di Luciano Piacentini e Claudio Masci*
La rivoluzione islamica iraniana avvenuta nel 1979 trasformò il regime dello Scià – una monarchia costituzionale, ma in pratica con potere assoluto – in una repubblica islamica, con una costituzione fondata sulla legge coranica (sharia). Tutte le forze di opposizione al monarca – di ispirazione religiosa, nazional-liberale e marxista – si riunirono intorno alla figura carismatica dell’Ayatollah Khomeini ed i suoi mujaheddin riuscirono a fagocitare i Fedayn-e Khalq (volontari del popolo) d’ispirazione marxista, che avevano avviato la guerriglia, coinvolgendo nella lotta sempre più ampi strati della popolazione per allargare le basi della protesta.
Le forze di sinistra ritennero, erroneamente, che il Paese fosse laico e moderno e che l’applicazione della sharia fosse un’ipotesi lontana dal potersi realizzare. Ma il clero sciita divenne in breve tempo l’unico riferimento della rivolta, esautorando tutti i gruppi di ispirazione politica-laica.
L’ascesa al potere di Khomeini esaltò la minoranza sciita del Golfo (area est e nord-est della penisola araba) nella quale la rivoluzione khomeinista creò un forte entusiasmo per l’Iran, primo paese islamico in cui gli sciiti erano riusciti ad ottenere la supremazia.
I nuovi dirigenti di Teheran, traendo vantaggio dal loro entusiasmo, li invitarono a rovesciare il potere delle locali monarchie sunnite.
Allo scopo furono costituiti vari gruppi estremisti sciiti che compirono attentati seguendo gli alti e bassi delle relazioni politico-diplomatiche fra Iran ed Arabia Saudita.
Inoltre, l’Iran estese la sua area di influenza in Siria e Libano e tentò di fare altrettanto nelle repubbliche islamiche (allora) sovietiche, cercando di diffondere i principi della sua rivoluzione.
Questi intenti non potevano lasciare indifferenti i leader sunniti dell’area, soprattutto l’Arabia Saudita, che non intendeva concedere campo libero alla diffusione delle ideologie teocratiche sciite, anche in considerazione che sul proprio territorio ospitava da lungo tempo una nutrita colonia di sciiti, stabilitasi nell’area fin dai secoli immediatamente successivi alla nascita dell’Islam e fino ad allora tollerata, considerata eretica ed emarginata.
La nascita della Repubblica islamica avviò, pertanto, la competizione con l’Arabia Saudita per l’egemonia del mondo musulmano. Il contenzioso si è sviluppato quasi in maniera silente per decenni fino ad esplodere nel 2014 con la costituzione dell’IS in risposta alla rimozione di una serie di sanzioni, ultime quelle sul nucleare, fino ad allora imposte all’Iran.
Esaminando gli eventi più importanti – articolati in decenni – si riscontrano strategie parallele fra le due principali confessioni islamiche finalizzate alla realizzazione di uno “stato islamico globale”, l’una (Iran) attraverso l’imamato, l’altra (Arabia Saudita) mediante il califfato.
