la nutrizione e l'idratazione artificiali».
E i medici, di fronte a questo rifiuto di proseguire nella nutrizione e idratazione, cosa faranno? Il principio generale è che «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente (e quindi del tutore) di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo»; tuttavia, nel caso degli incapaci, se il tutore «rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria».
Come funziona questa norma? È semplice: il medico non è obbligato a ricorrere al giudice tutelare se è d'accordo con la decisione del tutore e, quindi, può semplicemente interrompere la nutrizione e idratazione all'incapace, cioè ucciderlo.
Per uccidere Eluana Englaro furono necessari la volontà del tutore di farla morire, diverse pronunce della magistratura (l'ultima quella della Corte d'appello di Milano che diede il via libera finale) e un gruppo di medici e paramedici che concordavano con la decisione di Beppino Englaro e la eseguirono.
Con questa legge, per ottenere lo stesso risultato nei confronti di altri disabili, non sarà necessaria una sentenza dei giudici: basterà un tutore (o il genitore di un minore o di un neonato) e un medico che è d'accordo con lui e che non farà alcuna opposizione; un medico che il tutore potrà scegliere (la scelta del medico curante, come è noto, è libera).
Ci saranno almeno conseguenze penali, verrebbe da dire. La legge, premurosamente, garantisce ai medici che eseguiranno la volontà dei tutori l'esenzione «da responsabilità civile o penale»; esattamente come è avvenuto per la morte procurata di Eluana Englaro.
Il prof. D'Agostino può smentire questa interpretazione? A me non pare «subdola o malevola» e nemmeno forzata: è una piana applicazione del testo di legge.
Ci sarebbero molte altre cose da dire su quell'articolo e soprattutto sulla proposta di legge in discussione: l'appello promosso dal Centro Studi Livatino espone chiaramente i motivi per cui si tratta di un disegno che ha un contenuto nella sostanza eutanasico.
Vorrei soltanto sottolineare un aspetto, che il prof. D'Agostino finge di non comprendere: egli ritiene che la legge in discussione riguardi davvero soltanto i problemi di terapia, i malati gravi e, magari, morenti; quasi che si stia approvando una "normativa di settore", che riguarda poche situazione-limite.
Al contrario, l'eutanasia che si vuole legalizzare (ovviamente senza dirlo) è quella dei disabili, degli anziani (soprattutto se poveri o in stato di demenza), dei neonati "imperfetti" che, forse, "non vale la pena" rianimare per non farli gravare sulla famiglia e sulla società.
In definitiva, il Parlamento ha in mente ciascuno di noi: cosicché, se non saremo stati così sciocchi da firmare una disposizione anticipata di trattamento - il nulla osta ad una rapida liberazione di un posto letto in ospedale o nella casa di riposo ... - rischieremo ugualmente di doverci difendere da tentativi di farci morire in anticipo, con il timbro dello Stato.
«La storia ci impone di avere coraggio», conclude il prof. D'Agostino. È vero: occorre il coraggio della verità integrale (e forse anche il coraggio di dimettersi quando è il momento).
Titolo originale: Parola d'ordine: fare finta che non sia eutanasia
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 31/03/2017
Pubblicato su BastaBugie n. 500
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L’erosione dell’ordinamento sacramentale cattolico in Germania
Commento al comunicato stampa
della Conferenza Episcopale Tedesca del 1 febbraio 2017
di Christian Spaemann
E così ci si è arrivati. I vescovi tedeschi hanno fatto qualcosa di cui non avevano assolutamente la potestà: hanno indebolito l’ordinamento sacramentale della Chiesa cattolica. I fedeli in situazioni irregolari, vale a dire in relazioni sessuali stabili al di fuori di un matrimonio sacramentale, avranno la possibilità di ricevere i sacramenti. Quel che qui conta è «rispettare … la loro decisione di ricevere i sacramenti». I sacerdoti che si attengono alla prassi sinora in vigore, secondo il documento dei vescovi, dovranno far cadere la tendenza a un «giudizio sbrigativo» e a un «atteggiamento rigoristico ed estremo». I vescovi hanno fatto propria la logica di un falso concetto di misericordia, con conseguente caricatura di coloro che seguono il magistero della Chiesa cattolica e la sua intrinseca ragionevolezza.
Nel loro documento i vescovi tedeschi violano delle norme chiare, che numerosi papi, in particolare Giovanni Paolo II, e il Catechismo della Chiesa Cattolica hanno stabilito in maniera inequivocabile in linea con tutta la tradizione magisteriale della Chiesa. Il richiamo dei vescovi all’esortazione postsinodale “Amoris Laetitia” di papa Francesco, non giustifica questo modo di procedere, dal momento che essa deve essere interpretata alla luce della tradizione. Diversamente, non le si dovrebbe prestare la propria sequela, dal momento che il Papa non sta al di sopra della tradizione magisteriale della Chiesa.
Nella sostanza, il punto è che, secondo l’insegnamento della Chiesa, vi sono norme che valgono senza eccezioni e non sono soggette a valutazioni particolari, che possano, cioè, essere decise caso per caso in maniera diversa. Ciò rientra nella natura stessa della persona umana, cui compete una dignità che impone determinati limiti nell’approccio con se stessi e con gli altri. Rientra qui la sessualità umana, che non può essere strumentalizzata o vissuta al di fuori di certi contesti, senza ferire la propria dignità o risultare colpevole, indipendentemente da come debbano essere valutate le circostanze soggettive e, quindi, la colpa personale. Se qualcuno, per esempio, ha un disturbo cerebrale organico, a causa del quale non può governare i suoi affetti e in conseguenza del quale continua a insultare sua moglie, egli, malgrado questo fatto, finisce lo stesso per macchiare la sua relazione con lei e continuerà a provare dispiacere per come la tratta, anche se non può farci nulla o quasi nulla.
La sessualità umana può essere intesa solo a partire dal suo significato. Secondo la concezione cristiana, essa è espressione della comunione tra uomo e donna, su un piano biologico, corporeo, spirituale e personale, «un simbolo reale della donazione di tutta la persona» (Giovanni Paolo II, esortazione postsinodale “Familiaris Consortio” (FC 80).
Della persona nella sua integralità fanno parte il passato e il futuro e, pertanto, la donazione di tutta la persona è possibile solo nel pieno coinvolgimento del suo passato e del suo futuro, così come si esprime nel Sì del matrimonio.
Per questa ragione la Chiesa colloca da sempre la sessualità della persona umana nel contesto del matrimonio, come l’unico luogo, dove essa può essere vissuta in corrispondenza con la dignità che Dio ha voluto per essa. Si tratta di un comandamento e non di un ideale, come, invece, si continua a chiamarlo.
Ogni esercizio della sessualità che non corrisponda a questo comandamento costituisce, oggettivamente, una separazione della persona interessata dalla sua vocazione, vale a dire, un peccato.
Su questo non ci sono eccezioni.
Allo stesso modo, i metodi artificiali, che hanno come scopo impedire il concepimento, violano sempre la dignità dell’atto sessuale, perché i partner, in qualche modo, finiscono per considerarsi reciprocamente come oggetto, anche qualora si fosse in presenza di circostanze difficili e i partner fossero sicuri di avere delle buone intenzioni l’uno verso l’altro. Il linguaggio del corpo costituisce, infatti, una realtà oggettiva, che non si può travalicare mediante un atteggiamento soggettivo.
Si è qui di fronte al cosiddetto “actus intrinsece malus”. Con questa espressione si intendono atti o contesti di atti che, in nessun caso, possono essere definiti come buoni. Tommaso d’Aquino ha elaborato questo concetto e Giovanni Paolo II lo ha fissato come magistero vincolante della Chiesa nella sua enciclica “Veritatis Splendor” (VS 79). In base ad esso «le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto “soggettivamente” onesto o difendibile come scelta» (VS 81). Questo principio vale in maniera specifica per la sessualità umana.
Un punto decisivo nell’attuale confusione riguardo al magistero ecclesiale in questo ambito sta nella lettura riduttiva delle affermazioni di Giovanni Paolo II nella sua enciclica “Familiaris Consortio” (FC 84). Essa è emersa anzitutto nella Relatio del gruppo sinodale di lingua tedesca, del 21 ottobre 2015, e, successivamente, ha trovato accesso nel documento conclusivo del sinodo. Essa è stata ripetuta in numerose presi di posizione di vescovi e cardinali e ha trovato espressione in AL, ripresentandosi oggi nell’ultimo comunicato stampa della Conferenza Episcopale Tedesca.
Che cosa è accaduto? Nell’articolo 84 FC, trattando dei divorziati risposati, si afferma che si devono «ben distinguere le diverse situazioni». In questo passo si citano alcune motivazioni, umanamente comprensibili, per cui delle persone sposate, dopo una separazione, avviano una nuova unione. È chiaro che all’allora pontefice premeva richiamare il lato soggettivo delle situazioni coinvolte e una valutazione della responsabilità morale che doveva essere applicata in maniera differenziata ai singoli casi, in maniera tale da sensibilizzare il clero a una pastorale attenta e discreta.
Proprio qui, però, c’è il punto decisivo: Giovanni Paolo II non ne deduce affatto che nei singoli casi di colpa soggettiva diminuita o superata sia possibile l’accesso ai sacramenti. Al contrario, poche righe più sotto introduce con un chiaro “Nihilominus …” il limite della situazione oggettiva di disordine che vale per tutti coloro che vivono in una tale situazione: «La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Viene, poi, una precisazione decisiva: i divorziati risposati sono da ammettere ai sacramenti solo se «assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi».
Il linguaggio del corpo nella sessualità non può, dunque, essere travalicato semplicemente mediante delle circostanze attenuanti né una situazione oggettiva di peccato può essere legittimata mediante l’amministrazione dei sacramenti. Una differenziazione per casi singoli non è qui possibile. Questo insegnamento e l’ordinamento sacramentale che ne risulta, in accordo con tutta la tradizione magisteriale della Chiesa, è stato espressamente confermato nei successivi documenti del magistero, tra l’altro nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC 1650) e nell’esortazione postsinodale di Benedetto XVI “Sacramentum Caritatis” (29).
Questo passaggio decisivo di FC è stato, invece, sistematicamente tralasciato nei documenti più recenti. Si tratta di un tentativo, chiaramente non trasparente, di armonizzare dei testi contradditori. Invece di prendere posizione rispetto alla netta delimitazione del “Nihilominus”, nei testi pubblicati su questo tema si mantiene la prospettiva soggettiva della situazione irregolare. Si raccomanda, così, un approfondito esame di coscienza, con il quale la persona coinvolta, nel cosiddetto “forum internum”, l’ambito della coscienza individuale, dovrebbe riflettere sul passato e sul presente delle proprie relazioni (tra gli altri AL 300). In tal modo si desta l’impressione che la volontà di far luce e rielaborare le conseguenze morali e psicologiche di un divorzio e di un nuovo matrimonio civile, come, per esempio, il chiarimento delle responsabilità nei confronti del partner precedente o della relazione con i figli nati dal primo matrimonio, possa essere presupposto sufficiente per l’ammissione ai sacramenti.
Secondo l’insegnamento della Chiesa, invece, in casi simili tali premesse sussistono solo quando siano rispettati i criteri oggettivi dell’ordinamento cristiano della vita, vale a dire o l’astinenza sessuale o la non validità del matrimonio sacramentale, magari dimostrabile solo nel foro interno. Proprio qui sta la linea di rottura con l’insegnamento della Chiesa, che, esattamente in questo punto non viene affatto portato al suo sviluppo o approfondita, come continuamente si sostiene.
La logica interna di una pastorale della misericordia, unicamente orientata alla soggettività dei fedeli, porta di per sé molto oltre la questione dei divorziati risposati civilmente. Nei corrispondenti documenti, come, per esempio, nella Dichiarazione dei vescovi tedeschi, si continua, difatti, a parlare di «situazioni irregolari». Coloro che «non sanno ancora decidersi per il matrimonio» vengono, a loro volta, citati in questo contesto. Appare allora del tutto conseguente che anche la LGTB-Community voglia prendere la parola nella Chiesa e pretenda che sia allentata la disciplina per ciò che la compete
[https:] vgl. hierzu auch
[www.kath.net] Perché, del resto, dovrebbero essere esclusi? Ovviamente questo tipo di sviluppo non si ferma nemmeno davanti all’enciclica “Humanae Vitae” di Paolo VI, che viene messa in dubbio nella sua non equivocabilità (Instrumentum laboris 2016, Art. 137; cfr., qui, anche
[www.kath.net]
Le conseguenze del nuovo concetto di misericordia non possono essere limitate al solo ambito delle relazioni di coppia e della sessualità. Così, proprio richiamandosi ad AL, una parte dell’episcopato canadese, ha stabilito di concedere l’accompagnamento dei sacramenti della Chiesa in prossimità della morte a delle persone che intendono avvalersi del suicidio assistito o dell’eutanasia
[https:]
Ci troviamo solo all’inizio di quanto può svilupparsi da questa concezione della misericordia. Lungo una simile china scivolosa si può con certezza prevedere che cosa sta per arrivare: si deve solo seguire la logica. Quel che qui accade è fatale anche perché nei relativi documenti ecclesiali non viene più cercato alcun collegamento ragionevole con la tradizione ecclesiale. Si mette così in questione l’intima unità di fede e ragione. In molti fedeli si fa strada quindi l’impressione di una sorta di possibilità di costruire a piacimento in quel che riguarda la fede, la morale e la pastorale e tutto questo spinge l’avanzata del relativismo.
All’idea che si va diffondendo che il cristianesimo cattolico possa elaborare il proprio insegnamento facendo a meno del diritto naturale, dell’antropologia e della coerenza interna dei propri contenuti, sembra ispirarsi il breve tweet del gesuita italiano Antonio Spadaro: «La teologia non è matematica. 2 + 2 in teologia può far 5 … » (Epifania 2017).
La domanda che ora si pone è se i sacerdoti che si attengono all’ordinamento sacramentale della Chiesa sinora tramandato, possano essere definiti come rigoristi, estremisti e privi di misericordia. Questi verdetti colpiscono anche san Giovanni Paolo II e, con lui innumerevoli sacerdoti in tutto il mondo? Ovviamente, no. Chiarire che esistono dei limiti non è di per sé assenza di misericordia.
