Avvenire - Analisi
Il flop del Giappone lezione per l’Europa che non fa figli
Pietro Saccò
2 dicembre 2014
Immaginiamo che la Germania smetta di fare la Germania. Che nella zona euro, cioè, i "falchi del rigore" si arrendano e accettino di somministrare all’Unione monetaria le cure anticrisi che in questi anni hanno sempre osteggiato.
E che a quel punto, finalmente libera dalle briglie dell’austerità, l’eurozona si lanci al galoppo in tutte quelle avventure economico-monetarie che da decine di mesi le sono negate: grandi piani di spesa pubblica per rianimare l’economia, deficit nei conti nazionali ben superiori al 3% del prodotto interno lordo, una banca centrale che stampa moneta per comprare debito pubblico e privato. Potrebbe funzionare, e la zona euro magari troverebbe una ripresa come quella degli Stati Uniti, non entusiamante ma almeno capace di ricostruire i posti di lavoro persi in questi anni.
Però potrebbe anche non funzionare, e qui il rischio sarebbe quello di fare come il Giappone, che spende soldi pubblici, stampa yen e prova anche a fare le riforme, ma alla fine è sempre più in crisi. Se in Europa Mario Draghi si è limitato a promettere che la Banca centrale europea è pronta a «qualsiasi cosa serva» per salvare l’euro, in Giappone il primo ministro Shinzo Abe e il governatore della Banca centrale Haruhiko Kuroda hanno già fatto di tutto per riportare la crescita in un’economia che ha messo in pausa il Pil ormai venticinque anni fa, quando lo scoppio della baburu keiki, la bolla speculativa nipponica, ha annientato la propensione all’investimento delle imprese e la voglia di consumi delle famiglie.