“Amoris Laetitia”: Mons. Livi parla ai penitenti e ai confessori
Nello scorso mese di aprile, in onore alla schiettezza e lealtà ecclesiale di Santa Caterina da Siena, Mons. Antonio Livi ha tenuto una conferenza presso la Basilica di San Giovanni alla Porta Latina, organizzata dalla “Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis”. Pubblichiamo la trascrizione dall’orale, approvata dall’autore, nella certezza che il suo contenuto contribuirà a far chiarezza fra tanti laici (ma forse anche fra tanti sacerdoti) che oggi si sentono smarriti.
Dottrina morale e prassi pastorale nella “Amoris laetitia”
Cari amici,
mi avete chiesto di spiegare in termini semplici a voi, laici – ma vedo anche nell’uditorio dei confratelli e quindi dei confessori -, perché un sacerdote (e teologo) come me ha pubblicamente criticato, in varie occasioni e in varie sedi, l’esortazione apostolica Amoris laetitia di papa Francesco. Mi accingo dunque a spiegare a voi, con la massima schiettezza, il contenuto e le vere motivazioni ecclesiali di queste critiche, che sono naturalmente prudenti nel merito, rispettose nella forma e responsabili nelle intenzioni. Premetto, per cominciare, quello che dice la Chiesa stessa, in un celebre documento della Congregazione per la Dottrina della fede, pubblicato nel 1990 a firma dell’allora prefetto, cardinale Joseph Ratzinger:
«Il Magistero, allo scopo di servire nel miglior modo possibile il Popolo di Dio, e in particolare per metterlo in guardia nei confronti di opinioni pericolose che possono portare all’errore, può intervenire su questioni dibattute nelle quali sono implicati, insieme ai principi fermi, elementi congetturali e contingenti. E spesso è solo a distanza di un certo tempo che diviene possibile operare una distinzione fra ciò che è necessario e ciò che è contingente. La volontà di ossequio leale a questo insegnamento del Magistero in materia per sé non irreformabile deve essere la regola. Può tuttavia accadere che il teologo si ponga degli interrogativi concernenti, a seconda dei casi, l’opportunità, la forma o anche il contenuto di un intervento. II che lo spingerà innanzitutto a verificare accuratamente quale è l’autorevolezza di questi interventi, così come essa risulta dalla natura dei documenti, dall’insistenza nel riproporre una dottrina e dal modo stesso di esprimersi […]. In ogni caso non potrà mai venir meno un atteggiamento di fondo di disponibilità ad accogliere lealmente l’insegnamento del Magistero, come si conviene ad ogni credente nel nome dell’obbedienza della fede. Il teologo si sforzerà pertanto di comprendere questo insegnamento nel suo contenuto, nelle sue ragioni e nei suoi motivi. A ciò egli consacrerà una riflessione approfondita e paziente, pronto a rivedere le sue proprie opinioni ed a esaminare le obiezioni che gli fossero fatte dai suoi colleghi. Se, malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con cui è presentato. Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora contribuire ad un reale progresso, stimolando il Magistero a proporre l’insegnamento della Chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato»(Congregazione per la Dottrina della fede, Istruzione Donum veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo, 24 maggio 1990, nn. 24; 29-30).
Io conosco bene questo documento, e l’ho studiato per anni. L’ho utilizzato soprattutto per denunciare l’abuso del titolo di “teologo” da parte di chi si ribella per principio agli insegnamenti definitivi del Magistero e pretende di ri-formulare il dogma cristiano (cfr Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Leonardo da Vinci, Roma 2012). Ma ora devo rifarmi proprio a questo documento per legittimare i miei interventi critici di fronte alle tante ambiguità (nell’indirizzo pastorale) e alla evidente deriva relativistica (nella dottrina morale) che caratterizzano, purtroppo, molti gesti e molti discorsi di questo Papa e in particolare l’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia. Sono rilievi critici suggeriti sempre soltanto dalla responsabilità ecclesiale che mi impegna – come sacerdote e come teologo – soprattutto di fronte a quei fedeli che sovente manifestano in pubblico il loro turbamento e in privato mi confidano il disorientamento delle loro coscienze, pensando anche a quei fedeli che posso immaginare che siano addirittura indotti alla perdita del senso del peccato – essendo esso la coscienza di essere tutti peccatori, unitamente alla convinzione che solo la grazia sacramentale, una volta avviata la conversione interiore, può redimerci e garantirci la salvezza eterna.