Rigorista sarebbe un sacerdote che, per esempio, sottoporre a pressioni, senza considerazione per il contesto e per le conseguenze, una donna risposata, con tre figli, e pretendere che sin da subito si rifiuti al marito, minacciandole l’inferno.
Rigorista sarebbe anche un sacerdote che si rifiutasse di accompagnare pastoralmente, in maniera generica, una persona che ha deciso di chiedere l’eutanasia. Ben difficilmente si possono negare l’accompagnamento, la benedizione e la preghiera.
Invece, spiegare alla persona interessata perché non può ricevere l’assoluzione sacramentale nella Confessione o la Comunione non ha nulla a che fare con il rigorismo. Conosco sacerdoti che hanno ottimi contatti con delle persone in situazioni irregolari, che le trattano con rispetto, le integrano nella loro parrocchia, senza amministrare loro i sacramenti.
Dei concetti sociologici oggi così frequentemente usati nella Chiesa, come “inclusione” o “nessuno deve essere rifiutato”, soggiacciono spesso a un equivoco di fondo. Se un paziente cerca il mio aiuto come medico, neppure il più radicale sostenitore della psichiatria sociale pretenderebbe da me che io accettassi da prescrivere a quel paziente il farmaco che lui a tutti i costi vuole avere. È da sempre un fatto ovvio e parte della liturgia, sia in Oriente che in Occidente, che i fedeli confessino i loro peccati in forma generale, prima di unirsi al Signore nella Comunione. Prendiamo le distanze dai nostri peccati, ci rivolgiamo al Signore e riceviamo nella Comunione il suo perdono. Nel caso dei peccati gravi il sacramento della Confessione deve precedere la Comunione. È quindi altrettanto ovvio che le persone, che vivono in relazioni sessuali obiettivamente disordinate, non partecipino alla Comunione, qualora, per qualunque ragione si tratti, non si sentano in condizione di rinunciarvi.
È fuori discussione che esistano numerose situazioni di vita, in cui delle relazioni sessuali vengano vissute al di fuori di un matrimonio valido. A questo proposito c’è, però, una differenza fondamentale se si conserva il timore reverenziale davanti alla santità di Dio e ai suoi comandamenti mediante l’astinenza eucaristica, sperando nella Sua misericordia, o se ci si arroga il giudizio su se stessi, senza cambiare la situazione di vita che contraddice i comandamenti, pretendendo di discolparsi, mediante la confessione di altri peccati e l’unione con Cristo nella Comunione. La constatazione delle «circostanze attenuanti», vale a dire il giudizio soggettivo di chi amministra e di chi riceve il sacramento, non può passare sopra la situazione oggettiva.
La Chiesa su questo punto non ha affatto la piena potestà. La grazia di Dio non è legata ai sacramenti, ma solo a Lui compete in questi casi il giudizio, e noi non lo conosciamo. «La Tua parola è luce ai miei passi», si legge nel salmo (119, 105). Proprio nei casi in cui alla stessa persona interessata, a chi le sta intorno e a chi l’ha in cura d’anima appare particolarmente difficile vederla come peccato, si dovrebbe tener presente che noi non conosciamo la volontà assoluta di Dio e, quindi, non possiamo superare i limiti del cono di luce che ci è concesso. Qui si richiede l’umiltà, non l’amministrazione dei sacramenti. La misericordia di Dio non può essere imposta per decreti.
L’affermazione dei vescovi tedeschi che nel discernimento riguardo all’amministrazione del sacramento in situazioni irregolari «la coscienza di tutte le persone coinvolte sia da prendere nella massima considerazione», il fatto che i sostenitori del nuovo concetto di misericordia parlino di «situazioni complesse» e la tesi secondo cui non ci sarebbero «soluzioni semplici», appaiono come argomenti mendaci che rendono opachi dei dati di fatto di per sé semplici.
Perché dovrebbe essere difficile per le persone coinvolte stabilire se vivono in castità o no? Anche chiarire se il matrimonio contratto sacramentalmente sia stato invalido o no è qualcosa che senza particolari strapazzi per la coscienza può essere chiarito con l’aiuto di un esperto canonista. In una delle sue ultime interviste l’anziano e saggio Konrad Adenauer, richiesto circa la sua propensione a semplificare, disse che si devono vedere le cose così profondamente da renderle semplici. Se si rimane solo alla superficie delle cose, esse non sono semplici, ma se si guarda in profondità, allora si vede quel che è reale, e questo – spiegava – è sempre semplice.
Coloro che vogliono allentare l’ordinamento sacramentale cattolico, se si guardano le cose in questo modo, non possono certo richiamarsi alla misericordia divina. In tal caso non si finisce certo per fare il bene delle persone coinvolte. È scandaloso vedere come a questo scopo essi si richiamino al diario della santa suora Faustyna Kowalska. Giovanni Paolo II fu colui che ne riconobbe l’importanza e che canonizzò questa semplice religiosa. Io stesso, qualche anno fa, studiai a fondo questo libro e non vi trovai nemmeno una traccia di incoraggiamento a pretendere di andare oltre i limiti rispetto alla misericordia di Dio fonte di timore e tremore. Al contrario, spirito e lettera di questo scritto si muovono in tutt’altra direzione.
Tutti i fedeli che vivono in relazioni sessuali irregolari, soprattutto coloro che si trovano dalla parte delle vittime, che sono stati feriti, abbandonati, forse persino abusati, e che si sono già sforzati di vivere in castità, in breve, tutti coloro che meritano in maniera particolare la comprensione della Chiesa, sono esortati a non fare uso delle nuove possibilità di ricevere il Sacramento. Essi, mediante l’astinenza eucaristica, possono a loro modo rendere testimonianza alla santità di Dio e dei suoi comandamenti. In tal modo, essi potrebbero anche stare più vicini a Dio di alcuni di coloro che, in nome di una falsa idea di misericordia, vogliono amministrare i sacramenti.
(Traduzione dal tedesco di Giuseppe Reguzzoni
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Non è lecito fare la Comunione se si è in peccato mortale.
Non sono leciti i rapporti sessuali fuori dal matrimonio.
Non è lecito divorziare e "ri-sposarsi".
BEATIFICAZIONE DI LAURA VICUÑA
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
Colle Don Bosco (Torino) - Sabato, 3 settembre 1988
1. “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli” (Lc 10, 21).
A queste parole del Signore Gesù, l’evangelista aggiunge: “Esultò nello Spirito Santo” (Lc 10, 21).
Desideriamo accogliere nei nostri cuori un raggio di questa esultanza, perché ci troviamo insieme in occasione del centenario della morte di san Giovanni Bosco, al quale si possono riferire in modo particolare tali parole del nostro maestro e salvatore.
Similmente si riferisce a lui anche tutto ciò che leggiamo nell’odierna liturgia, seguendo la prima lettera di san Giovanni: “Ho scritto a voi, figlioli, perché avete conosciuto il Padre . . . colui che è fin dal principio . . . a voi, giovani, perché siete forti, e la parola di Dio dimora in voi e avete vinto il maligno” (1 Gv 2, 14).
Sull’esempio di san Giovanni apostolo ed evangelista, anche san Giovanni Bosco, durante tutti gli anni della sua vita e del suo apostolato ha scritto una lettera: una “lettera viva” nel cuore della gioventù. E l’ha scritta in questa esultanza che è data ai piccoli e agli umili nello Spirito Santo.
2. Questa lettera viva veniva già letta durante la vita e il servizio sacerdotale di san Giovanni Bosco. E la stessa “lettera viva” continua ad essere scritta nei cuori dei giovani, ai quali giunge l’eredità del santo educatore di Torino.
E tale “lettera” diventa particolarmente limpida ed eloquente, quando da quest’eredità di generazione in generazione crescono sempre nuovi santi e beati.
Conosciamo tutti la splendida schiera di anime elette, formatesi alla scuola di don Bosco: san Domenico Savio, il beato Michele Rua, suo primo successore, i beati martiri Luigi Versiglia e Callisto Caravario, santa Maria Domenica Mazzarello, cofondatrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice, e oggi anche la giovane Laura Vicuña, che viene elevata agli altari, in occasione del Giubileo salesiano.
3. La nuova beata, che oggi onoriamo, è frutto particolare dell’educazione ricevuta dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, ed è perciò significativa parte dell’eredità di san Giovanni Bosco. È giusto quindi rivolgere anche il nostro pensiero all’Istituto delle Suore Salesiane ed alla loro fondatrice, per attingere più profonda devozione ai santi fondatori e nuovo ardore apostolico, specialmente nella formazione cristiana dei giovani.
Misteriosi sono sempre per noi i disegni di Dio, ma alla fine risultano provvidenziali. La giovane Maria Domenica Mazzarello, che ebbe umili origini a Mornese, piccolo paese della diocesi di Acqui, già aveva maturato il proposito di consacrarsi ad una vita di donazione al Signore. Incontratasi con don Bosco, scoprì la sua vocazione definitiva, seguendo l’apostolo della gioventù, il quale desiderava fondare anche un’istituzione femminile. Entrata nell’orbita spirituale e apostolica di don Bosco, Maria Domenica Mazzarello riunì il primo gruppo di religiose a Mornese e il 5 agosto 1872, con la vestizione e la professione, diede inizio ufficiale all’Istituto.
Da quell’inizio, in breve tempo, le fondazioni si susseguirono in Italia, varcando poi anche le frontiere dell’Oceano, con le prime missioni nell’Uruguay e nella Patagonia. Dal giorno in cui la fondatrice, insieme con altre quattordici giovani, si era consacrata al Signore, fino al giorno della sua morte, avvenuta il 14 maggio 1881, erano appena trascorsi nove anni; ma in quel breve spazio di tempo la santa aveva posto le basi di un promettente istituto religioso, che poi si sarebbe sviluppato in modo davvero meraviglioso. “Mi sono offerta vittima al Signore” aveva confidato un giorno ad una giovane missionaria; e don Bosco aveva commentato: “La vittima era gradita a Dio e fu accettata”.
Possiamo dire che questo “spirito” della fondatrice si è mantenuto vivo e ardente nelle Figlie di Maria Ausiliatrice! La fede profonda e convinta, unita ad una fervida e costante devozione a Maria santissima, a san Giuseppe, all’angelo custode; la semplicità di vita, espressa in modo particolare da un energico distacco dai gusti mondani e da una intensa e incessante laboriosità; lo zelo ardente per la formazione e la salvezza delle giovani secondo le direttive del “metodo preventivo”, hanno fatto in modo che in cento e più anni di vita le attività si siano moltiplicate con gli oratori, le scuole di vari ordini e gradi, le opere assistenziali e sociali, gli asili infantili, la cura degli anziani, l’apostolato nelle parrocchie, l’assistenza ai sacerdoti, in cinque continenti, in decine e decine di nazioni, in tutte le lingue, secondo un programma altamente umanitario e profondamente cristiano.
4. In questa atmosfera visse e si perfezionò la giovane Laura Vicuña, “fiore eucaristico di Junín de Los Andes, la cui vita fu un poema di purezza, di sacrificio, di amore filiale”, come si legge sulla sua tomba. Orfana di padre, militare di grande bontà e valore, esule da Santiago del Cile a Temuco, venne ad abitare con la madre e la sorella nel villaggio di Quilquihué, nel territorio argentino di Neuquén. L’ambiente purtroppo - a detta degli storici - era moralmente inquinato; la stragrande maggioranza delle unioni coniugali era irregolare, anche perché, mescolati agli indigeni, vivevano avventurieri, evasi e fuoriusciti. La stessa madre della piccola Laura, entrata a servizio di un “estanciero”, era commiserata sia per la sua infelice convivenza sia per la ferocia dell’uomo a cui si era legata. La piccola Laura trovò ben presto un rifugio spirituale presso le Suore Salesiane, nel piccolo collegio femminile di Junín de Los Andes. Qui ella si preparò alla prima Comunione ed alla Cresima; e qui si accese di ardore per Gesù, tanto da decidere di consacrare a lui la sua vita nell’Istituto di don Bosco, tra quelle suore che tanto l’amavano e l’aiutavano. All’età di dieci anni, ad imitazione di Domenico Savio, di cui aveva sentito parlare, volle formulare tre propositi: “1) Mio Dio, voglio amarvi e servirvi per tutta la vita; perciò vi dono la mia anima, il mio cuore, tutto il mio essere; 2) Voglio morire piuttosto che offendervi con il peccato; perciò intendo mortificarmi in tutto ciò che mi allontanerebbe da voi! 3) Propongo di fare quanto so e posso perché voi siate conosciuto e amato, e per riparare le offese che ricevete ogni giorno dagli uomini, specialmente dalle persone della mia famiglia”.
Nella sua giovane età Laura Vicuña aveva perfettamente compreso che il senso della vita sta nel conoscere ed amare Cristo: “Non amate né il mondo n le cose del mondo!” - scriveva san Giovanni evangelista - “Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui, perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. Ed il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Gv 2, 15-17).
Laura aveva appunto compreso che ciò che conta è la vita eterna e che tutto ciò che è nel mondo e del mondo passa inesorabilmente. Seguendo poi le spiegazioni del catechismo, comprese la pericolosa situazione in cui si trovava sua madre e, sentendo un giorno dal Vangelo che il vero amore giunge a dare la vita per la persona che si ama, offrì la sua vita al Signore per la salvezza della mamma.
Divenuta poi quella casa un pericolo anche per lei, al fine di difendere la sua innocenza aveva ottenuto dal confessore il permesso di portare un cilicio. Un brutto giorno venne aggredita e malmenata da quell’uomo; il quale, accecato dalla passione, la percosse violentemente e la lasciò tramortita di spavento. Ma aveva vinto lei, la giovane Laura. Questa però ormai, consumata da varie malattie, andava velocemente declinando, confortata dall’Eucaristia e dalla speranza della conversione della mamma. Nell’ultimo giorno della sua vita, poche ore prima di morire, chiamò vicino a sé la mamma e le rivelò il grande segreto: “Sì mamma, sto morendo . . . Io stessa l’ho chiesto a Gesù e sono stata esaudita. Sono quasi due anni che gli offrii la mia vita per la tua salvezza, per la grazia del tuo ritorno. Mamma, prima di morire non avrò la gioia di vederti pentita?”.
