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La “Chiesa povera” dal Vaticano II a papa Francesco
di Roberto de Mattei
I documenti di Papa Francesco, secondo il giudizio prevalente dei teologi, costituiscono delle generiche indicazioni di carattere pastorale e morale, prive di significativa qualità magisteriale. È questa una delle ragioni per cui tali documenti vengono discussi in maniera più libera di quanto sia mai accaduto con i testi pontifici.
Tra le analisi più penetranti di questi testi, va segnalato lo studio di un filosofo dell’università di Perugia, Flavio Cuniberto, dal titolo Madonna Povertà. Papa Francesco e la rifondazione del cristianesimo (Neri Pozza, Vicenza 2016), dedicato in particolare alle encicliche Evangeli Gaudium (2013) e Laudato sì (2015). L’esame a cui il prof. Cuniberto sottopone i testi è quella dello studioso che cerca di comprenderne le tesi di fondo, spesso celate da un linguaggio volutamente ambiguo ed ellittico. Sul tema della povertà, Cuniberto porta alla luce due contraddizioni: la prima di natura teologico-dottrinale, la seconda di carattere pratico.
Per quanto riguarda il primo punto egli osserva che papa Francesco, in contrasto con quanto si desume dal Vangelo, fa della povertà una condizione più materiale che spirituale, per trasformarla quindi in una categoria sociologica. Questa esegesi traspare, ad esempio, dalla scelta di citare, per il discorso sulle Beatitudini, Luca 6, 20 e non il più preciso Matteo 5, 3 (che usa il termine di «pauperes spiritu», ossia coloro che vivono umilmente dinanzi a Dio).
Ma la povertà sembra essere allo stesso tempo un male e un bene. Infatti, osserva Cuniberto, «se la povertà come miseria materiale, esclusione, abbandono, è indicata fin dall’inizio come un male da combattere, per non dire il male dei mali, ed è perciò l’obiettivo primario dell’azione missionaria», il nuovo significato cristologico che gli attribuisce Francesco «ne fa contemporaneamente un valore e anzi il valore supremo ed esemplare». Si tratta, sottolinea il filosofo perugino, di un complicato groviglio. «Perché combattere la povertà e sradicarla quando è al contrario un “tesoro prezioso”, e addirittura la via verso il regno? Nemico da combattere o tesoro prezioso?» (pp. 25-26).
Il secondo nodo riguarda le “cause strutturali” della povertà. Supponendo che essa sia un male radicale, papa Bergoglio sembra individuarne la causa essenziale nella “disuguaglianza”. La soluzione indicata per estirpare questo male sarebbe quella marxista e terzo-mondista della redistribuzione delle ricchezze: togliere ai ricchi e dare ai poveri. Una redistribuzione ugualitaria che passerebbe attraverso una maggiore globalizzazione delle risorse, non più riservata alle minoranze occidentali, ma estesa a tutto il mondo. Ma alla base della globalizzazione sta la logica del profitto, che da una parte viene criticata e dall’altra viene proposta come via per vincere la povertà. Il supercapitalismo, infatti, per alimentarsi, ha bisogno di una platea di consumatori sempre più estesa, ma l’estensione su larga scala del benessere, finisce per alimentare le disuguaglianze che si vorrebbero eliminare.
Il libro del prof. Cuniberto merita di essere letto accanto a quello di uno studioso napoletano don Beniamino Di Martino, su Povertà e ricchezza. Esegesi dei testi evangelici (Editrice Domenicana Italiana, Napoli 2013). Il libro è molto tecnico e don Di Martino smonta, attraverso una rigorosa analisi dei testi, le tesi di una certa teologia pauperista.
L’espressione «contro l’avidità non contro la ricchezza» riassume, secondo l’autore, l’insegnamento dei Vangeli che egli analizza. Ma da dove nasce la confusione teologica, esegetica e morale tra povertà spirituale e povertà materiale? Non si può ignorare il cosiddetto “Patto delle Catacombe”, sottoscritto il 16 novembre del 1965 nelle Catacombe di Domitilla a Roma, da una quarantina di Padri conciliari che si impegnavano a vivere e lottare per una Chiesa povera e ugualitaria.
Il gruppo aveva tra i suoi fondatori il sacerdote Paul Gauthier (1914-2002), che aveva partecipato all’esperienza dei “Preti operai” del cardinale Suhard, condannata dalla Santa Sede nel 1953, e poi, con l’appoggio del vescovo di cui fu teologo in Concilio, mons. Georges Hakim, aveva fondato in Palestina la famiglia religiosa de I compagni e le compagne di Gesù carpentiere. Gauthier era accompagnato dalla sua compagna di lotta Marie-Thérèse Lacaze, che divenne la sua convivente quando lasciò il sacerdozio.
Tra coloro che appoggiarono il movimento furono mons. Charles M. Himmer, vescovo di Tournai (Belgio), che ospitava le riunioni nel Collegio belga di Roma, dom Helder Camara che era ancora vescovo ausiliare di Rio e poi divenne vescovo di Recife, e il card. Pierre M. Gerlier, arcivescovo di Lione, in stretti contatti con il card. Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, che si faceva rappresentare dal suo consigliere Giuseppe Dossetti e dal suo vescovo ausiliare mons. Luigi Bettazzi (cfr. Il patto delle Catacombe. La missione dei poveri nella Chiesa, a cura di Xabier Pizaka e José Antunes da Silva, Edizioni Missionarie Italiane 2015).
Mons. Bettazzi, l’unico vescovo italiano oggi vivente presente al Vaticano II, fu anche l’unico italiano ad aderire al “Patto della Catacombe”. Bettazzi, oggi 93enne, partecipò a tre sessioni del Vaticano II e fu vescovo di Ivrea dal 1966 al 1999, quando si dimise per limiti di età.
Se Dom Helder Camara fu il “vescovo rosso” brasiliano, mons. Bettazzi entrò nella storia come il “vescovo rosso” italiano. Nel luglio del 1976, quando sembrava che il comunismo potesse prendere il potere in Italia, Bettazzi scrisse una lettera all’allora segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer, al quale riconosceva la tendenza a realizzare: «un’esperienza originaria di comunismo, diversa dai comunismi di altre nazioni», e chiedeva di «non osteggiare» la Chiesa, ma di «stimolarne», piuttosto «l’evoluzione secondo l’esigenza dei tempi e le attese degli uomini, soprattutto dei più poveri, che forse voi potete o sapete più tempestivamente interpretare». Il leader del PCI rispose al vescovo di Ivrea con la lettera Comunisti e cattolici: chiarezza di princìpi e basi di intesa pubblicata su Rinascita del 14 ottobre 1977.