I sanguinosi anni ’80
Nel decennio 1979 – 1989 si assistette a:
a. tentativi di esportazione della rivoluzione islamica nel mondo, attuata dalla Suprema Assemblea Iraniana della Rivoluzione Islamica (SAIRI), inizialmente in Iraq con la costituzione del Supremo Consiglio Islamico per la Rivoluzione in Iraq (SCIRI) e in varie aree dell’Africa centro-settentrionale e delle Repubbliche sovietiche con popolazioni mussulmane. Queste iniziative contribuirono non poco a diffondere l’islamismo (il termine sta ad indicare un insieme di ideologie secondo le quali la religione islamica debba guidare la vita sociale, politica e personale di tutti. Si tratta di una concezione essenzialmente politica dell’Islam ed il termine non va utilizzato come sinonimo di islamico che si riferisce alla sola sfera religiosa) inteso come trasfusione ed asservimento della religione islamica in dottrine politiche;
b. sanguinosa guerra dell’Iraq con l’Iran che si protrasse fino al 1988 e ridimensionò le velleità iraniane di diffondere la dottrina sciita nelle aree limitrofe;
c. sanguinosi attentati con auto esplosive condotte da terroristi suicidi sciiti contro ambasciate francesi, statunitensi ed israeliane in varie aree geografiche e sequestri di cittadini occidentali con richiesta di riscatti;
d. tentativi di penetrazione della dottrina sciita nelle repubbliche sovietiche con minoranze mussulmane, documentati anche da una lettera di Khomeini a Gorbaciov, del 1989, in cui la Guida della rivoluzione iraniana ricordava al sostenitore della perestroika, ancora alle prese con l’occupazione dell’Afghanistan, invaso dieci anni prima, la superiorità dell’Islam non solo come religione ma anche come modello politico e sociale. Convinto che la caduta del comunismo sarebbe stata imminente, il vecchio ayatollah lanciò a Gorbaciov un invito dai toni di un monito: il popolo sovietico, dopo il tramonto del materialismo ideologico, non avrebbe dovuto rivolgersi verso il “nulla dell’Occidente” ma verso la “spiritualità dell’Islam”.
Khomeini considerava, infatti, Est e Ovest le facce di un “satana” bifronte, due concezioni del mondo che si combattevano in nome di ideologie universaliste con radici nella stessa originaria cultura, con il primato della tecnica e con la medesima volontà di potenza. Per il leader della rivoluzione iraniana, l’Islam rappresentava la “terza via” tra Est e Ovest. E se la Russia non avesse saputo cogliere questa verità, allora sarebbe stata la Repubblica islamica iraniana, “bastione dell’ Islam nel mondo” a riempire quel vuoto. «E’ chiaro come il cristallo – concludeva Khomeini – che l’Islam erediterà le Russie…»;
e. invasione sovietica dell’Afghanistan (dicembre 1979) favorita dal Partito Democratico Popolare Afghano (PDPA) di stampo marxista-leninista, strettamente collegato con i sovietici, all’interno del quale si erano verificate faide mortali. La guerriglia dei gruppi islamici, scoppiata in seguito alla promulgazione della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, indusse il PDPA a richiedere l’intervento sovietico per mantenerla in piedi. L’invasione dell’URSS provocò reazioni a livello internazionale ed in particolare di Gran Bretagna e Stati Uniti.
La guerra ai sovietici in Afghanistan
Le varie fazioni di guerriglieri inizialmente autonome, nel 1985 furono riunite sotto un comitato, denominato “Peshawar 7”, composto da:
• Hezb-e Islami Gulbuddin (“Partito islamico di Gulbuddin”) – HIG – con al vertice Gulbuddin Hekmatyar, marxista leninista convertitosi all’estremismo islamico;
• Hezb-e Islami Khalis (“Partito islamico di Khalis”) – HIK – ala scissionista del HIG di Hekmatyar, gruppo di mullah e ulema capeggiato da Mohammad Yunis Khalis, forte tra i pashtun, di cui faceva parte la “Rete Haqqani”, struttura alquanto autonoma costituita da Jalaluddin Haqqani, dotto islamico altamente qualificato con studi completati presso una madrasa deobandi;
• Jamiat-i Islami (“Società islamica”) – JIA – condotto da Burhanuddin Rabbani, in cui militava Ahmad Massud meglio conosciuto come «leone del Panshir» ucciso in circostanze rimaste misteriose il 9 settembre del 2001;
• Ettehad-e Islami (“Unione islamica”) – IUA – in rapporti con i gruppi wahabiti della Fratellanza Musulmana;
• Jehb-e Nejad-i Melli Afghanistan (“Fronte di Liberazione Nazionale dell’Afghanistan”) – ANLF – movimento di piccole dimensioni che annoverava intellettuali, uomini di stato e ufficiali del precedente regime afghano;
• Mahaz-e Melli Islami (“Fronte Islamico Nazionale per l’Afghanistan”) – NIFA –strutturato come una setta più che partito politico, con molti sostenitori tra i pashtun di Kandahar;
• Harakat-e Inqilab-e Islami (“Movimento Islamico Rivoluzionario Armato”) – IRMA – cui aderirono molti mullah che avevano un largo seguito popolare e una diffusa presenza sul territorio, soprattutto nelle aree pashtun.