Parto dal presupposto che la “nota teologica” di questo documento pontificio sia proprio quella indicata nel n. 30 della dichiarazione Donum veritatis, e quindi limito le mie critiche alla “forma” dell’esortazione e alla sua opportunità pastorale, date le premesse storico-ecclesiastiche e le conseguenze nella formazione della coscienza dei fedeli. Le premesse storiche sono molto significative: il Papa ha fatto sua una delle due opinioni formalmente espresse dai padri sinodali (quella dei cardinali Schoenborn, Marx, Baldisseri e Kasper, e dei vescovi Forte e Semeraro, tutti favorevoli a un cambiamento radicale della prassi pastorale e dei suoi presupposti dottrinali), non tenendo minimamente conto dell’opinione di quanti (come i cardinali Müller, Caffarra, Burke, De Paolis, Sarah) avevano insistentemente criticato l’ipotesi della concessione della Comunione ai fedeli in stato di pubblico scandalo per aver divorziato davanti al tribunale civile e per aver istituito una convivenza more uxorio (la quale configura canonicamente il “pubblico concubinato”), dopo aver contratto un invalido e finto nuovo matrimonio, sempre davanti al tribunale civile.
Per queste concrete circostanze, l’esortazione apostolica post-sinodale era un documento molto atteso per conoscere le indicazioni della Chiesa dopo i due Sinodi dei vescovi sulla famiglia e la ridda di interpretazioni da parte dei vescovi favorevoli al mantenimento della disciplina attuale e di quelli che chiedevano un cambiamento radicale. Ma l’attesa di un chiarimento è stata delusa.
Alcune parti del documento papale – quelle che sono dedicate a illustrare i nuovi criteri pastorali – sono caratterizzate dall’ambiguità dell’enunciato, un’ambiguità che genera gravissimi equivoci di interpretazione proprio riguardo a ciò che Francesco vuole che sia fatto in pratica, all’atto di decidere che cosa suggerire o prescrivere ai fedeli che manifestano l’intenzione di accostarsi all’Eucaristia pur trovandosi in una situazione irregolare. I termini «misericordia», «accompagnamento» e «discernimento», pur ripetuti tante volte, non sono mai spiegati in modo da far capire se sono davvero la cifra di una nuovissima prassi (nel qual caso avrebbero ragione quelli che hanno parlato di una «novità rivoluzionaria») oppure sono semplicemente sinonimi di quello che le leggi ecclesiastiche vigenti e i documenti dell’ultimo Concilio chiamano la «carità pastorale», non diverso, sostanzialmente, da ciò che si ritrova nella dottrina teologico-pratica di un dottore della Chiesa come sant’Alfonso Maria de’ Liguori (autore tra l’altro della Praxis confessarii ad bene excipiendas Confessiones), il cui positivo riscontro pastorale è ben visibile nell’esempio dei santi (si pensi al Curato d’Ars nell’Ottocento o a padre Pio e a padre Leopoldo nel Novecento).
Per di più, l’aspra ma generica polemica del Papa contro quelli che a suo avviso sarebbero dei rigoristi dal cuore duro, dei formalisti senza carità, addirittura dei «farisei», lascia intendere che il Papa ha non solo favorito una delle due opinioni emerse nella discussione sinodale – quella dei riformisti – , ma ha anche tolto ogni credibilità a coloro che avevano presentato ponderose e documentate obiezioni alle proposte di riforma (e pensare che tra questi oppositori c’era addirittura il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede!). Per di più, avvalendosi di questa (voluta) ambiguità del documento pontificio, molti vescovi si sono precipitati a dichiarare che il Papa con questa esortazione apostolica veniva a legittimare una prassi «misericordiosa» (cioè permissiva, o meglio lassista, anzi irresponsabile) che essi già avevano consentito nelle rispettive diocesi, in disobbedienza alle leggi canoniche vigenti.