In questa lettera Berlinguer negava che il PCI professasse esplicitamente l’ideologia marxista, come filosofia materialistica ateistica, e confermava la possibilità di un incontro tra cristiani e comunisti sul piano della “de-ideologizzazione”. Non si tratta di pensare allo stesso modo, ma di fare insieme la stessa strada – affermava in sostanza Berlinguer – nella convinzione che marxisti non si è nel pensiero, ma si diviene nella prassi.
Il primato marxista della prassi è penetrato oggi nella Chiesa come assorbimento della dottrina nella pastorale. E la Chiesa rischia di divenire marxista nella prassi anche falsando il concetto teologico di povertà.
La vera povertà è il distacco dai beni di questa terra, in modo che essi servano alla salvezza dell’anima e non alla sua perdizione. Tutti i cristiani devono essere distaccati dai beni, perché il Regno dei Cieli è riservato ai “poveri in spirito”, ed alcuni di essi sono chiamati a vivere una povertà effettiva, rinunciando al possesso e all’uso dei beni materiali. Ma questa scelta ha valore perché è libera e non viene imposta da nessuno.
Le sette eretiche, fin dai primi secoli, hanno preteso invece di imporre la comunione dei beni, al fine di realizzare in questa terra una utopia ugualitaria. Su questa linea si pone oggi chi vuole sostituire alla categoria religiosa dei poveri in spirito quella sociologica dei materialmente poveri. Mons. Luigi Bettazzi, autore del volumetto La chiesa dei poveri dal concilio a Papa Francesco (Pazzini 2014) ha ricevuto, il 4 aprile 2016, la cittadinanza onoraria di Bologna e potrebbe ricevere la porpora da papa Francesco, sotto il cui pontificato secondo lo stesso ex-vescovo di Ivrea, si è sviluppato il Patto delle Catacombe, «come un seme di frumento messo sotto la terra e cresciuto pian piano fino a dare i suoi frutti».
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Sono una mamma e una catechista e ho abbandonato il catechismo…
Sono una mamma e una catechista e ho abbandonato il catechismo, che tanto amavo, due anni fa per due motivi: il disgusto per la diserzione dal catechismo della Chiesa Cattolica e per non trascurare la famiglia (ho tre bimbi molto piccoli). Evidentemente a Nostro Signore non manca la fantasia per richiamare in riga i suoi figli.
Accade che in una mattina come tante, nel tranquillo svolgersi del tran tran quotidiano, suona alla mia porta una mamma della nostra parrocchia; viviamo in un paesino sulle colline della diocesi di Torino, e mi dice che deve parlarmi del catechismo.
La mamma in questione, insieme ad altre, già da qualche mese mi fermava per strada per lamentarsi del catechismo, ma quello che fino a ora era stato improvvisato e oggetto battute da strada, ora stava diventando una formale richiesta di aiuto.
Nella mia parrocchia – e non solo qui – quello che viene chiamato catechismo, negli anni è andato incontro a un degrado imbarazzante: si tratta di quel percorso di “iniziazione cristiana” – così come si ama chiamarlo nelle diocesi e sui testi della CEI – in cui ci si avvicina ai Sacramenti: confessione in terza elementare, prima Comunione in quarta e Cresima in prima media. Il tutto affidato alla buona volontà di pie signore, perlopiù esse stesse a digiuno di catechetica, la cui formazione è affidata, nella migliore delle ipotesi, a qualche ritiro annuale in cui di tutto si parla fuorché di Catechismo.
Anni e anni avanti così. Poi un giorno ci si accorge che qualcosa non va. Qualcuno in parrocchia si rende conto dell’emergenza: le famiglie sono scristianizzate, i ragazzi arrivano a otto anni a completo digiuno della vita della fede, le catechiste si improvvisano e le lezioni si trasformano in perfette partite di pugilato. Si urla tutta l’ora. I ragazzini ridono sguaiatamente in faccia alla catechista, lei va nel pallone, perde la concentrazione e dimentica persino il Padre Nostro. Quando va bene si riesce a far loro disegnare una pecorella smarrita da appendere in Chiesa nel cartellone dell’ultim’ora. Ci si accorge che in prima media, alle soglie della Cresima, non sanno definire la persona di Dio, non sanno nulla della Trinità e via così.
E così una suora e una laica sono incaricate dal parroco di studiare nuove strategie per porre fine a questa babilonia e riprendere finalmente in mano le redini della formazione dei giovani, anche su invito del Vescovo che invia un lungo documento, un vademecum, rivolto alle parrocchie, in cui dottamente si illustrano scopi, fini, obiettivi, criticità, consigli, speranze e auspici riguardo la formazione dei ragazzi.
Alla fine viene concepita a tavolino la seguente machinatio: decine di onerosissimi incontri serali con i genitori dei bambini di seconda elementare inermi e perlopiù agnostici, mirati al riavvicinamento. Si ipotizza di suscitare in essi un desiderio di avvicinamento alla fede che possa poi essere importato in famiglia e trasmesso ai figli e, mira assai più ambiziosa, di creare una sorta di “vivaio” in cui allevare possibili futuri catechisti (roba che solo il Santo Curato d’Ars…). Queste serate si svolgono in un tale vuoto di sostanza cristiana che si trasformano sì in un vivaio, ma di rancore e astio misti a noia mortale, che sono ben lontani dall’avvicinare le famiglie alla Grazia di Nostro Signore.
Le povere vittime, dopo aver accettato di partecipare tutto l’anno a questi incontri, in obbedienza ai dettami del parroco, per una commovente residua fedeltà alle tradizionali tappe dell’iniziazione cristiana, a fine anno tentano di parlare con chi ha tenuto le serate per far presente che questo sistema è fallato in partenza. Che non hanno imparato nulla, che si sono pagate pure la baby sitter e che sono più lontane di prima dalla fede cristiana. Se ne accorgono persino loro, che non vanno in chiesa da anni, che hanno dimenticato quasi tutto della loro fede, che sono magari battezzate e sposate in chiesa ma, immerse nella mentalità del mondo come la maggior parte delle famiglie moderne, ormai allergiche al “dogma”, guardano con sospetto la Chiesa e la sua dottrina. La tanto vituperata dottrina che qualche illustre teologo e monsignore si preoccupano con solerzia di montare e smontare a piacimento nell’illusione di non urtare la sensibilità dei cattolici ormai adulti. I quali invece, in un paradosso esemplare, tristi e sconsolati di fronte alle macerie di una Chiesa che intuiscono in decadenza, supplicano i loro carnefici di riportali ad essa (alla dottrina) e si trovano di fronte a un rifiuto categorico. E qui il carnefice diventa castigo a se stesso, come dice l’ottimo Alessandro Gnocchi, perché impossibilitato dalle proprie scelte a fare ritorno alla retta via.