A queste fazioni il Pakistan, con a capo il generale Zia-ul-Haq, per timore di un’ulteriore escalation sovietica verso i confini del proprio Paese, affiancò unità organizzate, denominate “Reggimenti islamici”, composte da giovani estremisti islamici addestrati militarmente in campi pakistani.
Il Pakistan divenne così il “santuario della guerriglia”, dove furono radunati truppe e rifornimenti per i mujaheddin sunniti, ponendoli fuori dall’area di operazioni dei sovietici.
I gruppi guerriglieri, per tutta la durata del conflitto, furono sostenuti da Arabia Saudita, Pakistan, Stati Uniti, Regno Unito, e Cina per conseguire differenti obiettivi: Arabia Saudita, Pakistan, Staiti Uniti e Regno Unito accomunati dalla preoccupazione di un’ulteriore avanzata dell’URSS verso l’Oceano Indiano, direttrice strategica da sempre perseguita dalla Russia zarista ne “Il Grande Gioco” ed ulteriormente ambita dal comunismo internazionalista.
La Cina fornì armi leggere, lanciarazzi e carri armati ai mujaheddin operanti nel nord-est, ricevendone in cambio assicurazione della cessazione di qualsiasi aiuto alla guerriglia islamica degli uiguri dello Xinjiang (regione autonoma della Repubblica Popolare Cinese – punta estrema dell’occidente cinese verso l’Asia centrale – ove gli uiguri costituiscono il 46% della popolazione – e snodo centrale per l’approvvigionamento di idrocarburi dall’Asia Centrale).
L’Arabia Saudita, principale finanziatore, impegnò anche il suo servizio segreto nell’addestramento di combattenti volontari, provenienti da tutto il mondo islamico, stimati intorno alle 20.000 unità e nel loro indottrinamento al wahabismo.
Per il loro controllo e con il compito di convogliare in Afghanistan denaro, armi e combattenti provenienti da tutto il mondo arabo, fu costituita a Peshawar, nel 1984, sotto la direzione dell’ISI (Inter-Services Intelligence il servizio segreto pakistano), la Maktab al-Khidamat – Ufficio Servizi (MAK) – gestita dall’attivista palestinese Abd Allah Yusuf Azzam e finanziata dal miliardario saudita Osama bin Laden indicato, all’epoca, al servizio dell’apparato di sicurezza saudita.
L’Iran, intenzionato ad esportare la propria rivoluzione in seno agli sciiti dei Paesi limitrofi – in primis fra gli Hazara stanziati nell’area nord ovest dell’Afghanistan (provincia di Herat), confinante con l’Iran stesso – costituì e finanziò due propri gruppi: lo Shura-i Inqilabi (“Consiglio rivoluzionario”) e Sazmar-i Nasr (“Organizzazione per la vittoria”), anche perché gli Hazara non furono inclusi nel comitato “Peshawar 7”. Ad essi il governo di Teheran fornì armi e rifornimenti, aprendo anche il suo territorio alle unità di guerriglieri in fuga dai rastrellamenti sovietici;
f. alla costituzione, nel 1988, di Al-Qaeda o (Qaida) – “la Base” – mediante la trasformazione del Maktab al-Khidamat, Ufficio Servizi (MAK), ad opera di Osama bin Laden che aveva incontrato e stretto rapporti con Hamid Gul, generale dell’esercito pakistano e capo dell’ISI.
