Criticare l'islam favorisce la radicalizzazione?
Pensarlo è un suicidio
"E' proprio la mancanza di critica che ha condotto alla rinascita dell'islam militante", scrive il saggista americano William Kilpatrick
di Matteo Matzuzzi
Roma. Uno dei più grandi luoghi comuni del nostro tempo, così diffuso tra i media e le élite politiche, è che criticare l’islam (o anche solo l’islam radicale) avrà come unico risultato quello di radicalizzare i musulmani moderati. Falso, ha scritto sul Catholic Thing William Kilpatrick, docente e autore tra le altre cose di Christianity, Islam and Atheism: The Struggle for the Soul of the West e The Politically Incorrect Guide to Jihad.
Il ragionamento è smentito dai fatti, anche perché si potrebbe dire “altrettanto facilmente” che proprio “la mancanza di critica ha condotto alla rinascita dell’islam militante”.
Lungi dal criticare l’islam, “i governi occidentali, i media, il mondo accademico e persino le chiese si sono piegate per affermare che tutte le atrocità commesse nel nome dell’islam non hanno nulla a che fare con l’islam”.
Ma questo altro non è che “un rigido sistema di autocensura che impedisce di ammettere che queste atrocità sono attuate nel nome dell’islam”.
C’è la paura, insomma, “che potremmo dire qualcosa di provocatorio che finirebbe per trasformare un numero incalcolabile di musulmani pacifici in jihadisti”.
Si guardi, dice Kilpatrick, al problema causato dagli enormi flussi migratori verso l’Europa:
“Le conseguenze di questa migrazione di massa non sono mai state discusse, se non in termini entusiastici. Praticamente, l’unica cosa che s’è detta è che i migranti avrebbero risolto le carenze di manodopera, aiutato il welfare e arricchito culturalmente l’Europa. Questa era la linea ufficiale. Chiunque avesse deviato da tale impostazione – osserva il saggista americano – doveva aspettarsi la censura, la possibile perdita del posto di lavoro o anche un processo penale. Dire qualcosa di negativo riguardo l’immigrazione musulmana sulla propria pagina Facebook avrebbe potuto avere come conseguenza la visita della polizia. Dirlo in pubblico, una citazione in giudizio. E non importava se a farlo fosse stato un famoso scrittore (Oriana Fallaci), il presidente della Free Press Society danese (Lars Hedegaard) o un membro del Parlamento olandese (Geert Wilders)”.
Il modus pensandi così à la page in Europa non ha dunque ragion d’essere:
“In Europa pochi hanno osato criticare l’islam, ma la radicalizzazione si è concretizzata lo stesso. E’ stato il silenzio, più di ogni altra cosa, a permettere che l’islamizzazione e la radicalizzazione si diffondessero attraverso la Francia, la Germania, il Belgio, l’Olanda e la Svezia. Nessuno – prosegue Kilpatrick – per anni ha parlato delle zone inaccessibili, delle corti della sharia, della poligamia e dei matrimoni forzati, del rifiuto di integrarsi. Ora che si inizia a parlarne, potrebbe essere troppo tardi per evitare la capitolazione (che è il probabile destino della Svezia) o un sanguinoso conflitto (in Francia). Noi non temiano che criticare il cattolicesimo produca folle cattoliche arrabbiate che imperversano nelle strade. Non ci preoccupiamo che una parola sbagliata porti un giovane battista del sud a indossare una cintura esplosiva”.
Proviamo a guardare la cosa da una prospettiva diversa, che metta da parte il solito politicamente corretto e si concentri sul cuore del problema:
“Dato il suo passato e presente sanguinario, sarebbe del tutto irresponsabile non sottoporre l’islam a un’analisi critica. E lo scopo non sarebbe quello di allontanare i musulmani”.
Se “non è possibile criticare un sistema di credenze, perché così si ferirebbero i sentimenti di persone appartenenti a tali sistemi, allora – dice Kilpatrick – abbiamo sbagliato a criticare il nazismo, il comunismo e l’imperialismo giapponese. Certo, di solito, ci asteniamo dal criticare le altre religioni. Un approccio ‘vivi e lascia vivere’ è generalmente buono, ma quando l’altra religione pretende la conversione pena la morte, allora il ‘vivi e lascia vivere’ non è più un’opzione. Ed è suicida far finta che le cose stiano in altro modo”.
da:
[www.ilfoglio.it]