Quando le famiglie vengono in contatto con questi salotti dall’aria fritta che sono le parrocchie, avvertono che lì dentro si respira male, che non c’è spazio per la Verità, che qualcuno li sta prendendo in giro. Provano ad abborracciare una protesta ma il sistema li rigetta. La parrocchia risponde nisba, il catechismo (quello vero, tradizionale) non te lo insegno, nemmeno se mi supplichi in ginocchio. Ne a te, né ai tuoi figli. Punto. Meglio leggere i salmi (?!) e commentarli a braccio per decine di incontri, continuando a tenervi all’oscuro di tutte le più semplici e palesi verità della nostra fede.
Così i genitori si ricordano di me, che sono solo una poveretta che per cinque anni ha tentato di spiegare ai bambini alla “bene e meglio” chi è Dio, perché ci ha creati, cos’è la Creazione, il peccato originale, i dieci Comandamenti, chi è Gesù, perché è morto in croce, cos’è il segno della Croce, i Sacramenti, la S. Messa, la Madonna, gli angeli e i santi. Tutti argomenti tabù, soprattutto se trattati con verità, semplicità e devozione, senza quegli intellettualismi o, peggio, dissacranti banalizzazioni, che invece di avvicinare non fanno che suscitare legittimo scetticismo.
Mi chiedono di fare lezioni di catechismo vero ai loro figli. Fuori dal circuito parrocchiale. Da privatisti. Di insegnare loro ad avere un rapporto vero con Dio, così che poi, parole testuali, “saranno poi loro a portare a messa noi”.
Quasi quasi mi ci butto, penso. In fondo non vedevo l’ora di ricominciare il catechismo e avevo una certa riluttanza però, a pensare di rientrare nel giro vizioso della parrocchia.
Epilogo:
Dopo qualche settimana, le mammine arrabbiate vanno dal parroco, per tentare un ultimo approccio. Gli parlano a cuore aperto e viene fuori che io esisto e che sono disponibile. A quel punto il nemico esce allo scoperto e la mia figura, con tutti i miei metodi (chissà quali poi) vengono messi al bando palesemente dal parroco il quale spiega chiaramente alle mamme che il mio metodo è scaduto, non è più valido, è dogmatico e non viene più utilizzato nelle parrocchie dunque, se non vogliono uscire dal giro e, in poche parole, se vogliono i sacramenti per i loro figli, occorre rimanere nell’alveo della diocesi. Punto.
Apostasia della Chiesa. Un parolone che da giovane non capivo tanto.
Ora so cos’è.
Non credo che finirà qui. Rimango in attesa fiduciosa degli eventi nella preghiera.
A.P.
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CL/ CARRON: ROTTAMATORE CHE STRAVOLGE GIUSSANI E SPACCA IL MOVIMENTO?
di GIUSEPPE RUSCONI
La ‘svolta religiosa’ impressa da don Julian Carron, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, sta creando amarezza e preoccupazione dentro il movimento originato dalla passione di don Luigi Giussani. Ne diamo conto, riferendo delle critiche argomentate ormai non più sotterranee , ma sempre più esposte apertamente da chi vuole restare fedele agli insegnamenti del fondatore. Don Carron si fa forte dell’appoggio di Francesco, ma rischia di perdere una parte non trascurabile di Comunione e Liberazione.
In principio fu il Picconatore, epiteto attribuito, a partire dal 1989, all’allora presidente della Repubblica italiana Francesco Cossiga, costituzionalista e grande amante dei soldatini di piombo da collezione. Da qualche anno va di moda piuttosto l’epiteto gemello, il Rottamatore. Ad esempio c’è chi a Palazzo Chigi rottama alcune fondamentali procedure democratiche, come s’è constatato durante l’iter dello sciagurato disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili (e qui ha dato manforte anche la garrula ministra). Nessuna meraviglia, dato che a Palazzo Chigi si rottamano occasionalmente anche storia e geografia, come è emerso dalla conferenza-stampa di venerdì 15 aprile, in cui il premier ha annesso all’Italia addirittura il San Gottardo – e conseguentemente l’intero Canton Ticino – inserendo il nuovo tunnel ferroviario di 57 chilometri (tra Erstfeld e Bodio, inaugurazione: primo giugno) tra le “tre opere strepitose di collegamento con l’Europa” rivendicate dal suo governo.
C’è anche chi, stavolta in ambito ecclesiale, si dà da fare giorno dopo giorno per rottamare gaudiosamente punti fondamentali della dottrina cattolica. Per restare in quest’ultimo ambito, di Rottamatori ne spuntano anche là dove le radici sembravano profonde. Sembra questo essere il caso di “Comunione e liberazione” (CL), felice intuizione di esperienza comunitaria cristiana che don Luigi Giussani incominciò a concretizzare nel 1954, irradiandola dal Liceo Berchet di Milano. Da esterni al movimento, per CL abbiamo sempre nutrito simpatia: soprattutto pensando ai tanti volontari (del Meeting e nella quotidianità), al forte, solido e creativo impegno in ambito scolastico per la piena valorizzazione della persona umana, alla Marcia notturna di fede e di canti da Macerata a Loreto, alla testimonianza pubblica – data in tante occasioni anche con spirito battagliero - di fedeltà ai valori della Dottrina sociale della Chiesa, all’aiuto concreto a Solidarność e ai dissidenti al di là del Muro, all’attività feconda dei suoi missionari in ogni parte del mondo. Nessuna simpatia invece per le propaggini politico-affaristiche (e sempre opportunistiche) del movimento, evidenziatisi poi come nefaste a causa di squallide vicende non solo economiche.
Da qualche tempo tuttavia a noi, osservatori esterni, i comportamenti pubblici di CL appaiono mutati, conseguenza delle nuove scelte del successore di don Giussani, lo spagnolo don Julian Carron. Tale mutazione ha suscitato e suscita nel movimento non poche perplessità, tanta preoccupazione, tanta amarezza: l’appunto principale che sempre più spesso viene addebitato a don Carron è di aver stravolto l’eredità lasciata da don Giussani, utilizzandone à la carte l’insegnamento. Per di più facendosi scudo di papa Francesco, che l’ha ricevuto il 14 aprile in un’udienza – si sente dire nel movimento – chiesta in primo luogo per rinsaldare la propria autorità assai contestata nel mondo ciellino (quello superstite naturalmente: è ancora consistente, ma alcuni se ne sono già andati, altri sono sul piede di partenza e al vertice, attorno a don Carron, sono restati soprattutto gli immarcescibili gattopardi, oltre ai turiferari massmediatici).