In tal modo il MAK si trasformò in una struttura paramilitare, islamista sunnita – manovrata dagli apparati intelligence di Pakistan ed Arabia Saudita – nella quale si amalgamarono le ideologie politiche riconducibili al fondamentalismo islamico più oltranzista ed ispirate da wahabismo (Osama bin Laden), fratellanza mussulmana (Ayman al-Zawahiri) e salafismo (Abd Allah Yusuf Azzam).
In seno all’organizzazione, Abd Allah Azzam – che ne era l’ideologo – esortava ed indottrinava gli estremisti islamici reclutati alla realizzazione del califfato globale – vecchio cavallo di battaglia dell’ISI e dell’apparato militare pakistano – e la costituzione di al Qaeda era finalizzata a realizzare questo obiettivo.
Secondo l’ideologia jihadista il califfato universale doveva essere costituito attraverso “la jihad”, cominciando con la realizzazione di califfati regionali che sarebbero diventati poi poli di attrazione per i paesi confinanti.
Nei nove anni di guerriglia contro l’Unione Sovietica, l’ISI venne incaricato di amministrare e distribuire fondi ed armi ai citati gruppi guerriglieri che però elargiva – in abbondanza e con particolari attenzioni intelligence – solo in favore di quei leader suoi più fedeli collaboratori, fra cui spiccavano in particolare le organizzazioni di: Osama bin Laden, Gulbuddin Hekmatyar e Jalaluddin Haqqani, strumenti indispensabili per gestire le “linee guida” della politica pakistana in Afghanistan ed in Kashmir, nonché per esercitare il controllo nelle famigerate “aree tribali”, a cavallo della frontiera afghana-pakistana, irriducibili nemiche di ogni forma di amministrazione statuale.
Inoltre, mentre USA, Arabia Saudita ed altri paesi sostenitori della guerriglia fornirono denaro ed armi, la formazione dei gruppi guerriglieri fu interamente appannaggio delle forze armate pakistane e dell’ISI, che ovviamente ne manipolarono a proprio piacimento leader e strategie.
La fine del 1989 segnò:
a. la cacciata dei sovietici dall’Afghanistan nel mese di febbraio e l’avvio di una turbolenta fase di gestione governativa del Paese in quanto l’abbandono dei sovietici invece di provocare il crollo della Repubblica Democratica indusse i comunisti afghani a combattere contro i vari gruppi di estremisti islamici.
Mohammad Najibullah, esponente di spicco del PDPA – già capo del KHAD (nel 1980), l’equivalente afgano del KGB, che sotto la sua guida divenne uno degli organi governativi più brutalmente efficienti – nel novembre del 1986 venne eletto Presidente della Repubblica Democratica.
Najibullah ricercò un compromesso con i mujaheddin che, memori dei trascorsi del Presidente, non lo accettarono e continuarono la lotta.
Il governo comunista divenne ancora più duro e determinato nell’opera di repressione per aver visto, nel marzo 1989 a Jalalabad, un camion carico con corpi di compagni comunisti smembrati e tagliati a pezzi dopo che si erano arresi a salafiti non afghani (alcune fonti indicano al Qaeda), smaniosi di mostrare al nemico il destino che avrebbe atteso gli infedeli.
La devastazione di Jalalabad avvenne ad opera dei due partiti islamici Hezb-e-Islami, quello di Yunis Khales e quello di Hekmatyar che si trovava alla conferenza islamica di Riyadh per sollecitare i riconoscimenti del governo provvisorio afghano. Lo scempio di quei corpi innescò la guerra civile che si protrasse fino al 1992, quando i mujaheddin conquistarono Kabul, abbatterono la Repubblica Democratica ed instaurarono lo Stato Islamico dell’Afghanistan;
b. la prosecuzione della guerra civile in Afghanistan per la lotta di potere: in sostanza tutta la guerriglia contro i sovietici, che era stata condotta a livello locale dai “signori della guerra” con un sofisticato supporto esterno capeggiato da Pakistan ed Arabia Saudita, proseguì con la guerra civile fra le varie fazioni di mujaheddin che controllavano l’80% del paese e tutelavano i rispettivi interessi clanici.
