Commento al Vangelo – XXIV Domenica del Tempo Ordinario
Devo perdonare una volta sola?
Il problema del perdono è complesso. La legge antica dava all’offeso il diritto di vendicarsi. Il Vangelo prescrive il dovere di perdonare le offese e glorifica chi lo fa. Ora, quali sono i limiti? Fino a che punto deve esser prodiga la nostra misericordia?
Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP
fondatore degli Evangeli Praecones
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"In quel tempo, 21 Pietro gli si avvicinò e gli disse: "Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?". 22 E Gesù gli rispose: "Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette. 23 A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. 24 Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. 25 Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito.
26 Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa!’. 27 Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito.
28 Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi!’. 29 Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito!’. 30 Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.
31 Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32 Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. 33 Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?’. 34 E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto.
35 Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello’" (Mt 18, 21-35).
I – Invito alla bontà, mansuetudine e clemenza
Si osserva con frequenza in alcune persone, quando intraprendono le vie della pratica della virtù, la tendenza a cercare una regola precisa che garantisca loro la salvezza. Spiriti pragmatici, si sentono interamente sicuri solo cercando di avere sotto il loro controllo la propria vita spirituale, senza dipendere da altri e, probabilmente, nemmeno dalla grazia divina.
Vorrebbero ottenere meriti soprannaturali più o meno come chi destina denaro in banca, con la garanzia che renderà una determinata somma ogni mese. Così come le occupazioni fisse e manifeste conferiscono stabilità alla nostra esistenza terrena, esse desiderano lo stesso per l’ottenimento della vita eterna.
Nessuno può conoscere con certezza il suo stato d’animo
Nemmeno il più saldo e virtuoso degli uomini può però evitare un briciolo di insicurezza riguardo il suo stato d’animo. A questo riguardo, solo Dio conosce con certezza la situazione di ciascuno; pertanto, nessuno può ritenere di essere senza dubbio nella grazia divina, come spiega il Dottor Angelico: "Uno non può sapere, con certezza assoluta, di possedere la grazia, secondo la prima Lettera ai Corinzi: ‘Non mi giudico da me stesso. Chi mi giudica è il Signore’" (1).
Un commovente fatto storico illustra questa realtà. Quando Santa Giovanna d’Arco affrontava il processo orchestrato contro di lei, uno degli inquisitori – Jean Beaupère, maestro dell’Università di Parigi – le fece una domanda insidiosa: "Sei in stato di grazia?" (2). Se avesse risposto affermativamente, sarebbe stata biasimata per il fatto di contrariare la dottrina cattolica; se avesse negato, avrebbe dato pretesto alla malevolenza dei suoi accusatori. La giovane pastora, invece, affrontò in maniera perfetta la capziosa questione, come avrebbe fatto il più esperto teologo: "Se non lo sono, che Dio mi vi introduca; se lo sono, che Dio mi ci conservi" (3).
Ora, questa salutare insicurezza quanto alla salvezza diverge dalla mentalità orgogliosa e pragmatica dei farisei dell’epoca di Nostro Signore, che avevano elaborato centinaia di regole il cui semplice compimento, essi credevano, rendeva la persona giustificata davanti a Dio. Concepivano la Religione come un contratto, nel quale a loro toccava osservare con precisione questo elenco di precetti esteriori, e a Dio premiare chi li osservasse, qualsiasi fossero le loro disposizioni interiori.
Come vedremo più avanti, San Pietro, formulando la domanda trascritta all’inizio del Vangelo di oggi, mostra di essere influenzato in certa misura da questo modo di pensare. Perché la psicologia umana è costituita in modo tale che ognuno tende a giudicare normale l’ambiente dove è nato e vive, di conseguenza l’uomo si adatta con facilità persino alle maggiori contingenze e avversità che incontra nella vita di tutti i giorni.
Il concetto di giustizia all’epoca di Nostro Signore
Nel corso del ciclo liturgico, la Chiesa ci mostra differenti aspetti degli infiniti attributi di Dio, per meglio conoscerLo, amarLo e imitarLo. In questa 24ª Domenica del Tempo Ordinario, il Vangelo ci invita alla bontà, alla mansuetudine e alla clemenza: dobbiamo essere buoni come Egli è buono, compassionevoli come Egli è compassionevole, clementi come Egli è clemente. "Imparate da me, che sono mite e umile di cuore" (Mt 11, 29), ci esorta Gesù.
Per meglio comprendere il passo proposto oggi dalla Chiesa alla nostra considerazione, dobbiamo aver ben presente quanto l’odio, il desiderio di vendetta e l’incapacità di perdonare imperversavano nelle civiltà precedenti alla venuta del Signore Gesù.
Il concetto di giustizia vigente nell’Oriente biblico si fondava sulla Legge del Taglione, secondo la quale il criminale doveva esser punito taliter, cioè con rigorosa reciprocità in relazione al danno inflitto: "Occhio per occhio, dente per dente" – tale il crimine, tale la pena. Vale la pena notare che questo principio legale mirava anche a mitigare i costumi violenti dei popoli antichi, dove la rappresaglia era la regola e, in generale, provocava un danno maggiore di quello dell’offesa (4). Vigendo il costume di fare giustizia con le proprie mani, prevaleva sempre il più forte e il perdono era visto come segno di debolezza.
Nell’antica Mesopotamia, per esempio, "le pene erano atti di vendetta e raramente bastava tagliare la testa; troviamo spesso, soprattutto in Assiria, il supplizio del palo e lo scorticamento. Si lasciava insepolto il cadavere, perché servisse da lezione. Per delitti di minor valore, era all’ordine del giorno tagliare la mano, il naso, le orecchie, strappare gli occhi. Il debitore insolvente restava schiavo perpetuo del creditore, il quale poteva venderlo o utilizzarlo a suo servizio" (5).
Consideriamo in questa prospettiva il passo del Vangelo di oggi.