Partiamo da non troppo lontano per evidenziare alcuni momenti di quella che appare (anche se non lo si vuole riconoscere pienamente) una grave crisi interna di CL, originata appunto dalla ‘svolta’ impersonata da don Carron.
FAMILY DAY DEL 20 GIUGNO 2015 A PIAZZA SAN GIOVANNI. I vertici ciellini scrivono, in una nota interna - citando tra l’altro il molto controverso segretario generale della Cei mons. Nunzio Galantino – che “l’iniziativa del 20 giugno (…) non sembra adeguata a favorire il necessario clima di incontro e di dialogo con chi la pensa diversamente”. Ma a piazza San Giovanni ci saranno comunque alcune decine di migliaia di ciellini, anche con striscioni e cartelli.
MEETING DI RIMINI 2015. Nello stand dei domenicani si discute della nefasta ideologia gender, presentando tra l’altro il libro di padre Giorgio Maria Carbone “Gender-L’anello mancante”. Due giornalisti di “Repubblica” denunciano con gran disdegno alcune affermazioni (scientifiche) di padre Carbone in materia. I dibattiti vengono sospesi d’autorità dalla direzione del Meeting per “evitare la sovrapposizione di dibattiti ed eventi nel già ricco programma della manifestazione”. Non c’è chi non veda nella giustificazione un tentativo pienamente riuscito di emulare le prodezze del Tartufo di Molière.
FAMILY DAY DEL 30 GENNAIO 2016 AL CIRCO MASSIMO. In un lungo intervento pubblicato dal “Corriere della Sera” del 24 gennaio don Carron mette esplicitamente sullo stesso piano chi sostiene il ddl Cirinnà e chi lo contrasta e giunge a sentenziare che “chi ritiene che questo (il ddl Cirinnà) mini le basi della società si oppone spesso con lo stesso accanimento, senza riuscire a sfidare minimamente, anzi, alimentando, la posizione che combatte”. Ma al Circo Massimo ci saranno comunque alcune decine di migliaia di ciellini, anche con striscioni e cartelli.
DOPO IL 27 FEBBRAIO 2016, DATA DELL’ASSEMBLEA DEI RESPONSABILI DI COMUNIONE E LIBERAZIONE IN ITALIA, SVOLTASI A PACENGO DI LAZISE (VERONA), CON L’INTERVENTO DI DON CARRON DAL TITOLO “UNA PRESENZA ORIGINALE”
a) una lettera (con due allegati) di don Mangiarotti e di ‘un gruppo di amici’. In una lettera ad alcuni vescovi, il battagliero don Gabriele Mangiarotti (responsabile dell’Ufficio per la pastorale scolastica e la cultura della diocesi di San Marino-Montefeltro, creatore del sito www.CulturaCattolica.it, ciellino da 54 anni) e “un gruppo di amici preoccupati della deriva del Movimento di Comunione e Liberazione” evidenziano impietosamente alcuni punti critici dell’intervento di don Carron. Ad esempio: “Il riferimento non è affatto la Dottrina sociale della Chiesa (spesso travisata nei suoi contenuti), ma una situazione letta in modo parziale e discutibile”. Ancora: “La storia della Chiesa e del movimento sembra avere una lettura difforme da quanto imparato da don Giussani (basti pensare al giudizio sul Sillabo e sulla libertà religiosa, come pure alla fine dell’epoca costantiniana). C’è di più: “Nessuno, invocando un impegno a proposito della legge Cirinnà, ha mai preteso di imporre la morale con la legge (civile). Conclusione: “Gli esiti educativi sono preoccupanti. Non solo numericamente, ma per una rinuncia alla presenza nel mondo con la propria identità. Per parafrasare mons. Scola, sembra che la testimonianza si riduca “al necessario buon esempio”, accettando conseguenze nefaste per la vita umana”. Viene a proposito quanto detto da alcuni giovani: “Non ci interessa il compromesso, non siamo al mondo per evitare il meno peggio o evitare lo scontro. Siamo al mondo per testimoniare, e se qualcuno ci attacca non lo lasciamo passare, offriamo l’altra guancia ma restando dritti e fermi”.
Nello scritto di don Mangiarotti e del gruppo di ciellini preoccupati si rilevava anche che “l’intimismo non è presenza, per l’intensità e la verità che diamo a questa parola. Nelle catacombe si crea un proprio ambito, quando non si può fare assolutamente in modo diverso e si è nel dolore dell’attesa di una manifestazione”. Infatti “la modalità della presenza è resistenza all’apparenza delle cose ed è contrattacco alla mentalità comune, alla teoria dominante e alla ideologia del potere”.
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Card. Caffarra: "Non si può con una nota, e di incerto tenore, mutare la disciplina secolare della Chiesa. Sto applicando un principio interpretativo che in Teologia è sempre stato ammesso. Il Magistero incerto si interpreta in continuità con quello precedente".
di Marco Ferraresi, per lanuovabq
Parlare di famiglia non è mai stato così complicato. Persino dentro la Chiesa. Fa problema anzitutto l’oggetto del discorso: cosa è veramente famiglia? E come pretendere che non vi sia confusione nella società civile, se pure nella Chiesa si oscurano talora verità fondamentali sul matrimonio? La controversia sul cap. VIII dell’esortazione Amoris Laetitia di Papa Francesco e la recente legge italiana sulle unioni civili destano sconcerto.
Ne parliamo con il Card. Carlo Caffarra, Arcivescovo emerito di Bologna. Caffarra è stato fondatore e Preside dell’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia. Già partecipante come esperto al Sinodo dei vescovi sulla famiglia del 1980, è membro di nomina pontificia ai Sinodi del 2014 e del 2015. Risponde alle domande con la semplicità e la franchezza degli uomini della sua terra: “Quella fettaccia di terra tra il grande fiume e la grande strada”, dice orgogliosamente citando Guareschi.
Eminenza, cos’è la famiglia?
E’ la società che trae origine dal matrimonio, patto indissolubile tra un uomo e una donna, che ha la finalità di unire i coniugi e trasmettere la vita umana.