Allo stesso tempo, il cardinale americano Burke e il vescovo kazaco Schneider dichiaravano ai giornalisti che l’esortazione apostolica di papa Francesco non era da prendere come documento del Magistero, tanti erano i riferimenti dottrinali confusi o addirittura erronei che essa conteneva. Insomma, l’opinione pubblica cattolica è stata indotta a ritenere che il Papa abbia voluto abrogare la dottrina cristiana circa l’indissolubilità del matrimonio e la necessità dello stato di grazia per accedere alla Comunione. E, di fronte a questa (presunta) “rivoluzione” dogmatica, molti hanno provato sgomento, ritenendo che papa Francesco sia stato ingannato dai suoi consiglieri e abbia avallato l’eterodossia, mentre altri hanno gioito ritenendo che finalmente la Chiesa aveva messo da parte l’ortodossia dei conservatori per concedere piena libertà alle dottrine teologiche più avanzate, più consone ai nuovi tempi e alla mentalità dell’uomo di oggi.
La Chiesa, nella sua storia bimillenaria, ha vissuto tante vicende drammatiche. La storia ecclesiastica narra di diverse epoche di confusione e di scisma, persino di pontefici che con la loro condotta di vita hanno scandalizzato. Papa Francesco certamente non lo fa con la sua condotta personale, ma la dottrina teologica che egli favorisce, questa sì che scandalizza, nel senso biblico del temine, nel senso che è una “pietra di inciampo” per la fede dei semplici e disorienta le coscienze di tanti.
Questa confusione e questo disorientamento della coscienza dei comuni fedeli è il risultato – forse voluto, forse imprevisto, anche se facilmente prevedibile – dell’ambiguità strutturale del documento pontificio. Ed è il motivo per il quale io ne parlo, evidenziandone gli aspetti critici: non per mancare di rispetto al Magistero, né per prendere le parti dei conservatori contro i progressisti nella disputa ideologica che affligge la Chiesa da tanto tempo, e tanto meno per voler contrapporre alla dottrina del Papa – che dovrebbe esprimere e interpretare con autorità divina il dogma della fede – una mia opinabile dottrina teologica: ma solo per responsabilità pastorale nei confronti dei fedeli che da siffatta situazione non possono non subire danni gravissimi nella loro coscienza di fede, sia riguardo al dovere di obbedire all’autorità ecclesiastica lì dove essa comanda espressamente e lecitamente, sia riguardo al dovere di rispettare la natura divina dei segni sacramentali, evitando ogni rischio di profanazione e di sacrilegio.
A voi che siete qui presenti, laici e quasi tutti regolarmente coniugati, mi rivolgo con un accorato appello: non pensate che il documento pontifico, in materia di Sacramenti (Matrimonio, Penitenza, Eucaristia), vi obblighi a credere qualcosa di diverso da quello che avete sempre creduto, né difare qualcosa di diverso da quello che avete sempre fatto. Anzi, vi dirò di più. L’esortazione apostolica non è una nuova legge ecclesiastica: non comanda alcunché ad alcuno nella Chiesa cattolica; è, appunto, soltanto un’esortazione, un invito, un incoraggiamento, rivolto ai Pastori (vescovi e presbiteri) perché pratichino il loro ministero con attenzione alle situazioni specifiche dei loro fedeli, aiutandoli anche con la direzione spirituale personale (il “foro interno”) e sempre con spirito di misericordia. Dunque sono soprattutto i sacerdoti in cura d’anime a dover applicare al loro quotidiano servizio (catechesi e amministrazione dei sacramenti) i criteri indicati dal Papa. Sono io, e con me tutti i miei confratelli nel sacerdozio, sotto la guida del rispettivo vescovo, a dover recepire e attuare questi consigli pastorali, senza mettere da parte – nessuno me lo può chiedere, e il Papa non me lo ha chiesto – i criteri teologico-morali e le norme canoniche vigenti, ossia i criteri di base, sempre validi, con i quali ho esercitato il ministero della Confessione fino a oggi, nei miei 55 anni di sacerdozio. Questi criteri mi impediscono di fraintendere (o di intendere secondo l’interpretazione dei “riformisti e progressisti”) alcuni passi ambigui dell’esortazione apostolica, che ora leggo con voi, per poi fornirne l’unica interpretazione ammissibile dal punto di vista di una prassi sacramentaria rispettosa del dogma e dei principi morali definitivamente stabiliti dalla Chiesa.
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