A questa rivelazione, serena e confidente, l’animo della madre diede un sussulto: mai avrebbe potuto immaginare tanto amore in quella sua figlia! E spaventata nel conoscere la sofferenza che aveva accettato per lei, promise di convertirsi e di confessarsi. Ciò che fece prontamente e sinceramente. La missione della giovane Laura era ormai compiuta! Ora poteva entrare nella felicità del suo Signore!
5. La soave figura della beata Laura, gloria purissima dell’Argentina e del Cile, susciti un rinnovato impegno spirituale in quelle due nobili nazioni, e a tutti insegni che, con l’aiuto della grazia, si può trionfare sul male; e che l’ideale di innocenza e di amore, seppur denigrato e offeso, non potrà in fine non risplendere ed illuminare i cuori.
6. Il rito della “beatificazione”, che con tanta gioia e solennità stiamo celebrando in questo luogo in cui ha origine una storia di santità, - luogo giustamente denominato “la collina delle beatitudini giovanili” - ci deve anche far riflettere sulla importanza della famiglia nella educazione dei figli e sul diritto che questi hanno di vivere in una famiglia normale, che sia luogo di amore reciproco e di formazione umana e cristiana. Esso è un richiamo per la stessa società moderna perché sia sempre più riguardosa dell’istituto familiare e dell’educazione dei giovani. La beata Laura Vicuña illumini tutti voi, giovani, ed ispiri e sostenga sempre voi, Figlie di Maria Ausiliatrice, che siete state le sue educatrici!.
7. “Gesù esultò nello Spirito Santo”.
Oggi la Chiesa di Cristo - e particolarmente la Famiglia Salesiana - partecipa a questa letizia.
Esultiamo per la elevazione alla gloria degli altari di una figlia spirituale di san Giovanni Bosco, educata nella Congregazione femminile delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Esultiamo in modo particolare con la gioia della vostra madre, santa Maria Domenica Mazzarello. Esultiamo con la vostra gioia, care sorelle!
Ecco, “il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Gv 2, 17).
La nuova beata Laura Vicuña ha imparato nella Famiglia Salesiana a fare la volontà di Dio. L’ha imparata da Cristo, mediante questa comunità religiosa, che le ha mostrato la via alla santità.
“Chi ama . . . dimora nella luce” (1 Gv 2, 10).
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San Giovanni Eudes
LA VITA ED IL REGNO DI GESÙ NELLE ANIME CRISTIANE
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PRESENTAZIONE: "Me infelice se non evangelizzo, se non converto".
Nato in Normandia nel 1601 viene ordinato sacerdote nel Collegio dei gesuiti di Caen. Egli è il primo apostolo del culto liturgico ai Sacri Cuori di Gesú e di Maria. Nel 1641 fonda due Congregazioni religiose, una maschile e una femminile, dedicate ai Sacri Cuori. Fondò poi rifugi per togliere le ragazze dalla strada e una Congregazione di Religiose per assisterle, l'ordine di «Nostra Signora della Carità del Rifugio». Scrive numerose opere, fra cui la più conosciuta e la più considerevole è «Il cuore ammirabile della Madre di Dio». Morì nel 1680.
Questo "padre, dottore e apostolo del culto liturgico dei SS. Cuori", come viene chiamato nel decreto di beatificazione (1909), nacque il 14-11- 1601 a Ri, nella diocesi di Sées (Normandia), primogenito dei sette figli di Isacco, coltivatore e chirurgo. Fin dall'infanzia Giovanni si segnalò per il temperamento focoso, ma anche per una rara pietà alla quale dava libero sfogo davanti al tabernacolo e ad un'antica immagine di Maria SS. A nove anni uno dei suoi compagni, in un diverbio, gli diede uno schiaffo. Invece di reagire, il nostro santo si pose in ginocchio e, porgendo l'altra guancia, disse all'insolente: "Se vuoi, percuotimi anche su questa". Fatta la prima comunione (1613), sollecitò il permesso di cibarsi del pane celeste ogni mese.
Dopo che ebbe appreso i primi elementi della grammatica da un sacerdote dei dintorni di Ri, Giovanni fu mandato a Caen, nel collegio che i gesuiti avevano aperto da poco, dove fu sempre tra i primi della classe, e meritò per la grande pietà dai compagni l'appellativo di "il devoto Eudes". Egli fece parte della Congregazione Mariana e a quattordici anni emise il voto di perpetua castità. Considerandosi fidanzato della SS. Vergine passò un anello nel dito di una statua di lei.
Al termine della filosofia il suo direttore spirituale lo assicurò che era chiamato al sacerdozio anche se suo padre gli aveva già cercato la sposa. Ricevuta la tonsura, studiò la teologia e l'apologetica all'università di Caen. Poi, sentendo nascere in sé il desiderio della perfezione religiosa, il confessore lo esortò a entrare nella Società dell'Oratorio di Gesù fondato nel 1611 dal P. de Bérulle per la restaurazione dello stato sacerdotale in Francia. Giovanni Eudes fu ricevuto nel noviziato di Parigi (1623) durante il quale ebbe come maestri due geni: lo stesso P. de Bérulle (+1629) e il suo successore, Carlo de Condren (+1641) che, secondo Madama di Chantal, era un uomo capace di istruire gli angeli.
Ordinato sacerdote (20-12-1625), dopo un periodo di preghiera e studio nel ritiro di Nostra Signora delle Virtù di Aubervilliers, ottenne di recarsi a piedi al paese natale devastato dalla pestilenza, per curare i malati, confortare i morenti e seppellire i morti. Egli percorse prima le campagne di Caen, poi si trasferì ad Argentan dove l'epidemia scomparve appena gli abitanti, dietro l'esortazione del santo, si furono messi sotto la protezione di Maria SS. Giovanni Eudes fu allora destinato alla casa che l'oratorio aveva aperto a Caen, in cui trascorse circa quattro anni nello studio della Morale, nel ministero della predicazione, del catechismo e delle confessioni. Quando la peste riapparve per la seconda volta proprio a Caen (1631) quasi tutti, clero compreso, fuggirono. Il P. Eudes restò e, per non contaminare i confratelli, prese alloggio in una botte che la badessa benedettina della SS. Trinità aveva fatto collocare in un prato sulla riva del fiume Orne. Il morbo diminuì dopo che il santo aveva fatto innalzare statue della Madonna su tutte le porte della città. Quando rientrò all'Oratorio si ammalò gravemente, ma guarì perché la sua missione non era ancora terminata.
Le fatiche apostoliche per il P. Eudes cominciarono propriamente nel 1632 con le missioni popolari nella diocesi di Coutances. Nel 1629 il P. De Condren, succeduto al cardinal de Bérulle, lo nominò capo di tutte le missioni che sarebbero state affidate all'Oratorio in Normandia. I frutti che egli raccolse con i suoi trenta scelti operai furono molto abbondanti. Alla sua parola ardente e penetrante sovente l'uditorio prorompeva in lacrime, i penitenti assiepavano i confessionali, i nemici si riconciliavano, chi possedeva quadri osceni o libri cattivi li bruciava pubblicamente in espiazione dei propri scandali.
Una delle grandi pene che provava il P. Eudes era quella di costatare come i felici risultati ottenuti nelle missioni non fossero duraturi per la mancanza di sacerdoti istruiti e morigerati. Deliberò allora di adoperarsi per fondare e dirigere seminari già ordinati dal Concilio di Trento. Dato che l'Oratorio era stato fondato per promuovere la riforma del clero, propose ai superiori maggiori di aggiungere alle funzioni già fissate gli esercizi particolari per gli ordinandi, facendone egli stesso l'esperimento con un seminario nella casa di Caen, di cui era superiore dal 1640. Con suo grande stupore il permesso gli fu rifiutato. Gli Oratoriani, dimentichi dello scopo essenziale e primordiale della loro istituzione, preferivano continuare a consacrarsi all'educazione della gioventù laica.
La sua idea di fondare una nuova Società per la formazione del clero e il rinnovamento del popolo con le missioni, fu approvata da parecchi vescovi e dalla mistica normanna Maria des Vallées con cui il santo era in relazione. Lo stesso cardinale Richelieu, primo ministro di Luigi XIII, informato del gran bene che egli operava tra il clero con le sue conferenze, lo fece chiamare a Parigi per incoraggiarlo e autorizzarlo a dare inizio alla sua opera. Per la nascita della Congregazione di Gesù e Maria a Caen, il P. Eudes scelse la data del 25-3-1643, fedele discepolo del cardinal de Bérulle nel fare della persona del Verbo Incarnato il centro di tutta la vita spirituale.
Fin dal principio egli fu sostenuto validamente dal suo vescovo di Bayeux, Mons. d'Angennes, e coadiuvato da alcuni zelanti sacerdoti che si posero alla sua scuola senza emettere voti di religione. Secondo l'intenzione del fondatore essi dovevano trovare nel loro sacerdozio la ragion d'essere della propria santificazione. Per realizzare la vita di Cristo in loro e nei fedeli, egli propose a tutti la devozione ai Sacri Cuori di Gesù e Maria, e affidò ad essi il compito di propagarla nelle missioni.
Egli stesso con l'approvazione di numerosi vescovi ne compose la Messa e l'Ufficio che in breve si propagarono in tutta la Francia con grande livore dei giansenisti. La festa del Sacro Cuore di Maria fu da lui introdotta nel 1648, quella del Sacro Cuore di Gesù nel 1672, un anno prima delle apparizioni e delle rivelazioni a S. Margherita M. Alacoque. Il P. Eudes scrisse moltissimo con praticità e unzione in difesa di questa devozione, sulla Madonna, sul sacerdozio, sulla vita cristiana incentrata sempre sul Verbo Incarnato.
A Caen, dove tutto era perfettamente regolato, accorsero molti sacerdoti a fare gli esercizi spirituali, pensionanti, studenti di teologia, laici desiderosi di conoscere la propria vocazione. Di mano in mano che i membri crescevano, il P. Eudes moltiplicava le Case di prova per informare gli aspiranti alla sua spiritualità e prepararli alle missioni popolari. Sovente si udiva esclamare: "Me infelice se non evangelizzo, se non converto". Dotato delle più belle qualità di oratore sacro, non si stancò mai di predicare. La gente accorreva ad ascoltarlo fino da dieci leghe di distanza e con qualunque tempo. Mentre il santo predicava tanti non facevano che piangere. Nelle domeniche e nelle feste non era raro vedere riunite attorno a lui sulle piazze o in aperta campagna fino a dieci, quindici mila persone. A Valognes nel 1643 se ne contarono quarantamila e, cosa meravigliosa, fu da tutti udito distintamente. Le sue missioni duravano almeno sei settimane e ottenevano ovunque frutti meravigliosi. Per confessarsi tante persone facevano la fila per tré, quattro giorni. Perfetto organizzatore, nessuna categoria sociale veniva da lui trascurata, compresi i bambini della prima comunione.
Nelle missioni il P. Eudes aveva avuto la gioia di condurre sul retto sentiero parecchie famose Roccatrici. Da principio le affidò a buone famiglie di Caen, poi per esse istituì l'Ordine di Nostra Signora della Carità del Rifugio ( 1641), i cui membri s'impegnavano con un quarto voto a consacrarsi all'educazione delle prostitute pentite. Da esso sbocciò, nel 1835, per opera di S. Maria Eufrasia Pelletier, l'Istituto di Nostra Signora di Carità del Buon Pastore per la preservazione e la rieducazione delle giovani.
Nello svolgimento del suo apostolato non mancò al P. Eudes il sigillo della cancelleria del cielo: la croce. A intervalli furono suscitate grandi tempeste contro di lui dai suoi nemici i quali lo tacciarono di ingannatore, di ribelle ai superiori, di spergiuro e perfino di sacrilego. Alla morte di Mons. D'Angennes gli furono tolti tutti i poteri e il suo successore Mons. Mole poco mancò che gli facesse chiudere il seminario che aveva fondato. I giansenisti e i gallicani riuscirono a metterlo momentaneamente in cattiva luce davanti al re Luigi XIV, e tentarono di arrestare la fondazione del suo seminario di Rouen e d'impedire a Roma l'approvazione del suo Istituto con libelli diffamatori perché sapevano di avere in lui un irriducibile avversario. Ai suoi sacerdoti raccomandava infatti: "Essi devono stare lontani da noi come l'inferno è lontano dal cielo, come il fuoco dall'acqua".
Le pene morali, continue e lancinanti, gli scossero la salute. Per oltre vent'anni soffrì di grande freddo alla schiena. Negli ultimi anni patì spaventosi dolori per le febbri e le emorroidi, la ritenzione di urina e un'ernia. Morì il 19-8-1680. Pio X lo beatificò l'11-4-1909 e Pio XI lo canonizzò il 31-5-1925. Le sue reliquie sono venerate a Caen nel monastero di N. S. della Carità.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 8, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 199-203.
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Nel Tempo di Passione, che abbraccia le due settimane che precedono la Pasqua, la Chiesa contempla in lutto i dolorosi avvenimenti che segnarono l’ultimo anno della vita del Redentore del mondo (Settimana di Passione) e l’ultima settimana della Sua vita mortale (Settimana Santa).
Con l’avvicinarsi del Venerdì Santo, la voce di dolore della Chiesa diviene più vibrante e commossa, e tra breve essa farà sentire i suoi lamenti inconsolabili per la morte del suo divino Sposo. «Il Cielo della Santa Chiesa si oscura sempre più», scrive dom Guéranger. Il Redentore divino, fattosi uomo per amore dell’uomo, sta per espiare l’umano peccato sostituendosi ai suoi fratelli colpevoli. Egli si riveste dei nostri peccati, dice il Profeta, come di un mantello, e si fa peccatore per noi per poterlo portare nella sua carne sulla croce e distruggerlo con la sua morte (cf 1 Pt 2,24).