Da un’unione civile, secondo la legge Cirinnà nasce una famiglia?
No. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, firmando questa legge, ha sottoscritto una ridefinizione del matrimonio. Ma un provvedimento normativo non cambia la realtà delle cose. Occorre dirlo: i sindaci (soprattutto, naturalmente, quelli cattolici) devono fare obiezione di coscienza. Celebrando un’unione civile si renderebbero infatti corresponsabili di un atto gravemente illecito sul piano morale.
Perché questa crisi di identità della famiglia in Occidente?
Me lo chiedo spesso, ma non ho una risposta esaustiva. Comunque, una concausa è un processo di “debiologizzazione”, per il quale non si ritiene più che il corpo abbia un linguaggio (e dunque un significato) oggettivo. Questo significato viene così determinato dalla libertà della persona. Si è spezzato,nella coscienza occidentale, il legame tra bios e logos.
In una prospettiva di fede, non vi sono pure cause soprannaturali?
Nel 1981 stavo fondando per volontà di San Giovanni Paolo II l’Istituto per gli studi sul matrimonio e la famiglia. La fondazione era prevista per il 13 maggio, data della prima apparizione della Madonna a Fatima. Il Papa in quel giorno subì l’attentato, da cui uscì miracolosamente salvo per grazia – a dire dello stesso Pontefice – della Madonna. Dopo i primi anni di vita dell’Istituto, scrissi a suor Lucia, la veggente di Fatima, chiedendo preghiere per l’opera, e aggiungendo che non aspettavo risposta. Una risposta però arrivò comunque.
Che cosa le rispose?
Suor Lucia scrisse – e, vorrei sottolineare, siamo nei primi anni ’80 – che vi sarebbe stato un tempo di uno “scontro finale” tra il Signore e Satana. E il terreno di scontro sarebbe stato costituito dal matrimonio e dalla famiglia. Aggiunse che coloro i quali avrebbero lottato per il matrimonio e la famiglia sarebbero stati perseguitati. Ma anche che costoro non avrebbero dovuto temere, perché la Madonna ha già schiacciato la testa al serpente infernale.
Parole profetiche: è quello che sta accadendo?
Viviamo una situazione inedita. Mai era accaduto che si ridefinisse il matrimonio. E’ Satana che sfida Dio, come dicendo: “Vedi? Tu proponi la tua creazione. Ma io ti dimostro che costituisco una creazione alternativa. E vedrai che gli uomini diranno: si sta meglio così”. L’arco intero della creazione si regge, secondo la Scrittura, su due colonne: il matrimonio ed il lavoro umano. Non è ora nostro tema il secondo, pure soggetto ad una “crisi definitoria”; per quanto qui concerne, il matrimonio è stato istituzionalmente distrutto.
La Chiesa può rispondere a simile sfida?
Deve rispondere, per ragioni direi strutturali. La Chiesa si interessa del matrimonio perché il Signore l’ha elevato a sacramento. Cristo stesso unisce gli sposi. Si badi, non è una metafora: secondo le parole di San Paolo, nel matrimonio il vincolo tra gli sposi si innesta nel vincolo sponsale tra Cristo e la Chiesa, e viceversa. L’indissolubilità non è anzitutto una questione morale (“gli sposi non devono separarsi”), ma ontologica: il sacramento opera una trasformazione nei coniugi. Sicché, dice la Scrittura, non sono più due, ma uno. Questo è detto chiaramente in Amoris Laetitia (par. 71-75). Il sacramento, poi, infonde negli sposi la carità coniugale. E di questo parlano benissimo i capitoli IV e V dell’Esortazione. Inoltre, il sacramento costituisce gli sposi in uno Stato di vita pubblico nella Chiesa e nella società. Come ogni Stato di vita nella Chiesa, anche lo Stato coniugale ha una missione: il dono della vita, che si continua nell’educazione dei figli. Qui il capitolo VII di Amoris Laetitia colma addirittura, a mio avviso, una lacuna nel dibattito dei vescovi al Sinodo.
In pratica, cosa dovrebbe fare la Chiesa?
Una sola cosa: comunicare il Vangelo del matrimonio. Ho detto “comunicare”, perché non si tratta solo di un evento linguistico. La comunicazione del Vangelo significa guarire l’uomo e la donna dalla loro incapacità di amarsi e introdurli nel grande Mistero di Cristo e la Chiesa. Questa comunicazione avviene attraverso l’Annuncio e la catechesi; e attraverso i Sacramenti. Ci sono persone che, dopo una catechesi sul Sacramento del Matrimonio, vengono a dirmi: perché nessuno mi ha mai parlato di queste realtà meravigliose? I giovani, soprattutto, devono essere al centro delle nostre preoccupazioni. La questione educativa in materia è “la” questione decisiva. Il Papa ne parla ampiamente nei par. 205-211.
Eminenza, che dire della questione dell’accesso ai sacramenti dei divorziati risposati? Il Papa ne tratta al cap. VIII, del quale sono state offerte però letture contrapposte.
Anzitutto, vorrei sottolineare che il Papa stesso nel par. 307 afferma che, prima di occuparci dei matrimoni falliti, dobbiamo preoccuparci di quelli da costruire. E, aggiungo, il problema della sua domanda resta quantitativamente limitato. Certo, sul piano dottrinale è tutt’altro che da trascurare. A tal proposito, rispondo a partire da quattro premesse.
1) Il matrimonio è indissolubile. Come dicevo, prima che un obbligo morale, l’indissolubilità è un dato ontologico. Spiace osservare che non tutti i Padri sinodali avessero ben chiaro tale fondamento ontologico.
2) La fedeltà coniugale non è un ideale da raggiungere. La forza di essere fedeli è donata nel sacramento (vi immaginate il marito che dice alla moglie: “Esserti fedeli è un ideale che cerco di raggiungere, ma ancora non riesco”?). Troppe volte si usa in Amoris Laetitia la parola “ideale”, occorre attenzione sul punto.
3) Il matrimonio non è un fatto privato, disponibile dagli sposi. E’ una realtà pubblica per il bene della Chiesa e della società.
4) Il cap. VIII, oggettivamente, non è chiaro. Altrimenti come si spiegherebbe il “conflitto di interpretazioni” accesosi anche tra vescovi? Quando ciò accade, occorre verificare se vi siano altri testi del Magistero più chiari, tenendo a mente un principio: in materia di dottrina della fede e di morale il Magistero non può contraddirsi. Non si devono confondere contraddizione e sviluppo. Se dico S è P e poi dico S non è P, non è che abbia approfondito la prima. L’ho contraddetta.
