Francesco Agnoli, Case di Dio e ospedali degli uomini, Edizioni Fede & Cultura , 2011, pp. 144, € 13,50
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PREFAZIONE. Faccio volentieri la prefazione a questo libro di Francesco Agnoli perché ha il merito di richiamare un fatto dimenticato gravemente dagli addetti ai lavori, dai pazienti attuali e da quelli futuri (cioè le persone sane), insomma da tutti: gli ospedali sono nati in epoca cristiana.
C’è un perché profondo in questo, che vale anche oggi. Prima di Cristo dominava la morte: la vita era breve, durissima e, quando veniva attaccata dalla malattia, senza speranza. C’era la medicina, ma la sua arte fondamentale, che la distingueva dalla ciarlataneria, era la prognosi. La competenza dei medici si vedeva soprattutto dalla loro esperienza su come la malattia e i pazienti andavano a finire.
L’impotenza era massima, le cure praticamente inesistenti e l’assistenza trascurabile. I malati cronici e contagiosi – come i lebbrosi – venivano allontanati dalle città e abbandonati a morire soli in luoghi isolati. I romani avevano costruito i valetudinari, ma questi erano soprattutto per i soldati, abbastanza forti da sopravvivere validamente alle ferite.
Ippocrate, già cinque secoli prima di Cristo, aveva strappato la medicina ai maghi e ai sacerdoti, facendola diventare da conoscenza occulta a osservazione razionale di processi naturali. Da uomo religioso quale era, aveva introdotto un giuramento, attraverso il quale i medici si facevano responsabili delle loro azioni davanti agli déi, rispettavano la vita come valore fondamentale, si impegnavano innanzitutto a non nuocere e a non fare quello di cui non erano capaci, a rispettare il segreto professionale e a essere solidali fra loro.
Tuttavia, la novità di Ippocrate e dei suoi discepoli – alcuni mettono in discussione addirittura che costui sia veramente esistito, ipotizzando che siano esistiti solo i suoi discepoli – lungo cinque secoli, non fu in grado di dare vita a veri e propri ospedali e, nemmeno, fu molto popolare in epoca classica… fino all’insorgere del Cristianesimo, che adottò il giuramento di Ippocrate e lo fece proprio!
La Resurrezione di Cristo introdusse un’attesa e una definitiva speranza. La morte non era più l’ultima parola sulla vita.
Quest’ultima era più forte, indomabile ed eterna, in ogni caso amata da Dio. Egli stesso, infatti, aveva mandato il suo Figlio a condividere il destino dell’uomo, la sua sofferenza, la sua domanda di salvezza, cui aveva trionfalmente risposto. Così la morte e la malattia potevano essere vissute, affrontate e rischiate per lo stesso amore con cui Cristo aveva amato noi. Era possibile la carità, l’amore gratuito per l’altro, non secondo la propria convenienza, ma per il suo destino. Assistere gli ammalati poteva significare morire per aver contratto un’infezione, che era la causa più frequente dell’invalidità. Però si incominciò a fare. Come evidenzia bene questo libro, furono i monaci a cominciare ad ospitare gli sfortunati – malati e poveri rappresentavano la stessa sofferenza e ingiustizia – lungo i secoli, soprattutto gli ammalati. La carità religiosa coinvolse la società civile, i laici, i politici e i ricchi che, donando quello che possedevano, cercavano di salvarsi l’anima. Prima i conventi e poi le città furono animate dalla carità cristiana. Gli ospedali divennero maggiori e specialistici, avviandosi ad essere le realtà che conosciamo oggi. Ma sempre la carità fu la molla della dedizione dei medici, degli infermieri, dei parenti e dei volontari. Gli ospedali non sono nati perché si sapesse curare, ma per assistere, per essere presenti vicino a chi soffre e chi muore.
L’assistenza, la pura e caritatevole assistenza, è stata per secoli l’incubatrice di un progresso medico che si è sviluppato, soprattutto recentemente, con la diagnostica, la chirurgia e la farmacologia.
Adesso sembra che non ci sia bisogno della carità, ma della scienza e del diritto di operatori e di ammalati. Non è così. La stragrande maggioranza degli abitanti del mondo sono poveri, si ammalano facilmente e vivono poco.
Senza la carità dei missionari starebbero ancora peggio. Solo quest’ultima fa da argine e scuote l’indifferenza dei ricchi. Questi vivono a lungo, ma gli ultimi anni della loro vita sono tormentati dalla malattia e dall’invalidità. Hanno bisogno di qualcuno che li assista oltre l’impotenza delle medicine. Altrimenti, senza amore e senza speranza, meglio morire. Le aspirazioni all’eutanasia attiva sono una pietra tombale per i rapporti umani. La stessa medicina, salvando le vite, conserva invalidità gravi che hanno bisogno di un’assistenza diuturna e che solo in un’assistenza così possono trovare la speranza di valutazioni e rimedi più efficaci. Infine, non si può curare e assistere guardando l’orologio, tutti abbiamo bisogno di un minuto in più; un minuto nel quale il rapporto tra malato, medico e infermiere acquista significato, diventa fattore di speranza per sé e per tutti.
In fondo gli ospedali di oggi, per essere veramente tali, cioè corrispondenti al bisogno di chi vi cerca ricovero, necessitano dello stesso impeto degli ospedali di una volta. La medicina moderna guarisce ma, curando meglio, produce essa stessa ammalati e invalidi cronici. Malattia e morte possono venire nascoste sotto lo scintillio delle apparecchiature e delle tecniche più sofisticate, ma non per questo sono meno gravi e drammatiche. Tutti ci siamo passati, o magari indirettamente e sicuramente ci passeremo in modo diretto.
Malattia e morte sono il segno della radicale inadeguatezza dell’uomo a salvarsi. L’ospedale, rispondendo al bisogno di salute, deve rispondere a un bisogno che è di tutta la persona e non solo dei suoi meccanismi biologici. Altrimenti a che vale curare? "Lunga agonia è la vita", diceva Shakespeare.
Giancarlo Cesana
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