Nell’Orto degli Ulivi, tutti i peccati commessi dall’umanità colpevole, dagli albori del mondo fino alla consumazione dei secoli, affluiscono come flutti melmosi nell’anima purissima del Salvatore del mondo, che diviene così «il ricettacolo di tutto il fango umano e il rifiuto della creazione» (Mons. Gay). Il Padre deve allora trattarlo come maledetto, poiché è scritto: «Sia maledetto chiunque è appeso al legno» (Gal 3,11). Per la nostra salvezza bisognava davvero che Gesù fosse appeso al legno della Croce, affinché la vita ci fosse resa dal legno che ci aveva dato la morte, e che colui che in un albero aveva trionfato, da un albero – a sua volta – fosse vinto (Prefazio della Croce).
La Sacra Liturgia nota che, «poiché i nostri progenitori erano stati ingannati da satana, bisognava che uno stratagemma divino sventasse l’artificio del serpente». S. Bernardo lo spiega dicendo che «poiché Gesù non aveva che l’apparenza del peccato, fu appunto quest’apparenza a mascherare la trappola in cui satana cadde». E S. Agostino: «Per un giusto permesso di Dio, Lucifero perdette il diritto di morte che aveva sui peccatori il giorno in cui egli fu abbastanza temerario da usarlo contro il Giusto». Si tratta di una lotta senza precedenti e senza pari tra il principe della morte e il Dio della vita, ma «immolandosi Cristo trionfa» e – col più grande dei divini paradossi – morendo ci dona la vita.
Nella Domenica delle Palme, Egli avanza come un conquistatore, circondato di onori dalla folla che acclama: «Osanna al Figlio di David, benedetto colui che viene nel nome del Signore, il Re d’Israele». Ma dopo una gloria passeggera e fugace, il Figlio dell’uomo è sottoposto ad un infamante e menzognero processo. Condannato al peggiore dei supplizi, voluto non solo per ucciderLo, ma anche per cancellarne la memoria, Egli sale sulla croce, trono prezioso che il suo Sangue «orna della porpora regale».
L’oracolo di Davide si è compiuto: ¥Dio ha regnato dal legno», che da oggetto di ignominia è divenuto il vessillo del re e la nostra sola speranza in questo tempo di Passione. «Noi ci prostriamo davanti alla Croce, poiché è per essa che è venuta la gioia in tutto il mondo» (Liturgia). E per dimostrare che è solo in questa prospettiva salvifica che la Chiesa guarda ed adora la Santa Croce, gli artisti cristiani di un tempo cambiavano la corona di spine in una corona araldica e reale.
La Sacra Liturgia, rovesciando – con il suo linguaggio e suoi simboli – la nostra umana comprensione, non fa che riflettere il sapiente e misterioso disegno di Dio il Quale, nonostante le astuzie degli uomini e gli ostacoli più insormontabili da essi posti, si realizza inesorabilmente nella sua pienezza. Anzi, trionfando dell’umana bassezza, esso rifulge più glorioso, poiché Dio, nella Sua provvidenza, calcola anticipatamente ogni minuto ostacolo che gli uomini possono frapporre ai Suoi divini disegni.
Ecco perché il Salmo canta: «Insorgono i re della terra e i principi congiurano insieme contro il Signore e contro il suo Messia: Se ne ride chi abita i cieli, li schernisce dall’alto il Signore» (2, 2-9). Dio non solo irride le astute tattiche e i perversi ragionamenti umani, ma li ribalta con sovrana sapienza, facendoli servire ai Suoi imperscrutabili fini. E, difatti, nel corso della vita del Salvatore, mentre gli Scribi e i Farisei avevano tentato di distruggerLo e coprirLo di ignominia, non compresero che, con l’ignominia di cui volevano ricoprirlo, preparavano il Suo più grande trionfo.
Il Salvatore del mondo fu condannato dai Giudei per un meschino opportunismo politico verso l’autorità romana, ma – mai come allora – fecero di Pilato, che quella autorità rappresentava, un misero zimbello nelle loro mani. E lui, che di quel processo infamante pretendeva vigliaccamente di lavarsi le mani, è da 2000 anni ricordato da tutti i cristiani ogni volta che si recita il Credo. I Giudei simularono di condannare Gesù per difendere la loro nazione, e proclamarono solennemente di non avere altro re all’infuori di Cesare.
Essi «Finsero di temere le sedizioni popolari, e vi ricorsero quando vollero che il popolo condannasse Gesù alla morte di croce. Finsero di condannare Gesù per amore alla verità, e ricorsero alle false testimonianze; finsero di ucciderlo per amore della Legge, e violarono la Legge» (D. Ruotolo). Frutto di un processo menzognero, anche il Calvario si presentò come una menzogna. «Il Redentore vi apparve come uomo, ed era Dio, vi apparve come reo, ed era la santità stessa, vi apparve come maledetto, ed era la benedizione del genere umano» (ivi).
Più precisamente, Egli – facendosi maledizione per noi – appese alla croce il chirografo della nostra condanna. Fu in questa apparenza di menzogna che l’uomo ottenne la benedizione e la salvezza. Il Redentore fu coperto di sangue, e la Madre sua fu ai suoi piedi per presentarlo, così sfigurato, al Padre. «Quel sangue sembrava orrore di pena, ed era amore, quelle spine sembravano obbrobrio, ed erano una corona regale, quei chiodi sembravano il sanguinoso vincolo della libertà, ed erano il definitivo affrancamento dalla schiavitù». «Tutto era, ci si perdoni la frase, una menzogna divina, perché in questa divina finzione la benedizione cadde sul Re d’amore per noi, e Maria Immacolata fu la Madre della benedetta umanità rigenerata» (ivi).
Il Tempo di Passione non è un semplice ricordo storico di questi avvenimenti riferentesi alla persona di Gesù; esso è una realtà per tutto il Corpo mistico. Il dramma del Golgota si estende a tutta la Chiesa che, con Cristo suo capo, rivive la Passione del suo Signore. Il Processo infamante di Gesù nostro Signore non è terminato. Pascal diceva giustamente che Gesù è in agonia fino alla fine del mondo.
Ma, in realtà, tutti i misteri della vita del Signore continuano e continueranno fino alla consumazione dei secoli nella sua Chiesa. Anche il Suo processo. Ora come allora assistiamo alla defezione degli apostoli, al tradimento di Pietro, alle menzogne create per distruggere il Suo Corpo e, se fosse possibile, cancellarlo dalla memoria del mondo. Il processo di Gesù fu una farsa e una menzogna, ma una “menzogna divina” perché non sfuggì all’ordine delle cose voluto da Dio.
Nessun dettaglio della Passione del Redentore, come della Sua vita, sfuggì alla divina economia della Sua misteriosa provvidenza. Così avviene per la Sua Chiesa. Se essa, nella sua componente umana, è prona al mondo e alle sue sirene, se il Sinedrio modernista la vende per trenta denari, se Pietro la tradisce e gli apostoli fuggono impauriti davanti ad un vergognoso e infame processo mondano, rimane tuttavia un piccolo gregge attorno alla Vergine Santissima che, ai piedi della Croce, impietrita dal dolore, contempla, ora come allora, non la morte del Figlio ma la salvezza del mondo.
(Cristiana de Magistris, 12/04/2017 per
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Educazione sessuale a scuola? Inutile, lo dimostra un macrostudio
Molto spesso i cosiddetti “programmi di educazione sessuale”, generalmente promossi da organizzazioni sovranazionali come le Nazioni Unite (oltretutto in stretta collaborazione con organizzazioni Lgbt), non sono altro che un tentativo surrettizio di formare bambini ed adolescenti non ad una educazione affettiva ma alla mera sessualità genitale, accompagnata dall’ideologia gender, alla contraccezione e, quando va male, all’interruzione di gravidanza.
Non è una fissa dei comitati in difesa della famiglia, ma lo hanno ammesso gli stessi “educatori”, lo hanno rivelato gli insegnanti, lo hanno scoperto i genitori e sono purtroppo quotidiane storie di cronaca (ecco alcuni casi di cui si è parlato in Italia a Forlì nel 2015, in Friuli Venezia Giulia nel 2015, a Massa Carrara nel 2015, a Milano nel 2016, nonché alcune immagini dei libri presentati nelle scuole ecc.)
Le famiglie possono oggi avvalersi anche di un importante macrostudio realizzato dall’organizzazione Cochrane, una rete globale di ricercatori nel campo della salute, definiti dal Canadian Medical Association Journal come «la miglior risorsa per la ricerca metodologica e per lo sviluppo della scienza della meta- epidemiologia». I ricercatori, provenienti dall’University of York, dalla Liverpool School of Tropical Medicine, dal South African Medical Research Council e dalla Stellenbosch University, hanno esaminato i dati provenienti da più di 55.000 giovani 14-16enni sottoposti a “programmi di salute sessuale e riproduttiva” provenienti dall’Africa sub-sahariana, dall’America Latina e dall’Europa, seguendoli da uno a 7 anni.
La conclusione a cui sono arrivati è che tali corsi scolastici «non hanno alcun effetto sul numero di giovani persone infette da HIV ed altre malattie sessualmente trasmissibili o la riduzione del numero di gravidanze indesiderate». E’ stato anche rilevato che soltanto quando le scuole hanno fornito incentivi per rimanere a scuola oltre l’orario standard, come la divisa scolastica gratuita o piccoli pagamenti in contanti, si è verificato un miglioramento del 22% nel tasso di malattie sessualmente trasmissibili e gravidanze indesiderate. Miglioramento che però, come detto, non si è verificato se le scuole proponevano corsi di educazione sessuale.
Il pilastro dell’attuale approccio per l’educazione sessuale non funziona e anzi, come è stato scritto nel 2007 in un importante editoriale del British Medical Journal, «contrariamente a quanto si possa pensare, invece di migliorare la salute sessuale, interventi di educazione sessuale possono peggiorare la situazione».
Per molti sarà una sorpresa, non per noi però dato che lo abbiamo segnalato in circostanze precedenti (offriamo un ulteriore studio come controprova, pubblicato sul Journal of Policy Analysis and Management nel 2006, in cui si conclude: «Gli avversari di tali programmi hanno ragione nell’osservare che l’educazione sessuale è associata con esiti negativi per la salute, ma generalmente sbagliano nell’interpretare questa relazione causale. I sostenitori di tali programmi, invece, sono generalmente corretti nel sostenere che l’educazione sessuale non incoraggia attività sessuali a rischio, ma sbagliano nell’affermare che gli investimenti in programmi scolastici di educazione sessuale producono benefici misurabili per la salute»).
Al contrario, se osserviamo la letteratura scientifica, gli unici buoni risultati si sono verificati nei casi in cui i programmi scolastici educavano al valore dell’astinenza, del custodirsi e custodire la propria sessualità, dell’attesa al completo dono di sé in una fase più matura, dedicandolo alla persona con cui si sarà deciso di condividere la vita e, per l’appunto, tutto se stessi. Studi sull’efficacia di questi programmi sono apparsi su diverse riviste scientifiche, come Review of Economics of the Household nel 2011, su Archives of Pediatrics and Adolescent Medicine nel 2010, sul Journal of Adolescent Health nel 2005, ecc. Il prof. Furio Pesci, docente di Storia della pedagogia all’Università La Sapienza di Roma, ha spiegato: «L’educazione sessuale e affettiva non è mai stata considerata – nemmeno dai sostenitori della laicità o del laicismo più accesi – come uno dei fini della scuola».
Questo quadro fornito dalla letteratura scientifica più recente sembra confermare la posizione della Chiesa, ben espressa dal presidente della CEI, card. Angelo Bagnasco: «l’educazione all’affettività e alla sessualità per la sua specificità unica, per la sua peculiarità, per la sua delicatezza, non dovrebbe far parte del quadro strutturale della scuola». Anche perché i programmi titolati «lotta all’omofobia, al bullismo, alla educazione ai valori ed al rispetto – tutti intendimenti sacrosanti – diventano il grimaldello per far passare una visione antropologica ben diversa, che va a toccare una dimensione affettiva e sessuale che è molto di più che l’italiano, il latino, il greco, le scienze e la storia perché tocca una visione delle cose, un mondo valoriale, che è troppo delicato e troppo grave».
Le alternative proposte dal card. Bagnasco sono che «su esplicita richiesta dei genitori, la scuola offra qualche momento extra curricolare, ma che non faccia parte del quadro generale del programma». Inoltre, è doveroso «che i genitori riprendano in mano, con opportuni aiuti, l’educazione affettiva dei propri figli e sarebbe la cosa migliore». Riteniamo decisamente valida sopratutto quest’ultima indicazione.
La redazione, per
[www.uccronline.it] del 5 aprile 2017
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L’umile cardinale guineano Robert Sarah, che da giovane vescovo rischiò la vita per difendere il suo popolo contro la dittatura. Il mistico che imparò la fede dai missionari spiritani, disposti alla morte per evangelizzare il suo paese, che lo fecero innamorare della liturgia come luogo principale dell’incontro con Cristo e della preghiera e del digiuno come armi contro il nemico, ha parlato dell’aborto come della “più grande tragedia del nostro tempo”.
La più grande e la più dimenticata, perché, ha continuato il cardinale alla guida della Congregazione per il culto divino, fa “parte della battaglia finale”, quella “fra Dio e satana” da cui “dipende la stessa sopravvivenza dell’umanità”.
Sarah ha parlato così in Francia il giorno dell’Annunciazione, il 25 marzo, di fronte a quasi 2000 persone radunante in occasione dell’anniversario della morte del servo di Dio Jerome Lejeune.
Secondo il cardinale, infatti, il dragone dell’apocalisse che “sta davanti alla donna incinta, pronto a divorare suo figlio” è “un prototipo della cultura della morte”.
Ma il paragone è anche con la lotta fra Davide e Golia, che somiglia a quella del movimento pro life contro il “potere mediatico e finanziario, pesantemente armato e protetto dall’armatura delle false certezze e delle nuove leggi contro la vita”.
Chiarendo che l’aborto è un “sacrilegio orribile e criminale” anche se molti non lo pensano poiché sono “anestetizzati”.
Ma perché il diavolo odia tanto la vita nascente?