Amoris Laetitia, dunque, insegna o no che vi sia uno spazio di accesso ai sacramenti per i divorziati risposati?
No. Chi versa in uno stato di vita che oggettivamente contraddice il sacramento dell’Eucaristia, non può accedervi. Come insegna il Magistero precedente, possono invece accedervi coloro che, non potendo soddisfare l’obbligo della separazione (ad es. a causa dell’educazione dei figli nati dalla nuova relazione), vivano in continenza. Questo punto è toccato dal Papa in una nota (la n. 351). Ora, se il Papa avesse voluto mutare il Magistero precedente, che è chiarissimo, avrebbe avuto il dovere, e il dovere grave, di dirlo chiaramente ed espressamente. Non si può con una nota, e di incerto tenore, mutare la disciplina secolare della Chiesa. Sto applicando un principio interpretativo che in Teologia è sempre stato ammesso. Il Magistero incerto si interpreta in continuità con quello precedente.
Dunque, nessuna novità?
La novità, oltre alla possibilità data dal S. Padre di eccepire, a giudizio prudente dei vescovi, ad alcune norme canoniche, è soprattutto nel prendersi cura di questi fratelli divorziati risposati, cercando di imitare il nostro Salvatore nella modalità con cui Egli incontrava le persone più bisognose del “medico” . Il cap. VIII (“accompagnare, discernere, integrare”), a mio modesto avviso, è la guida di questo “prendersi cura”. Non dobbiamo cadere nell’inganno mass-mediatico di ridurre tutto a “Eucarestia sì-Eucarestia no”.
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ISLAM: violenze nei centri d’accoglienza in Svezia e Germania
Che nei centri d’accoglienza per rifugiati ci siano delle criticità, è certo. Non però quelle che lamentano le Sinistre plurali ed antagoniste. Tutt’altro. Ancora una volta il problema sta proprio nei rifugiati… Svezia, Kalmar, nel sud-est del Paese: qui c’è uno di questi centri. Tutto dovrebbe filare liscio. E invece capita che qui nei giorni scorsi un rifugiato musulmano abbia minacciato un altro, cristiano, di sgozzarlo.
Specificando anche d’aver già combattuto a fianco di gruppi jihadisti in Siria. Come se la cosa facesse “curriculum” o fosse un trofeo per gente senza scrupoli… Uno così dovrebbe essere immediatamente espulso. Invece è ancora lì. Un’eccezione? Assolutamente no. Poco prima un altro gruppo di cristiani richiedenti asilo, sempre a Kalmar, è stato costretto a cambiare centro, pur di sfuggire alle pressioni ed alle pesanti “attenzioni” esercitate su di loro dai “colleghi” islamici, riusciti a render la vita talmente impossibile da convincerli ad andarsene. Un’altra coppia di cristiani pachistani ha dovuto rifugiarsi in una chiesa, dopo aver notato il nome del marito tracciato sul muro di casa, seguito dalla scritta «A morte!». Vicende precedenti giustificano tanto terrore, Kalmar non è affatto nuovo a queste situazioni…
In una struttura per profughi a Ljusne, sempre in Svezia, lo scorso febbraio, un uomo è stato ucciso ed altre tre persone sono rimaste ferite nel corso di una maxi-rissa scoppiata tra gli ospiti. Che, stranamente, hanno utilizzato coltelli ed armi fabbricate artigianalmente. Armi, che lì non sarebbero mai dovute essere.
La Polizia dovette intervenire in massa ed in assetto antisommossa, per evitare conseguenze peggiori. Ancora: a fine gennaio, in un altro complesso analogo, a de Mölndal, un’assistente sociale, Alexandra Mezher, di soli 22 anni, è stata uccisa a colpi di coltello da un rifugiato somalo, oltre tutto minorenne. Arrestato e sotto custodia. Quando ormai, però, era troppo tardi… Soprusi e violenze, non si contano: nei centri d’accoglienza per profughi, in Siria, molte, troppo cose non sono permesse ai rifugiati cristiani, solo ed esclusivamente a causa della prepotenza di quelli musulmani, che nessuno provvede a mettere in riga.
Qualche esempio: nella struttura di Monsteras, per non andare incontro a ritorsioni e conseguenze, gli ospiti non devono esibire croci al collo, non devono entrare nelle stanze adibite alla preghiera verso la Mecca, non devono sedersi nelle aree comuni quando queste siano occupate da fedeli islamici. Eppure, secondo quanto riportato dall’Assyrian International News Agency, l’amministrazione svedese sembra non capire e si rifiuta di ospitare i profughi cristiani in strutture specifiche, poiché «questo sarebbe in contrasto con i principi ed i valori centrali nella società svedese e nella nostra democrazia», come dichiarato da Anders Danielsson, direttore generale del Consiglio svedese per le migrazioni.
E che vengano perseguitati ed ammazzati, non è in contrasto coi loro «valori»? Molte famiglie cristiane han già dovuto far le valigie e cercare casa altrove, “sfrattate” dalle intemperanze dei vicini islamici. Senza poter contare neanche sulla comprensione, né sull’aiuto degli stessi svedesi, da cui – forse – si sarebbero aspettati maggiore tutela e, soprattutto, più senso della giustizia nel “democratico” Occidente. È stato lo stesso Consiglio per le migrazioni ad aver reso noto come il numero di minacce e atti di violenza denunciati in questi centri sia più che raddoppiato tra il 2014 ed il 2015 ed abbia raggiunto quota 322…
Cambiando Stato, non cambiano le situazioni. Neanche in Germania i centri per rifugiati offrono una protezione adeguata a chi sia cristiano, tanto meno quando si tratti di un musulmano convertito al Cristianesimo: la denuncia è contenuta nello studio messo a punto nei giorni scorsi dall’organizzazione tedesca Open Doors. In tale inchiesta la metà dei 231 rifugiati cristiani intervistati, per lo più provenienti dall’Afghanistan o dall’Iraq, ha dichiarato di venire penalizzata o di subire intimidazioni da parte dei migranti islamici e spesso anche da parte degli agenti di sicurezza interni.