Il cardinale ha citato Lejeune che spiegava: “Se qualcuno vuole attaccare davvero il Figlio dell’uomo, Gesù Cristo, esiste solo un modo: attaccare i figli degli uomini. Il cristianesimo è l’unica religione che dice: “Il tuo modello è un bambino”, il bambino di Betlemme. Se ti viene insegnato a disprezzare i bambini, allora non ci potrà essere cristianesimo in questo paese”.
Poi il cardinale ha spiegato che l’aborto non è come ci hanno fatto credere l’eliminazione di un figlio per permettere alla donna di agire liberamente, ma un tassello di un disegno ideologico di schiavitù: “Il trans umanesimo cerca di realizzare, attraverso la tecnoscienza, il sogno prometeico del nazismo. Come nel nazismo, ci sarà una razza superiore? Se sì, con quale criterio? E se così, che cosà sarà fatto alle persone sub umane, come le definisce il nazismo, il cui lavoro sarà rimpiazzato dai robot?”.
E ancora, “fin dove arriveremo in questa corsa verso l’inferno?”.
Corsa che mira ad eliminare i bambini anche in altre forme, come il cosiddetto matrimonio fra persone dello stesso sesso e attraverso la procreazione in laboratorio.
Per questo, se Lejeune fosse stato presente, “si sarebbe opposto al matrimonio omosessuale che è falso, ed è uno scandalo, e anche a quelle aberrazioni definite procreazione medicalmente assistita e maternità surrogata, e avrebbe combattuto con energie senza pari la cosiddetta teoria gender, veramente folle e mortale”.
Perciò il cardinale ha chiamato a combattere come ha fatto Lejeune che “contro tutti è rimasto fedele al Vangelo”, anche se alla fine fu disprezzato e ridotto al silenzio nonostante le sue grandi scoperte scientifiche. Ma anche questa fedeltà nel silenzio è servita, perché anche Gesù accusato dai farisei durante la passione rimase in silenzio per “mostrare così il suo disprezzo per le bugie e quindi la verità, la luce e l’unica via che conduce alla vita”.
Perciò “nessuno può essere insensibile e indifferente di fronte all’obbligo assoluto di difendere i non nati”, perché questa “è intimamente legata alla difesa di tutti i diritti umani. Infatti implica la convinzione che la vita di un essere umano è sempre e comunque sacra e inviolabile”, innanzitutto quella “del tuo prossimo”.
Per questo, oltre a battersi con le parole, Lejeune accolse tanti malati e handicappati. Chiamato a una missione dal piccolo affetto dalla sindrome di Down che gli disse “professore ci devi salvare, perché ci vogliono uccidere e noi siamo troppo deboli per difenderci da soli”.
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Sarah nel segno di Lejeune: "Combattere l'aborto" di Benedetta Frigerio 09-04-2017 per
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Una meditazione politica sulla Passione e il trionfo di Nostro Signore Gesù Cristo
Legga questo testo con attenzione. Siamo nella Settimana Santa del 1937. Sul mondo incombono due minacce speculari: ad Est il comunismo sovietico, ad Ovest i totalitarismi di stampo nazionalista, apparentemente opposti ma in realtà profondamente affini e in rapporti di mutua dipendenza.
Plinio Corrêa de Oliveira, allora giovane leader delle Congregazioni Mariane e direttore del maggiore settimanale cattolico in Brasile, O Legionário, scrive una «Meditazione politica sulla Passione e il Trionfo di Nostro Signore Gesù Cristo», rivendicando la supremazia della Chiesa e richiamando i cattolici al dovere.
Molti analisti stanno oggi commentando le analogie fra l'attuale situazione internazionale e quella che precedette la seconda Guerra mondiale.
Di fronte all’odierna liquefazione morale e culturale del mondo occidentale, di fronte alla minaccia sempre più incombente dell'islamismo militante, e alla speculare ascesa di false reazioni, sia all'Est sia qui da noi in Europa, le parole di Plinio Corrêa de Oliveira risuonano con attualità: solo la Chiesa ha parole di vita eterna!
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Gli eventi che, a partire da oggi, Domenica delle Palme, celebreremo per tutta la prossima settimana, offrono ai cattolici, in mezzo alla tempestosa situazione in cui viviamo, spunti per una meditazione politica molto utile.
Ci sono due errori funestissimi che, non di rado, incidono sui cattolici. La Settimana Santa ci offre una straordinaria opportunità per smascherarli. Come spesso accade, questi errori non procedono tanto da premesse false quanto incomplete. Sono frutto di una visione parziale e ristretta, e perciò appunto incompleta. Solo una meditazione accurata, fatta alla luce di considerazioni naturali e di argomenti soprannaturali, potrà estirpare il germe velenoso che vi si cela.
Il primo di questi errori è di ritenere inefficiente l’azione della Chiesa nell’arginare la crisi contemporanea. Si sente dire qua e là, sia in ambienti cattolici sia in ambienti che ruotano intorno ad essi, che la Chiesa è ormai incapace di far fronte, da sola, al comunismo. Dovremmo, quindi, fare appello a un’altra organizzazione al fine di salvare la civiltà cristiana dalla catastrofe incombente.
Analizziamo con calma l’obiezione. Facciamolo con l’autorità infallibile dei Romani Pontefici. Se per un cattolico un argomento ispirato alle parole dei Papi non è sufficientemente convincente, allora è meglio che se ne torni a studiare il Catechismo prima di tentare di “salvare la civiltà”.
Papa Leone XIII e, dopo di lui, tutti i Pontefici hanno insegnato che il comunismo è un male di origine eminentemente morale. Nella genesi del movimento comunista vi sono anche fattori economici e politici, ma non sono i principali. Prima di tutto, il comunismo è un movimento che provoca il crollo dei valori morali della civiltà. A sua volta, questa crisi morale ne genera altre economiche, sociali e politiche. Possiamo dunque concludere che i problemi economici, sociali e politici dei popoli contemporanei si risolveranno solo quando si risolverà il problema morale di fondo.
Orbene, la soluzione al problema morale non può avvenire se non per l’azione della Chiesa, perché solo il cattolicesimo, munito delle risorse naturali e soprannaturali, ha il dono meraviglioso di produrre nelle anime i frutti della virtù, indispensabili perché fiorisca la civiltà cristiana.
Quanto abbiamo detto è tratto direttamente dalle encicliche dei Papi. Basta studiarle con cura per trovarvi queste verità. O tutti i Papi hanno sbagliato, oppure dobbiamo riconoscere che solo il cattolicesimo può salvare il mondo dalla crisi in cui è immerso. Inutile, dunque, dire che il tal o tale Paese stia agendo bene, oppure che il tal o tale leader dica delle cose giuste.
Se è vero che solo la Chiesa può rimediare ai mali contemporanei, è nelle fila della Chiesa che noi dobbiamo cercare di lottare per eliminare questi mali. Poco ci importa se altri non fanno il proprio dovere. Facciamo noi il nostro. E se, dopo aver fatto tutto il possibile – sottolineo “tutto”, non parlo di “molto” né di “un po’” – se dopo aver fatto tutto saremo travolti dalla valanga rivoluzionaria, non ci dobbiamo angosciare. Anche se il nostro Paese dovesse sparire, anche se la Chiesa sarà devastata dai lupi dell’eresia, Ella è immortale. Ella saprà galleggiare sopra le acque tempestose del diluvio. Se restiamo nel suo sacro grembo, come Noè nell’arca, dopo il diluvio vi troveremo gli uomini che fonderanno la civiltà cristiana di domani.
Purtroppo, pochi cattolici vogliono guardare in faccia a questa terribile prospettiva. Come gli ebrei, vogliono vedere Cristo solo su un trono di gloria. Gli sono fedeli solo la Domenica delle Palme, quando la folla Lo acclama e copre la strada con i propri mantelli. Per loro, Cristo deve essere un Re terreno che domina il mondo. Se, invece, per un periodo, l’empietà Lo riduce a un Re crocefisso e vilipeso, allora non ne vogliono più sapere…
Per tali persone, Cristo non è venuto per salvare le anime per l’eternità. Egli è venuto, piuttosto, per stabilire il regime corporativo oppure per combattere il comunismo. E se, per un attimo, il comunismo sembra vincere, poco manca perché queste stesse persone prendano in mano il flagello e si uniscano agli aguzzini di Cristo: è Lui il grande colpevole della nostra sconfitta!
Cristo, invece, ha voluto subire tutti gli insulti, gli oltraggi, le umiliazioni, proprio per insegnarci che la storia della Chiesa è piena di Calvari. È molto più meritevole essere fedeli sul Golgota che non sul Tabor.
C’è, però, un altro errore opposto che non di rado incide su certi cattolici. Ed è per illuminare costoro che Cristo ha voluto la gloria della Domenica delle Palme.
Ci sono persone dalla mentalità odiosa, che ritengono normale che Cristo soffra, che la Chiesa sia calpestata, umiliata, perseguitata. È gente pigra, che ha come dio il proprio ventre. È gente che pensa che, giacché la Chiesa deve imitare Cristo, è naturale che contro di Essa si scaglino tutti i nemici e la facciano soffrire. Dicono che non sia altro che la Passione di Cristo che si ripete continuamente. E, mentre la Passione si ripete, fanno una vita agiata e confortevole, in mezzo al tumulto dei peccati e all’esacerbazione della sensualità.
Con tali persone Nostro Signore usò la frusta, scacciandole dal Tempio.
Non è vero che possiamo incrociare le braccia mentre la Chiesa è assalita dai suoi nemici! Non è vero che possiamo dormire mentre Nostro Signore è portato al Calvario! Cristo stesso ha raccomandato ai Suoi apostoli di “vigilare e pregare”. Se è vero che dobbiamo accettare le sofferenze della Chiesa con la rassegnazione con cui la Madonna accettò le sofferenze del suo Figlio, non è meno vero che sarà per noi motivo di dannazione eterna se contempliamo i dolori del nostro Divino Salvatore con indifferenza, con sonnolenza, con la vigliaccheria dei discepoli infedeli.
La verità è solo una: dobbiamo essere sempre con la Chiesa, perché solo Ella ha parole di vita eterna. Se la Chiesa è attaccata, dobbiamo lottare per la Chiesa. Dobbiamo lottare fino all’effusione del sangue, impegnandovi tutte le nostre risorse di energia, animo e intelligenza. Se, nonostante tutto ciò, la Chiesa continuerà a essere oppressa, dobbiamo soffrire con la Chiesa, come san Giovanni Evangelista ai piedi della Croce. Così facendo, siamo sicuri che, in questo mondo o nell’altro, Gesù misericordioso non ci rifiuterà lo splendido premio di assistere alla Sua gloria divina e suprema.
di Plinio Corrêa de Oliveira
(Tratto da «O Legionário», N° 236, 21 marzo 1937)
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Approvata legge pro-gay che istituisce il reato di libero pensiero
L'Umbria approva la norma regionale contro l'omofobia. Che però di fatto fa nascere un tribunale degli omosessuali in ambito lavorativo e scolastico
La scusa è sempre la stessa: evitare le discriminazioni gay. Ma dietro la norma contro le "violenze determinate dall'orientamento omosessuale" approvata dal Consiglio regionale dell'Umbria si nasconde molto di più.
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Un retroterra ideologico con l'unico malcelato obiettivo di mettere un bavaglio, coprire i dissenzi, importare un modello unico di pensiero così tanto alla moda quanto minoritario.
La legge è tutt'altro che un semplice elenco di buone intenzioni per evitare che i gay vengano ghettizzati. Anzi. Si è trasformata in una sorta di editto con cui le associazioni Lgbt potranno diventare gli inquisitori unici in ambito sanitario, lavorativo e scolastico. Grazie alla leggina voluta dalla maggioranza Pd che sostiene la governatrice Catiuscia Marini, sigle come Arcigay e Anddos avranno libertà di azione nel trasmettere alle scuole l'ideologia gender, nel controllare aziende e enti pubblici e nel promuovere iniziative per far conoscere (e apprezzare) la cultura Lgbt. Non vorremmo esagerare, e neppure rimediare nuova querela, ma se la dottrina da diffondere è quella dei circoli delle dark room, dei glory hole e delle orge omo documentate in più servizi giornalistici, allora c'è motivo di essere preoccupati.
Discriminati per cosa?
Per capire tutte le ambiguità della norma umbra pro-Lgbt bisogna partire da una lacuna di fondo che rende tutti gli articoli potenziali museruole alla libertà di parola: nell'articolo 1 si parla infatti di "lotta alle discriminazioni omosessuali", senza però spiegare nello specifico quali atti o espressioni vadano considerate offensive. Come spiegato dal consigliere regionale Sergio De Vincenzi, "la legge non definisce la fattispecie della discriminazione, ma afferma il principio della percezione della discriminazione slegata dal fatto reale accaduto". In sostanza, basta che un gay si senta emarginato per accusare chiunque di omofobia. Anche se non è successo nulla. Per esempio: un padre racconta al figlio che i gay non possono avere bimbi? Potrebbe essere considerata una posizione lesiva della dignità omosessuale. E così potrebbe essere punito da chi ha di fatto istituito il reato di libero pensiero.
Controllo di "qualità gender" nelle imprese
Chi ha avuto l'ardire di leggere fino a questo punto, si sieda e si prepari ad osservare da vicino i punti oscuri dell'ignobile legge. Partiamo dal mondo del lavoro. Il Pd ha avuto la straordinaria idea di assegnare alle suddette associazioni il ruolo di "monitoraggio" in ambito professionale. Costringendo imprese, aziende e pmi a sottostare ai capricci dei leader gay. Diranno che non è vero, ovviamente. Ma sono stati gli stessi promotori ad ammettere nel corso della discussione in aula che alcuni commi sono stati scritti da "loro", ovvero sotto dettatura delle sigle omosessuali.
Le mani sulle scuole
La legge infatti non è difensiva, ma offensiva. Nel senso che non intende solo limitare gli atti di bullismo, ma vuole "favorire la diffusione" della cultura dell'identità di genere. Per trasmettere l'idea che il sesso sia la "percezione che una persona ha di sé" e non un dato biologico, è prevista l'offerta di eventi culturali pro-gay, la promozione di "corsi di formazione professionale per il personale scolastico", di "seminari per i genitori" e di "interventi di consulenza" da parte delle Asl in modo da "rimuovere gli ostacoli" all'accettazione della propria identità di genere. Per fortuna le opposizioni sono riuscite a far emendare l'articolo in cui era previsto l'indottrinamento diretto sui giovani studenti, eliminando i corsi sul gender da scuola e limitandoli a genitori ed insegnanti. E non è poco. Inoltre, la battaglia delle famiglie e del Comitato Difendiamo i Nostri Figli ha fatto sì che non possano essere considerate un reato le dichiarazioni sul gender rese nell'esercizio del diritto di opinione. Una cosa normale, in un Paese occidentale. Ma quando si parla di omofobia, è bene specificare. E questo la dice lunga sull'idea di democrazia sposata dal Pd.
L'Osservatorio-tribunale
Per elevare le sigle gay a giudici di ultima istanza sulle realtà (omo)sessuali, l'Umbria ha ben pensato di creare un Osservatorio regionale speciale che profuma di dittatura della minoranza. Ne faranno parte 6 membri del mondo Lgbt e solo 3 delle associazioni delle famiglie. E hanno il coraggio di chiamarla parità, maledetta coerenza. L'Ente peraltro avrà l'importante ruolo di monitoraggio dei fenomeni di discriminazione e di denuncia di eventuali atti omofobi. A dargli man forte ci sarà il Co.Re.Com, il Comitato Regionale per le Comunicazioni con il compito di imporre la linea del pensiero unico a televisioni, giornali e pubblicità. Controllando i "contenuti" scomodi e organizzando programmi appositi per trattare tematiche omosessuali. Guai a chi non s'allinea.
Giuseppe De Lorenzo - Gio, 06/04/2017 - 12:48
per
[www.ilgiornale.it]
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Gli USA attaccano la Siria, senza attendere la raccolta delle prove circa l'attacco chimico a Idlib
Mons. Abou Khazen: «Perché vogliono decidere loro per noi?»
da:
[oraprosiria.blogspot.it] del 7 aprile 2017
«È sempre la stessa storia. Hanno fatto lo stesso in Iraq, in Libia e ora in Siria. Purtroppo l’ipocrisia degli Stati Uniti non cambia mai». È sgomento e arrabbiato monsignor Georges Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo, commentando a tempi.it l’attacco missilistico di questa notte con cui gli Stati Uniti hanno inflitto «pesanti danni» alla base siriana di Al Shayrat, da dove secondo l’intelligence americana sarebbero partiti i jet di Bashar al-Assad carichi di armi chimiche....
«Noi dobbiamo domandarci: a chi giova questo attacco chimico?», non si dà pace monsignor Abou Khazen. «Chi avvantaggia? Non la Siria, non Assad ma solo i jihadisti. E loro fanno vedere solo quello che vogliono, hanno in mano tutta la propaganda e il mondo intero gli va dietro». La città di Aleppo è da poco stata liberata dall’assedio dei terroristi (dicembre 2016), ma per la Siria non c’è pace: «Io l’ho sempre detto: non si può cantare vittoria perché con gli americani bisogna aspettarsi di tutto. Perché vogliono decidere loro per noi? Perché non lasciano che sia il popolo siriano a scegliere da chi vuole essere governato?».
Dopo la grande paura di stanotte il popolo siriano è «indignato, triste. Che cosa le devo dire? Ringraziamo tutti gli americani e gli inglesi, anche perché l’Isis ha appena ricominciato ad attaccare qui vicino. Forse non è un caso. La verità è che gli americani vogliono arrivare a conquistare i giacimenti di petrolio e gas. E non è certo la prima volta che ci attaccano: quando hanno attaccato la centrale elettrica qui vicino, che forse non riusciremo più a sistemare, qualcuno ha protestato? No, nessuno ha aperto bocca. E non è forse un crimine? Che cos’è, anche quello un atto umanitario?».
[www.tempi.it]
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L'arcivescovo di Aleppo: i missili di Trump sbaglio strategico.
Mons. Jean-Clement Jeanbart, arcivescovo greco-melkita di Aleppo, raggiunto dall'Agenzia Sir.
A suo avviso la vicenda del “gravissimo attacco chimico a Idlib deve essere approfondita per accertarne le responsabilità” e il bombardamento successivo voluto dal presidente Usa Trump “credo sia stato uno sbaglio strategico. Non credo – afferma al telefono dalla città martire siriana – che il presidente Assad avesse bisogno di lanciare un attacco chimico dal momento che gode di una posizione di vantaggio sul campo di battaglia. In ogni caso dovranno essere condotte delle indagini serie per accertare le responsabilità. Chi è responsabile, dovrà renderne conto”.
La scelta di Trump di bombardare postazioni aeree siriane, aggiunge l'arcivescovo, “non la capisco e ritengo sia uno sbaglio strategico. Perché agire così velocemente, senza consultare nessuno? Forse non voleva che la Russia ponesse un veto alla
sua azione? Così facendo ha aggiunto morti ad altri morti, sei soldati siriani e nove civili del villaggio vicino la base militare colpita dagli Usa hanno perso la vita”.
“Se prima era buio, ora il futuro è ancora peggio. Non sappiamo cosa altro potrà accadere. Quali altre reazioni dovremo subire – dice – le cose sembravano andare un po’ meglio, e qualche spiraglio di dialogo per trovare una soluzione politica sembrava aprirsi. Ma adesso? Speriamo che questo errore possa portare tutte le parti in lotta a riconsiderare le rispettive posizioni. Decidano seriamente di lavorare per la pace con soluzioni politiche e non con le bombe”.
da: Avvenire, 8 aprile 2017
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In questo momento di grave preoccupazione per l'aggressione di questa notte da parte USA alla Siria sovrana, sottoscriviamo il comunicato della RETE NOWAR ROMA
"Le dichiarazioni della rappresentante degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, secondo cui gli USA potrebbero scatenare un intervento militare diretto in Siria anche senza l'autorizzazione dell'ONU, le analoghe dichiarazioni bellicose della UE e della NATO, le minacce al Presidente siriano Assad di Israele e Turchia , prefigurano un drammatico scenario di guerra ed allontanano ogni soluzione alla crisi siriana e Medio Orientale.
Già nel 2013, in occasione di un presunto attacco chimico dell'Esercito Siriano alla periferia di Damasco, rivelatosi poi una provocazione organizzata dai gruppi terroristi in difficoltà per causare un intervento armato degli USA a loro favore, si sfiorò una guerra aperta con il coinvolgimento di varie potenze. Il precipitare della crisi fu evitato da un oculato intervento della diplomazia russa. Pur incolpevole, la Siria accettò di eliminare per intero tutto il suo arsenale di sostanze e armi chimiche.
Oggi la storia si ripete con una nuova provocazione che riguarda l’accusa di un attacco chimico sulla provincia siriana di Idlib, da vari anni sotto il controllo dei terroristi di Al Qaida sostenuti da Turchia, Arabia Saudita, Qatar, da vari paesi occidentali e Israele.
Le accuse al governo siriano provengono dalla stessa Al Qaida, da agenzie legate a paesi aggressori come il Qatar e l’Arabia Saudita - Al Jazeera e Al Arabya - e da un’agenzia di notizie situata in Inghilterra (Osservatorio Siriano per i Diritti Umani - SOHR) che collabora da anni con i gruppi terroristi che tentano di destabilizzare la Siria.
Questa è stata subito affiancata da ONG dagli stessi indirizzi, come gli "Elmetti Bianchi", fondati da membri del servizio segreto britannico e Medici Senza Frontiere, fondati dall’ex ministro degli esteri francese Kouchner, partecipe delle avventure belliche del presidente Sarkozy.
Nessun ragionamento viene fatto dai nostri mass media, come sempre al servizio dei governi occidentali e della NATO, sulla circostanza che il governo siriano, nel momento in cui stava prevalendo militarmente e aveva ricevuto persino un esplicito riconoscimento da parte dell'amministrazione Trump per bocca del segretario di Stato Tillerson e della rappresentante USA all'ONU Haley, non aveva alcun interesse ad essere rimesso sul banco degli accusati con un'azione senza senso e autolesionista.
Né si tiene conto delle dichiarazioni di parte russa e siriana, basate su rilievi satellitari, per cui l’esplosione è stata causata da un bombardamento siriano su quello che è poi risultato essere un deposito di armi chimiche allestito dai terroristi, né delle dichiarazioni di testimoni locali, come il vescovo di Aleppo. Come numerose altre provocazioni terroristiche precedenti, in Siria e nel mondo, lo scopo della coalizione guerrafondaia di neocon, neoliberal, Israele, UE e Nato, è ancora una volta di chiudere qualsiasi ipotesi di soluzione giusta in Siria e di ostacolare ogni dialogo costruttivo con la Russia.
Invitiamo tutti i cittadini amanti della pace alla massima vigilanza, a valutare attentamente e contrastare le false notizie diffuse per giustificare attacchi militari, come già avvenuto ad esempio in occasione delle presunte "armi di distruzione di massa" di Saddam. I propalatori di quelle false notizie, come Tony Blair (ufficialmente riconosciuto come bugiardo da una commissione parlamentare britannica) e George Bush, responsabili di milioni di morti, non hanno mai pagato per i loro crimini e anzi hanno ricevuto incarichi prestigiosi e ben remunerati. Il Presidente Assad, nominato con un regolare processo elettorale, è invece definito dittatore, come tutti coloro che difendono l’indipendenza del proprio paese dalle mire imperiali dei potentati occidentali, ed accusato, senza prove, di essere un criminale.
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Chissà quanti genitori di Siracusa sono informati sulle associazioni che compongono la rete Educare alle differenze, alla quale il Comune, attraverso l’assessorato all’istruzione e alle politiche di genere, ha deciso di aderire. Forse saranno rassicurati dal sapere che alla rete hanno aderito anche assessori e consiglieri dei Comuni di Bologna, Capannori (Lu), Fonte Nuova e Monterotondo (Rm), Parma, Pisa, Pistoia, Torino (dove responsabile delle pari opportunità è Marco Giusta, ex presidente dell’Arcigay locale), del Municipio I di Roma e della Regione Lazio. Vediamo se queste adesioni politiche da Nord a Sud possono essere rassicuranti per i genitori.
Iniziamo col ricordare che Educare alle differenze, che prende le mosse dalla Strategia nazionale Lgbt avviata nel 2013 dall’Unar, riunisce 270 realtà di vario tipo. In particolare, la rete è promossa da tre associazioni: Progetto Alice di Bologna, Scosse di Roma, Stonewall di Siracusa. Gruppi che col tempo hanno sviluppato buoni contatti politici sul territorio.
Non sorprende perciò che proprio rappresentanti di queste tre città abbiano prontamente sottoscritto l’appello rivolto dai promotori della rete agli enti locali, attraverso cui gli amministratori si impegnano a stanziare risorse nei bilanci preventivi del 2017, con i seguenti fini (grassetto nostro): “L’attivazione, all’interno delle scuole di competenza comunale, di corsi di aggiornamento professionali rivolti a educatrici/educatori e insegnanti di asili nido e scuole dell’infanzia, per promuovere l’inserimento di un approccio di genere nella pratica educativa, […] in merito alla costruzione delle identità di genere e alla prevenzione delle discriminazioni culturali”; “per l’apertura di ludoteche, spazi di gioco e attività di lettura liberi da stereotipi […]”; “a proporre e sottoscrivere dei protocolli d’intesa con gli Atenei delle nostre città per […] indagini qualitative e quantitative sull’educazione alle differenze e sulla prevenzione di omofobia, transfobia, violenza contro le donne e discriminazioni razziali”.
Il documento si conclude con la richiesta al Parlamento di approvare una normativa che introduca “l’educazione alle differenze e all’affettività” nelle scuole di ogni ordine e grado (come sappiamo, ci sono parlamentari che ce la stanno mettendo tutta per soddisfare la richiesta).
Insomma, nell’appello c’è tutto il repertorio linguistico, pieno di neologismi e caricature, tipico dei teorici del gender. Tra i pericolosissimi stereotipi che gli aderenti alla rete si propongono di combattere ci sono la grammatica (da qui l’uso di asterischi e chiocciole in funzione neutra, per cancellare ogni riferimento al maschile e femminile plurale; esempi: bambin*, ragazz@, tutt*), l’azzurro e il rosa come colori privilegiati per bambini e bambine, le pubblicità sui giocattoli, le fiabe come Biancaneve e Cenerentola, i libri che veicolano l’ormai antiquata idea di famiglia naturale da sostituire con testi moderni che spiegano ai piccoli che si possono avere due mamme o due papà, perché dei gentili signori hanno donato un semino e delle gentili signore hanno donato prima un ovetto e poi il pancino (il lettore ci scusi se ci adattiamo al linguaggio mellifluo di questo genere di opuscoli, volti alla rieducazione di massa già dall’infanzia).
Nella manifestazione a Roma del 2015, un laboratorio “fuori programma” di Educare alle differenze si intitolava De-generiamo e si proponeva di esplorare “autoerotismo, post-pornografia, dominazione e sottomissione, bondage e burlesque”. L’associazione capofila Scosse ha inoltre proposto di inserire i temi del transessualismo e dell’intersessualismo nelle scuole per bambini di 0-6 anni e, come suo modello di riferimento, assume i famigerati Standard per l’educazione sessuale in Europa dell’Oms, della cui pericolosità per bambini e adolescenti abbiamo già parlato.