Minacce sono loro giunte, ad esempio, nel caso non avessero partecipato ad una preghiera coranica organizzata dagli altri migranti. Anche qui la soluzione più immediata e praticabile parrebbe quella di separare gli uni dagli altri. Ma nessuno muove un dito. Sconcertante. Stiamo parlando di uomini, donne e bambini, fuggiti dai loro Paesi d’origine a prevalenza musulmana, per evitare persecuzioni e lutti. Li sconcerta scoprirsi di nuovo perseguitati ed intimiditi, oltre tutto in Stati cristiani, ove si erano illusi di trovar finalmente riparo e protezione. Il rischio è che presto tali fenomeni possano non essere più controllabili, né arginabili. E, magari, che non possano nemmeno esser più confinati tra le mura dei centri per rifugiati…
(Mauro Faverzani)
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“Amoris Laetitia”: Mons. Livi parla ai penitenti e ai confessori
Nello scorso mese di aprile, in onore alla schiettezza e lealtà ecclesiale di Santa Caterina da Siena, Mons. Antonio Livi ha tenuto una conferenza presso la Basilica di San Giovanni alla Porta Latina, organizzata dalla “Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis”. Pubblichiamo la trascrizione dall’orale, approvata dall’autore, nella certezza che il suo contenuto contribuirà a far chiarezza fra tanti laici (ma forse anche fra tanti sacerdoti) che oggi si sentono smarriti.
Dottrina morale e prassi pastorale nella “Amoris laetitia”
Cari amici,
mi avete chiesto di spiegare in termini semplici a voi, laici – ma vedo anche nell’uditorio dei confratelli e quindi dei confessori -, perché un sacerdote (e teologo) come me ha pubblicamente criticato, in varie occasioni e in varie sedi, l’esortazione apostolica Amoris laetitia di papa Francesco. Mi accingo dunque a spiegare a voi, con la massima schiettezza, il contenuto e le vere motivazioni ecclesiali di queste critiche, che sono naturalmente prudenti nel merito, rispettose nella forma e responsabili nelle intenzioni. Premetto, per cominciare, quello che dice la Chiesa stessa, in un celebre documento della Congregazione per la Dottrina della fede, pubblicato nel 1990 a firma dell’allora prefetto, cardinale Joseph Ratzinger:
«Il Magistero, allo scopo di servire nel miglior modo possibile il Popolo di Dio, e in particolare per metterlo in guardia nei confronti di opinioni pericolose che possono portare all’errore, può intervenire su questioni dibattute nelle quali sono implicati, insieme ai principi fermi, elementi congetturali e contingenti. E spesso è solo a distanza di un certo tempo che diviene possibile operare una distinzione fra ciò che è necessario e ciò che è contingente. La volontà di ossequio leale a questo insegnamento del Magistero in materia per sé non irreformabile deve essere la regola. Può tuttavia accadere che il teologo si ponga degli interrogativi concernenti, a seconda dei casi, l’opportunità, la forma o anche il contenuto di un intervento. II che lo spingerà innanzitutto a verificare accuratamente quale è l’autorevolezza di questi interventi, così come essa risulta dalla natura dei documenti, dall’insistenza nel riproporre una dottrina e dal modo stesso di esprimersi […]. In ogni caso non potrà mai venir meno un atteggiamento di fondo di disponibilità ad accogliere lealmente l’insegnamento del Magistero, come si conviene ad ogni credente nel nome dell’obbedienza della fede. Il teologo si sforzerà pertanto di comprendere questo insegnamento nel suo contenuto, nelle sue ragioni e nei suoi motivi. A ciò egli consacrerà una riflessione approfondita e paziente, pronto a rivedere le sue proprie opinioni ed a esaminare le obiezioni che gli fossero fatte dai suoi colleghi. Se, malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con cui è presentato. Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora contribuire ad un reale progresso, stimolando il Magistero a proporre l’insegnamento della Chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato»(Congregazione per la Dottrina della fede, Istruzione Donum veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo, 24 maggio 1990, nn. 24; 29-30).
Io conosco bene questo documento, e l’ho studiato per anni. L’ho utilizzato soprattutto per denunciare l’abuso del titolo di “teologo” da parte di chi si ribella per principio agli insegnamenti definitivi del Magistero e pretende di ri-formulare il dogma cristiano (cfr Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Leonardo da Vinci, Roma 2012). Ma ora devo rifarmi proprio a questo documento per legittimare i miei interventi critici di fronte alle tante ambiguità (nell’indirizzo pastorale) e alla evidente deriva relativistica (nella dottrina morale) che caratterizzano, purtroppo, molti gesti e molti discorsi di questo Papa e in particolare l’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia. Sono rilievi critici suggeriti sempre soltanto dalla responsabilità ecclesiale che mi impegna – come sacerdote e come teologo – soprattutto di fronte a quei fedeli che sovente manifestano in pubblico il loro turbamento e in privato mi confidano il disorientamento delle loro coscienze, pensando anche a quei fedeli che posso immaginare che siano addirittura indotti alla perdita del senso del peccato – essendo esso la coscienza di essere tutti peccatori, unitamente alla convinzione che solo la grazia sacramentale, una volta avviata la conversione interiore, può redimerci e garantirci la salvezza eterna.
Parto dal presupposto che la “nota teologica” di questo documento pontificio sia proprio quella indicata nel n. 30 della dichiarazione Donum veritatis, e quindi limito le mie critiche alla “forma” dell’esortazione e alla sua opportunità pastorale, date le premesse storico-ecclesiastiche e le conseguenze nella formazione della coscienza dei fedeli. Le premesse storiche sono molto significative: il Papa ha fatto sua una delle due opinioni formalmente espresse dai padri sinodali (quella dei cardinali Schoenborn, Marx, Baldisseri e Kasper, e dei vescovi Forte e Semeraro, tutti favorevoli a un cambiamento radicale della prassi pastorale e dei suoi presupposti dottrinali), non tenendo minimamente conto dell’opinione di quanti (come i cardinali Müller, Caffarra, Burke, De Paolis, Sarah) avevano insistentemente criticato l’ipotesi della concessione della Comunione ai fedeli in stato di pubblico scandalo per aver divorziato davanti al tribunale civile e per aver istituito una convivenza more uxorio (la quale configura canonicamente il “pubblico concubinato”), dopo aver contratto un invalido e finto nuovo matrimonio, sempre davanti al tribunale civile.
Per queste concrete circostanze, l’esortazione apostolica post-sinodale era un documento molto atteso per conoscere le indicazioni della Chiesa dopo i due Sinodi dei vescovi sulla famiglia e la ridda di interpretazioni da parte dei vescovi favorevoli al mantenimento della disciplina attuale e di quelli che chiedevano un cambiamento radicale. Ma l’attesa di un chiarimento è stata delusa.