Già questo dovrebbe essere abbastanza per mettere in guardia i genitori. Ma poiché c’è sempre chi cerca di minimizzare è bene dare qualche informazione in più. In un tentativo di rassicurare le famiglie e spegnere le proteste, l’assessore alle politiche di genere, Valeria Troia, da anni vicina alla galassia Lgbt di Siracusa, ha detto che la rete di Educare alle differenze è composta da “associazioni no profit, enti locali, organizzazioni dell’ambito sociale, équipe di formazione, associazioni di genitori, centri antiviolenza, case delle donne, gruppi informali di insegnanti, spazi sociali […]”. Di certo, l’assessore non ha convinto la comunità di CitizenGo, che ha lanciato una petizione per fermare il gender nelle scuole di Siracusa. A questo link è possibile inoltre leggere l’elenco completo, aggiornato a settembre 2016, delle realtà che aderiscono a Educare alle differenze. Ci limitiamo ad alcuni cenni a cinque associazioni che fanno parte di questa rete:
ANDDOS
Si tratta dell’associazione assurta agli onori delle cronache per il doppio servizio televisivo della trasmissione Le Iene, che ha mostrato come nei circoli affiliati si pratichino orge e prostituzione (questo quotidiano ne ha già parlato qui, qui e qui), causando le dimissioni del direttore dell’Unar. Il 16 dicembre, cioè due mesi prima che emergesse lo scandalo, la presidente di Scosse aveva definito Anddos “un esempio virtuoso all’interno della rete di Educare alle differenze” (qui il video). L’associazione vuole portare nelle scuole il progetto Parlami d’amore, che propone un’educazione alle differenze di genere e alla sessualità fondata sui già citati standard dell’Oms. Nella scheda di presentazione di Parlami d’amore, Anddos arriva a definire “consolidata letteratura scientifica” un volume di John Money, cioè colui che diffuse il falso scientifico dell’identità di genere e convinse due genitori a crescere un bambino come se fosse una bambina: si tratta del caso di Bruce Peter Reimer, cresciuto come “Brenda”, che non si identificò mai nel sesso femminile e morì suicida nel 2004.
ARCIGAY
L’associazione è ben conosciuta, ma val la pena ricordare la posizione fin qui tenuta sull’utero in affitto. Alcuni membri si sono dichiarati pubblicamente contrari alla pratica, ma a poco a poco i vertici stanno uscendo allo scoperto, come dimostrano la partecipazione a un incontro sulla maternità surrogata del suo presidente e le dichiarazioni del suo segretario dopo le recenti sentenze che, di fatto, hanno ratificato l’utero in affitto. Nessun accenno al fatto che si tratta di una pratica disumana, che comporta la schiavizzazione delle donne e la mercificazione dei bambini. Peraltro, è espressamente vietata dalla legge.
CASSERO LGBT CENTER
Collegato all’Arcigay di Bologna, il Cassero è quel circolo che promuove corsi di bondage e, durante la Quaresima di due anni fa, organizzò l’evento blasfemo Venerdì credici, in cui uomini seminudi, con una corona di spine in testa, mimavano atti sessuali imbracciando una grande croce. È davvero triste pensare che un’associazione che offende Cristo e i cristiani possa arrivare a educare dei bambini.
CIRCOLO DI CULTURA OMOSESSUALE “MARIO MIELI”
Il circolo è intitolato a Mario Mieli, attivista gay e teorico degli studi di genere, morto suicida nel 1983. Nel saggio Elementi di critica omosessuale, Mieli arrivò a sdoganare la pedofilia, rappresentandola come “liberazione” del bambino: “Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non tanto l’Edipo, o il futuro Edipo, bensì l’essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l’amore con loro”. La domanda è: voi intitolereste mai un’associazione a un personaggio che scriveva di poter fare l’amore con i bambini?
FAMIGLIE ARCOBALENO
Basti dire che sostiene apertamente l’utero in affitto.
L’ampia rete di Educazione alle differenze è completata da varie sigle dell’universo Lgbt italiano, dagli atei e agnostici dell’Uaar e da associazioni abortiste e femministe che attaccano perfino l’obiezione di coscienza, ossia il diritto che preesiste a tutti i “nuovi diritti” che questi gruppi vorrebbero imporre attraverso la loro martellante propaganda, facilitata da media compiacenti. Davvero è un bene consentire che educhino bambini e ragazzi?
La realtà è che con il pretesto del contrasto al bullismo, alle discriminazioni, all’idea di omofobia veicolata dall’associazionismo Lgbt e dai suoi sostenitori politici (per cui “omofobo” sarebbe anche chi è contrario all’utero in affitto, come insegna il tweet di Monica Cirinnà contro lo spot diffuso da ProVita), nelle nostre scuole stanno entrando organizzazioni radicali.
(di Ermes Dovico per www.lanuovabq.it del 29 marzo 2017)
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L’avanzata politica dell’Islam in Italia e in Europa
Lo scorso 1 febbraio il ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha presentato soddisfatto la firma del Patto nazionale per un Islam italiano, siglato con i rappresentanti delle associazioni e della comunità islamiche del nostro Paese, definendolo «un atto particolarmente importante, un documento che riguarda il presente e il futuro dell’Italia attraverso il dialogo interreligioso».
Un patto che, secondo le parole dello stesso ministro, rappresenta un «passaggio cruciale» che predispone le parti «ad un percorso per arrivare all’intesa con lo Stato». Presupposto dell’accordo, spiega infatti Minniti, «è quello di dire con grande chiarezza che tutti i firmatari si impegnano a ripudiare qualunque forma di violenza e terrorismo».
Il ministro dell’Interno ha quindi illustrato i principali punti del Patto, che impegnano rispettivamente le associazioni islamiche e le nostre istituzioni, mettendo in guardia dal non commettere il “marchiano” errore di assimilare immigrazione e terrorismo: «è un grave errore l’equazione tra immigrazione e terrorismo, l’ho ripetuto più volte (…) è un grave errore dire che non c’è nessun rapporto tra integrazione e terrorismo, come dimostrato in maniera evidente da Charlie Hebdo in poi».
La «questione Islam» – afferma il ministro – si potrebbe semplicemente risolvere cambiando il modello di integrazione fino ad oggi adottato: «Livelli di integrazione insufficienti producono un brodo di cottura dentro il quale cresce il terrorismo (…) l’idea di integrazione è fondamentale: riguarda principi, diritti ma anche sicurezza (…) una società bene integrata, è una società più sicura».
Sono passati solo due mesi dalla firma di tale accordo ed ecco che l’Islam politico, forte dell’ancora fresca investitura e legittimazione istituzionale, comincia coll’avanzare le sue prime pretese: se da una parte la vasta galassia di organizzazioni islamiche presenti sul territorio italiano hanno presentato alcune loro prime proposte di intesa politica, dall’altra, invece, per la prima volta in Italia, si è sentito parlare di una realtà inedita che inizia a chiedere sempre più prepotentemente spazio: la «Costituente islamica».
Come ha scritto, in proposito, la giornalista marocchina Karima Moual sul quotidiano La Stampa, la comunità musulmana vede infatti nell’iniziativa voluta dal ministro Minniti, una ghiotta ed irripetibile occasione da massimizzare a tutti i costi: «L’accelerazione voluta dal Viminale sulla firma del Patto con le organizzazioni islamiche in Italia, si porta dietro molte aspettative da parte dei musulmani italiani, che vedono nel pragmatismo del nuovo Ministro un’opportunità da non perdere. Obiettivo: portare a casa qualcosa, dopo 40 anni di tavoli e consultazioni, che di fatto hanno prodotto più dossier e relazioni che cambiamenti reali sulla vita dei fedeli musulmani, a partire dalla questione dei luoghi di culto, ancora irrisolta».
In questa prospettiva, i principali esponenti dell’Islam italiano stanno freneticamente dandosi da fare per redigere una proposta “irrifiutabile” da portare sul tavolo di discussione della Presidenza del Consiglio. Tra questi, il soggetto capofila è la Grande Moschea di Roma, l’unico ente islamico riconosciuto giuridicamente, sede del Centro Islamico Culturale d’Italia, a sua volta in rapporti strettissimi con la comunità marocchina, la più grande rappresentanza musulmana presente sul nostro territorio, organizzata nella Confederazione dell’Islam italiano, a cui fanno capo ben 300 moschee.
A fianco della Grande Moschea di Roma e della Confederazione dell’Islam italiano, vi è infine la “Comunità religiosa islamica” (CO.RE.IS.). Sull’altro fronte, vi sono i rivali dell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (UCOII) che costituiscono, in realtà, la più diffusa e radicata organizzazione islamica in Italia attraverso una ampia e capillare rete di oltre cento associazioni e la gestione di circa 80 moschee oltre a 300 luoghi di culto non ufficiali. Sono proprio loro che ora stanno cercando di rompere le cosiddette “uova nel paniere” agli accordi in ballo con la proposta di una “Assemblea Costituente islamica” come strumento finalizzato a «dare ai musulmani una rappresentanza eletta».
Obiettivo non dichiarato ma evidente della Costituente, che si richiama espressamente al progetto di nascita dello Stato democratico italiano all’indomani della seconda guerra mondiale, è quello arrivare alla costituzione di un partito politico islamico che possa un domani rappresentare le istanze dell’Islam all’interno del nostro Parlamento.
Come si legge infatti sul “Manifesto dell’Assemblea Costituente Islamica d’Italia“: «A 25 anni dalla presentazione della prima Proposta di Bozza d’Intesa da parte dell’UCOII, e poi da altri soggetti, siamo al punto fermo per quanto riguarda la realizzazione di questo importante strumento di diritto civile. Crediamo sia giusto che noi cittadini musulmani italiani e musulmani residenti ci si acclari attraverso un processo che dia vita ad un’assemblea elettiva di, tendenzialmente, 100 uomini e donne che condividano fede, pratica e senso comunitario islamici. Questa Assemblea, che si rinnoverà entro tre anni, vorrà essere rappresentanza dei diritti e delle istanze di coloro che parteciperanno ad eleggerla e di tutti i credenti che riconosceranno nei suoi principi e nella sua prassi la ricerca del bene, nella pace e nel dialogo costante con l’insieme della società italiana, di cui si sente parte. L’Assemblea Costituente Islamica in Italia, farà formale richiesta d’Intesa alla Presidenza del Consiglio e in concorso fraterno con le altre rappresentanze dei musulmani, variamente costituitesi, opererà politicamente per iniziare il percorso di legge».
La lenta ma progressiva avanzata politica dell’Islam italiano all’interno delle nostre istituzioni avviene gli stessi giorni in cui in Olanda il partito definito «antirazzista» Denk è entrato in Parlamento con tre deputati e il 2,1% dei consensi. Giampaolo Rossi sul Il Giornale ha delineato un interessante e allarmante quadro dell’attuale penetrazione all’interno delle istituzioni democratiche europee di forze politiche di matrice islamica che grazie al progressivo mutamento demografico in atto e al pianificato incessante processo di immigrazione stanno inesorabilmente cambiando il volto delle città europee ed acquisendo ogni giorno di più consensi e rappresentanza.
A questo proposito, Denk, fondato nel 2015 da Tunahan Kuzu e Selçuk Özturk, due deputati turco-olandesi, fuoriusciti dal Partito Laburista, dietro ad un programma politico all’apparenza innocuo, fedele ai dettami politically correct dell’odierno paradigma multiculturale, cela obiettivi politici di ben altro tenore che mettono a nudo il nocciolo duro che si nasconde all’interno di questi partiti, veri e propri “cavalli di troia” del progetto di penetrazione islamica in Europa.
Come si legge nell’articolo Rossi infatti: «Denk vuole la parificazione delle scuole islamiche con quelle pubbliche olandesi, mantenendo alcune prerogative come la separazione dei sessi e l’insegnamento del Corano in arabo». «Denk vuole l’istituzione di un corpo di “Polizia del Razzismo” il cui compito è la repressione di qualsiasi frase o idea ritenuta offensiva per i musulmani, attraverso la creazione di un “Registro del razzismo” per monitorare i discorsi dei personaggi pubblici e affibbiare multe e percorsi rieducativi a chi non è conforme al pensiero unico». «Denk vuole la riduzione dei vincoli di riconoscimento dello status di rifugiato; l’aumento delle quote di accoglienza e maggiori risorse economiche per l’emergenza profughi; obblighi alle aziende di assumere quote fisse di immigrati (almeno un 10%) e la loro sistemazione logistica anche utilizzando le case vuote degli olandesi».
Giampaolo Rossi denuncia infine lo scellerato patto stretto dalla sinistra europea con l’Islam in cambio di un pugno di voti, riportando quanto scritto dall’Economist a riguardo qualche tempo fa: «In tutta Europa i musulmani ed in genere gli immigrati, tendono a votare per i partiti di sinistra; in alcuni casi con punte elevatissime come in Austria (68%) o in Francia dove il 93% dei musulmani alle ultime elezioni, ha votato il socialista Hollande».
Una pragmatica alleanza politica che oggi si scioglie, unilateralmente, di fronte al mutato contesto socio-politico. L’Islam non ha più bisogno dell’“utile idiota”, rappresentato dalla sinistra internazionale, ed inizia ad organizzarsi per conto suo, potendo finalmente fare affidamento sulle proprie forze, rappresentate dai milioni di musulmani oggi presenti, in quella che, ogni giorno di più, possiamo, a ragione, chiamare «Eurabia» secondo la profetica espressione coniata dalla scrittrice Bat Ye’or.
(Lupo Glori per
[www.corrispondenzaromana.it] del 05 aprile 2017)
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Donald Trump taglia i finanziamenti al Fondo Onu per la popolazione e accusa: "Promuovono l'aborto coercitivo"
All'organizzazione per il 2017 verranno negati 32,5 milioni di dollari
Come annunciato dal presidente Donald Trump, gli Stati Uniti hanno ritirato i finanziamenti per il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa), un'agenzia che interviene nlle popolazioni in zone di crisi concentrando il suo lavoro su pianificazioni familiari e salute (aborto, sterilizzazioni inconsapevoli, ecc. NdR) di mamme e bambini in oltre 150 Paesi.
L'annuncio è stato dato dal Dipartimento di Stato con una lettera indirizzata al presidente della commissione esteri del Senato Usa, Bob Corker, in cui si sottolinea che il fondo Onu "sostiene, o partecipa alla gestione di, un programma di aborto coercitivo o sterilizzazione involontaria". Si tratta della prima decisione del presidente Trump per tagliare i finanziamenti alle Nazioni Unite.
L'agenzia, alla quale per il 2017 verranno negati 32,5 milioni di dollari, ha fatto sapere che si "rammarica per la decisione", ribadendo di non aver infranto nessuna legge. In particolare definisce "sbagliate" le affermazioni contenute nel provvedimento dove si sottolinea che il fondo delle Nazioni Unite è "partner dell'agenzia governativa cinese responsabile dei programmi di controllo delle nascite".
[...]