Alcune parti del documento papale – quelle che sono dedicate a illustrare i nuovi criteri pastorali – sono caratterizzate dall’ambiguità dell’enunciato, un’ambiguità che genera gravissimi equivoci di interpretazione proprio riguardo a ciò che Francesco vuole che sia fatto in pratica, all’atto di decidere che cosa suggerire o prescrivere ai fedeli che manifestano l’intenzione di accostarsi all’Eucaristia pur trovandosi in una situazione irregolare. I termini «misericordia», «accompagnamento» e «discernimento», pur ripetuti tante volte, non sono mai spiegati in modo da far capire se sono davvero la cifra di una nuovissima prassi (nel qual caso avrebbero ragione quelli che hanno parlato di una «novità rivoluzionaria») oppure sono semplicemente sinonimi di quello che le leggi ecclesiastiche vigenti e i documenti dell’ultimo Concilio chiamano la «carità pastorale», non diverso, sostanzialmente, da ciò che si ritrova nella dottrina teologico-pratica di un dottore della Chiesa come sant’Alfonso Maria de’ Liguori (autore tra l’altro della Praxis confessarii ad bene excipiendas Confessiones), il cui positivo riscontro pastorale è ben visibile nell’esempio dei santi (si pensi al Curato d’Ars nell’Ottocento o a padre Pio e a padre Leopoldo nel Novecento).
Per di più, l’aspra ma generica polemica del Papa contro quelli che a suo avviso sarebbero dei rigoristi dal cuore duro, dei formalisti senza carità, addirittura dei «farisei», lascia intendere che il Papa ha non solo favorito una delle due opinioni emerse nella discussione sinodale – quella dei riformisti – , ma ha anche tolto ogni credibilità a coloro che avevano presentato ponderose e documentate obiezioni alle proposte di riforma (e pensare che tra questi oppositori c’era addirittura il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede!). Per di più, avvalendosi di questa (voluta) ambiguità del documento pontificio, molti vescovi si sono precipitati a dichiarare che il Papa con questa esortazione apostolica veniva a legittimare una prassi «misericordiosa» (cioè permissiva, o meglio lassista, anzi irresponsabile) che essi già avevano consentito nelle rispettive diocesi, in disobbedienza alle leggi canoniche vigenti.
Allo stesso tempo, il cardinale americano Burke e il vescovo kazaco Schneider dichiaravano ai giornalisti che l’esortazione apostolica di papa Francesco non era da prendere come documento del Magistero, tanti erano i riferimenti dottrinali confusi o addirittura erronei che essa conteneva. Insomma, l’opinione pubblica cattolica è stata indotta a ritenere che il Papa abbia voluto abrogare la dottrina cristiana circa l’indissolubilità del matrimonio e la necessità dello stato di grazia per accedere alla Comunione. E, di fronte a questa (presunta) “rivoluzione” dogmatica, molti hanno provato sgomento, ritenendo che papa Francesco sia stato ingannato dai suoi consiglieri e abbia avallato l’eterodossia, mentre altri hanno gioito ritenendo che finalmente la Chiesa aveva messo da parte l’ortodossia dei conservatori per concedere piena libertà alle dottrine teologiche più avanzate, più consone ai nuovi tempi e alla mentalità dell’uomo di oggi.
La Chiesa, nella sua storia bimillenaria, ha vissuto tante vicende drammatiche. La storia ecclesiastica narra di diverse epoche di confusione e di scisma, persino di pontefici che con la loro condotta di vita hanno scandalizzato. Papa Francesco certamente non lo fa con la sua condotta personale, ma la dottrina teologica che egli favorisce, questa sì che scandalizza, nel senso biblico del temine, nel senso che è una “pietra di inciampo” per la fede dei semplici e disorienta le coscienze di tanti.
Questa confusione e questo disorientamento della coscienza dei comuni fedeli è il risultato – forse voluto, forse imprevisto, anche se facilmente prevedibile – dell’ambiguità strutturale del documento pontificio. Ed è il motivo per il quale io ne parlo, evidenziandone gli aspetti critici: non per mancare di rispetto al Magistero, né per prendere le parti dei conservatori contro i progressisti nella disputa ideologica che affligge la Chiesa da tanto tempo, e tanto meno per voler contrapporre alla dottrina del Papa – che dovrebbe esprimere e interpretare con autorità divina il dogma della fede – una mia opinabile dottrina teologica: ma solo per responsabilità pastorale nei confronti dei fedeli che da siffatta situazione non possono non subire danni gravissimi nella loro coscienza di fede, sia riguardo al dovere di obbedire all’autorità ecclesiastica lì dove essa comanda espressamente e lecitamente, sia riguardo al dovere di rispettare la natura divina dei segni sacramentali, evitando ogni rischio di profanazione e di sacrilegio.
A voi che siete qui presenti, laici e quasi tutti regolarmente coniugati, mi rivolgo con un accorato appello: non pensate che il documento pontifico, in materia di Sacramenti (Matrimonio, Penitenza, Eucaristia), vi obblighi a credere qualcosa di diverso da quello che avete sempre creduto, né difare qualcosa di diverso da quello che avete sempre fatto. Anzi, vi dirò di più. L’esortazione apostolica non è una nuova legge ecclesiastica: non comanda alcunché ad alcuno nella Chiesa cattolica; è, appunto, soltanto un’esortazione, un invito, un incoraggiamento, rivolto ai Pastori (vescovi e presbiteri) perché pratichino il loro ministero con attenzione alle situazioni specifiche dei loro fedeli, aiutandoli anche con la direzione spirituale personale (il “foro interno”) e sempre con spirito di misericordia. Dunque sono soprattutto i sacerdoti in cura d’anime a dover applicare al loro quotidiano servizio (catechesi e amministrazione dei sacramenti) i criteri indicati dal Papa. Sono io, e con me tutti i miei confratelli nel sacerdozio, sotto la guida del rispettivo vescovo, a dover recepire e attuare questi consigli pastorali, senza mettere da parte – nessuno me lo può chiedere, e il Papa non me lo ha chiesto – i criteri teologico-morali e le norme canoniche vigenti, ossia i criteri di base, sempre validi, con i quali ho esercitato il ministero della Confessione fino a oggi, nei miei 55 anni di sacerdozio. Questi criteri mi impediscono di fraintendere (o di intendere secondo l’interpretazione dei “riformisti e progressisti”) alcuni passi ambigui dell’esortazione apostolica, che ora leggo con voi, per poi fornirne l’unica interpretazione ammissibile dal punto di vista di una prassi sacramentaria rispettosa del dogma e dei principi morali definitivamente stabiliti dalla Chiesa.
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