Per tagliare i finanziamenti all'agenzia, Trump ha chiamato in causa una legge degli Stati Uniti, il Kemp-Kasten Amendment, in base alla quale "nessuno stanziamento può essere assegnato ad alcuna organizzazione o programma che, come stabilito dal presidente degli Stati Uniti, sostenga o prenda parte alla gestione di un programma di aborto forzato o di sterilizzazione non voluta".
Il Fondo per la Popolazione delle Nazioni Unite è stato spesso il bersaglio di amministrazioni repubblicane conservatrici. Il presidente Ronald Reagan, così come entrambe le amministrazioni Bush, hanno tolto i finanziamenti per lo stesso motivo.
Il denaro che era stato assegnato all'Unfpa per l'anno 2017 sarà "trasferito e riprogrammato per Global Health Programs", ha detto il Dipartimento di Stato.
Da:
[www.huffingtonpost.it] del 04/04/2017
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ONU pro-morte
Per le Nazioni Unite, l’aborto dovrebbe rientrare nel sistema sanitario ed essere gratis – a richiesta – in tutti i Paesi del mondo.
Siamo – purtroppo – abbastanza abituati a queste prese di posizione antinataliste e anti vita delle organizzazioni internazionale che dovrebbero essere votate alla difesa dei diritti umani. In primis il diritto alla vita.
Un’ennesima posizione pro morte dei funzionari dell’ONU, in questo senso, ci è stata riportata da LifeSite News.
Babatunde Osotimehin, direttore esecutivo del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA) ha criticato l’ex primo ministro del governo conservatore canadese, Stephen Harper, colpevole di non aver incluso, nel piano sanitario che per il decennio 2010-2020 ha destinato un finanziamento 6,3 miliardi di dollari alla salute materna, anche il “servizio” dell’aborto.
Secondo il funzionario, il problema è che “non dobbiamo trattare le donne come organi che forniscono i bambini, ma come esseri umani con diritti e dignità“.
In pratica, secondo il capo della UNFPA, questo piano sanitario per la salute materna approvato in Canada, che ha salvato la vita e migliorato la salute e il benessere di 6 milioni di donne e bambini, non era abbastanza buono per la visione che l’ONU ha del controllo della popolazione.
In altre parole, secondo Osotimehin, le cure per le madri in difficoltà, che le aiutano a far nascere i loro bambini in modo sicuro, non servono a trattarle con dignità.
Invece aiutarle ad uccidere i propri figli è dignitoso.
“È una cosa terribile che un funzionario africano abbia detto questo”, ha dichiarato la fondatrice di Culture of Life Africa, Obianuju Ekeocha. “Il pensiero prevalente in Africa è che l’aborto sia un attacco diretto contro la vita umana”, ha detto a Lifesitenews Ekeocha, nigeriana di nascita, nell’intervista telefonica dal Regno Unito. “Questo è il pensiero più diffuso tra i cristiani, tra i musulmani, tra la stragrande maggioranza del popolo africano.”
La Nigeria ha uno dei più alti tassi di mortalità materna nel mondo: sostenere e aiutare le donne incinte dovrebbe costituire la priorità di uno Stato.
E invece, lunedì scorso, il Ministro per lo sviluppo internazionale, Marie-Claude Bibeau, ha promesso 81,5 milioni di dollari all’UNFPA per finanziare fantomatici “diritti riproduttivi e iniziative per la salute”.
Tali fondi, ha dichiarato la Bibeau, sono destinati a migliorare i sistemi sanitari nei vari paesi, in modo da finanziare anche l’aborto.
“È una sorta di “carota” davanti ai leader africani – denuncia la Ekeocha –… vengono messi a disposizione fondi che possono essere destinati unicamente alla promozione dell’aborto, compresa la formazione dei medici all’esecuzione di aborti.”
Come abbiamo più volte denunciato, i popoli africani vengono ricattati con la promessa di aiuti umanitari a condizione che accettino contraccezione, aborto, omosessualismo e ideologia gender.
Non ci stancheremo mai di ripeterlo: difendere la salute della donna non significa aiutarla ad uccidere il figlio che porta in grembo; significa sostenerla moralmente, psicologicamente ed economicamente nel momento più importante della sua vita.
Laura Bencetti per
[https:]
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L’Olanda “islamizzata” che nessuno racconta
Si fa presto, a dire: Olanda. Quella che vediamo noi da qui è parziale e, soprattutto, effimera. Fateci caso: è trascorsa meno di una settimana e nessuno ne parla più. Diciamoci la verità: nessuno avrebbe prestato attenzione alle elezioni politiche nei Paesi Bassi, se non ci fossero state la Brexit e l’elezione di Trump alla Casa Bianca e se non ci fosse stata la prospettiva di un successo, almeno relativo, del partito “populista” di Wilders. Che invece è arrivato secondo. L’establishment ha brindato alla vittoria e l’Olanda torna ad essere un Paese noioso.
In teoria, perché la realtà è un po’ diversa, e stavolta a dirvelo non è Marcello Foa ma una lettrice di questo blog, Luisa F. che vive da quelle parti, e che mi ha scritto una bella lettera, da cui emerge uno spaccato diverso da quello narrato dai grandi media internazionali.
Luisa scrive:
Non mi sembra che la “vittoria” di Rutte abbia decretato la sconfitta del populismo, anzi, richiamando la sua giusta analisi, né rappresenta proprio il frutto. Infatti credo (e solo per riferirsi all’Olanda) che se Rutte non dovesse proseguire quell’atto di coraggio, iniziato la settimana scorsa, con la Turchia (ed i connazionali turchi in patria), incontrerebbe non poche difficoltà in questo suo nuovo mandato. C’è molto più populismo nell’elezione di Rutte che in quella che sarebbe stata una vittoria schiacciante di Wilders. Inutile continuare a fare gli indifferenti e/o cantar vittoria per il nulla…
Io credo che il populismo europeo stia invece crescendo sempre più: le città tra Belgio, Olanda e Germania sono letteralmente invase dai Turchi e musulmani che non considero assolutamente integrati con noi. Hanno i loro quartieri, i loro negozi, i loro orari di lavoro, la loro lingua (molto di loro anche nati qui non parlano la lingua locale), insomma tutto diverso da noi (e per noi intendo l’altra faccia multieuropea di queste città); è questa l’integrazione?.
Potrebbe essere più chiara? Luisa F. continua con altre osservazioni alquanto interessanti:
Le racconto questo annedoto (sempre per parlare di Olanda), il mio ex marito ha votato per Rutte (di Wilders non condivide l’idea di uscire dall’Europa) tuttavia nostro figlio andrà ad una scuola cattolica perchè nelle scuole laiche (il sistema qui non è ugale al pubblico e privato in Italia) ci sono troppi turchi e musulmani (parole più sue che mie). Ovviamente io non solo condivido ma appoggio al 100% e non ho nessuna vergogna a dirlo. Quindi mi dica siamo sicuri che il populismo non sia in realtà molto più vasto di quanto i nostri bei governanti europei pensino?
Gli europei non vogliono distruggere l’Europa vogliono solo che l’Europa torni agli europei. C’è molto più populismo in questo che in quella che sarebbe stata un ipotetica vittoria di Wilders. Sull’impeto di questo momento di illusione gli Olandesi hanno riconfermato Rutte.
Aggiungete un dato interessante e passato sotto silenzio sui media. Alle ultime elezioni si è candidato un partito islamico, si chiama DENK. Ebbene nella bella e cosmopolita Amsterdam questo partito ha ottenuto più voti di quello di Wilders, ben il 7,5% contro il 7% del Pvv.
Questi sono i segnali che contano. E non sono affatto confortanti. (di Marcello Foa)
Da blog.ilgiornale.it del 20/3/2017
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Olanda vs Turchia, riflesso di una crisi più ampia
(di Lupo Glori) Alla vigilia delle importanti elezioni politiche olandesi, in cui si agita il temuto spettro di Geert Wilders, leader del Partito per la Libertà, fortemente anti-europo e anti-islam, si è aperta una profonda crisi diplomatica tra Olanda e Turchia. La tensione tra i due paesi è infatti alle stelle, a seguito della clamorosa decisione del governo dell’Aja di vietare il diritto di atterraggio al volo di Stato con a bordo il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, atteso a Rotterdam per un comizio a favore del referendum costituzionale di aprile organizzato per i cittadini turchi residenti all’estero.
Un secco e inatteso no, ribadito dopo poche ore, anche alla collega della Famiglia, Fatma Betuel Sayan Kay, alla quale è stato impedito di raggiungere il consolato di Rotterdam. Il doppio affronto ha scatenato l’immediata e veemente reazione del premier turco Recep Tayyip Erdogan che ha così tuonato: «L’Olanda pagherà il prezzo per aver danneggiato i rapporti con la Turchia. Insegneremo loro la diplomazia internazionale dopo il loro comportamento vergognoso».
Parole di fuoco, in linea con quelle del ministro degli Esteri Cavusoglu, che ha fatto sapere come “non basteranno” delle semplici scuse ad evitare serie ripercussioni, alcune delle quali già adottate: «Per cominciare abbiamo risposto dicendo che l’ambasciatore olandese non deve tornare nel nostro Paese. Prenderemo delle misure e l’Olanda si scuserà. Se non lo farà, continueremo a prendere altre misure».
Fatma Betul Sayan Kaya, la ministra turca della famiglia messa alla porta, ha invece commentato l’episodio che l’ha vista protagonista, attraverso il suo account Twitter, inveendo contro le autorità olandesi, ree di averla accompagnata senza complimenti al confine con la Germania: «Il mondo intero deve reagire contro questa prassi fascista! Un simile trattamento contro una donna ministro non può essere accettato».
La pietra al centro dello scandalo internazionale è la cruciale consultazione elettorale in programma il 16 aprile in Turchia con la quale il premier Erdogan potrebbe finalmente riuscire a “blindare” in maniera inattaccabile il sistema presidenziale, accentrando a sé tutti i poteri. Secondo quanto riportato in un comunicato diffuso dall’Aja, il governo di Mark Rutte aveva dato il via libera alle manifestazioni e ai comizi turchi, purché, per motivi di ordine pubblico, si fossero tenuti al chiuso, meglio se in ambasciata o al consolato. Condizioni che non hanno soddisfatto in alcun modo il governo turco che non ci ha pensato due volte a far partire ugualmente i suoi rappresentanti alla volta dell’Olanda.
Una mossa provocatoria e prepotente, evidentemente inaccettabile, che ha costretto il premier Rutte, a non concedere il permesso di atterraggio “per preservare l’ordine pubblico”. In breve tempo, la controversia tra Olanda e Turchia si è allargata, tramutandosi in uno vero e proprio scontro aperto Unione Europea-Turchia.
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, intervenuto sul tema in un discorso tenuto nella provincia nordoccidentale di Kocaeli, dopo aver accusato l’Olanda di agire come una “repubblica delle banane”, ha infatti, puntato il dito contro la stessa Europa colpevole di essere rimasta muta sulla vicenda: «L’Europa ha detto qualcosa? No. Perché? Perché non si danno fastidio a vicenda. (…) Chiedo alle organizzazioni internazionali in Europa e ovunque di imporre sanzioni sull’Olanda». Il ministro turco per gli Affari Europei, Omar Celik, da parte sua, ha invece utilizzato nei confronti dell’Europa l’arma del ricatto, minacciando, come riportato dall’Agenzia di stampa turca Anadolu, un «riesame della questione dei transiti via terra» circa l’accordo sulla gestione dei flussi migratori tra il governo di Ankara e l’Unione Europea.
L’atto di accusa contro la UE è stato poi formalizzato in un comunicato del ministero degli Esteri turco, diffuso il 14 marzo, nel quale, come sottolinea il portale del giornale filo-governativo Sabah, vengono presi di mira l’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini e il commissario per la politica di allargamento e vicinato, Johannes Hahn, responsabili di aver rilasciato dichiarazioni «miopi che non hanno alcun valore per Ankara».
La nota prosegue mettendo in dubbio la “democraticità” dell’Unione Europea, sottolineando come «le nostre controparti nell’Ue fanno esercizio solo in modo selettivo dei valori democratici, dei diritti fondamentali e delle libertà» e rendendo noto che la Turchia denuncerà il governo olandese presso le Nazioni Unite, l’Osce e il Consiglio d’Europa per aver violato con le sue decisioni la Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche.
Dopo l’Olanda, anche la vicina Danimarca ha chiesto al premier turco, Binali Yildirim di rinviare per motivi di opportunità politica la visita programmata per il prossimo 20 marzo. Un improvviso dietrofront sul viaggio istituzionale in calendario, in quanto oggi evidentemente non più gradito, che il primo ministro danese, Lars Lokke Rasmussen, ha cercato di giustificare così: «potrebbe non aver luogo, alla luce degli ultimi attacchi della Turchia all’Olanda. Dunque, ho proposto al mio collega turco di rinviarlo. In circostanze normali, sarebbe stato un piacere accogliere Yildirim, con cui ho avuto un dialogo franco e costruttivo lo scorso 10 dicembre ad Ankara».
Turchia ed Europa non sono mai state così distanti e i motivi che le stanno irrimediabilmente allontanando sembrano essere almeno due. Da un lato, indubbiamente, la violenta repressione seguita al fallito golpe militare del 15 luglio 2016, da parte del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ha finalmente spalancato gli occhi agli Stati membri della UE sulla “realtà turca”. Dall’altro, in un’Europa sempre più invasa dai continui e massicci flussi migratori provenienti dal medio-oriente si leva ogni giorno più forte un vento anti immigrazione e in particolare anti Islam che avverte il pericolo dell’entrata in Europa di un paese di 80 milioni di mussulmani.
In questo mutato scenario geopolitico, anche i leader europei più moderati come il premier danese Rutte, se vogliono intercettare i sentimenti del popolo devono rivedere in chiave pragmatica i propri programmi politici, dirigendosi gioco forza verso dove soffia il vento. Un vento identitario, anti-immigrazione, anti-islam e contrario alla stessa Unione Europea che ha le sue prossime e decisive tappe nelle elezioni politiche di Olanda, Francia e Germania.
(Lupo Glori, per
[www.corrispondenzaromana.it]