La situazione di estrema instabilità si protrasse fino al 1994 allorquando comparvero sulla scena afghana i Talebani, studenti indottrinati per anni nelle madrase deobandi dell’area pakistana, specie quella delle “zone tribali”, sostenuti militarmente e finanziariamente da Pakistan ed Arabia Saudita.
Costoro, per lo più afghani, molti dei quali orfani dalla guerra, erano stati educati nella rete delle scuole islamiche (madrasa prevalentemente attestate sulla dottrina Deobandi) sia a Kandahar sia nei campi profughi al confine afghano-pakistano.
La dottrina deobandi sorse all’interno dell’islam sunnita nel 1867 nella città di Deoband – in India dove fu costituita la scuola Darul Uloom Deoband – come reazione al colonialismo britannico. Il movimento concepiva un’India indipendente – ancorché multiconfessionale – e si opponeva al “Movimento per il Pakistan” che auspicava la separazione fra gli induisti ed i mussulmani e l’esodo di questi ultimi verso il Pakistan.
Incentrata prevalentemente in India, si è poi diffusa in Pakistan, Afghanistan e Bangladesh subendo una forte influenza wahabita per finanziamenti dell’Arabia Saudita e di facoltosi arabi dell’area del Golfo. Circa il 20 per cento dei musulmani sunniti del Pakistan sono considerati deobandi e quasi il 65% dei seminari (madrasa) pakistani sono gestiti da deobandi.
La dottrina deobandi ha estremizzato ancor di più le teorie salafite, rifiutando ogni forma di dialogo con il colonialismo e con la revisione filosofica dell’islam, ancorandosi alla diretta interpretazione del Corano e dedicando, nelle loro madrase, una particolare attenzione allo studio degli Hadith (“racconti, narrazioni”, “aneddoti” di alcune righe sulla vita del profeta Maometto, inseriti in sei raccolte di fondamentale importanza perché sono parti costitutive della cosiddetta Sunna, la seconda fonte della Legge islamica (Sharia) dopo lo stesso Corano).
Molti dei mussulmani influenti (professori, uomini politici, militari ecc.) dell’India e del Pakistan sono ispirati dalle teorie deobandi. Secondo Ahmed Rashid, scrittore pakistano, i maggiori leader dei talebani erano laureati di Darul Uloom Haqqania, una madrasa deobandi nella piccola città di Akora Khattak situata vicino a Peshawar in Pakistan.
I nuovi jihadisti, dopo una serie di vittoriosi scontri con i “signori della guerra” e le residue forze della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, il 26 settembre 1996 occuparono la sede del governo e fondarono l’Emirato Islamico dell’Afghanistan;
c. il ritorno nelle rispettive aree di provenienza degli elementi di Al Qaeda, la cosiddetta “prima generazione di qaedisti o jihadisti”, cioè coloro che avevano combattuto in Afghanistan contro i russi. Costoro vagheggiavano la realizzazione, nei rispettivi paesi di origine, di un movimento finalizzato alla costituzione di uno stato islamico.
Il diffondersi del jihadismo
Infatti, a partire dal 1990, si assiste alla formazione di una serie di gruppi jihadisti nella fascia tropicale dal Marocco alle Filippine fra cui:
• il Gruppo Islamico Armato (GIA) algerino;
• il Movimento della Tendenza Islamica in Tunisia che viene infiltrato dai reduci afghani e disciolto nel 1991;
• la Repubblica Cecena di Ichkeria, entità statuale non riconosciuta, costituita dal governo separatista ceceno e proclamata dal leader secessionista ceceno D?okhar Dudaev nel 1991;
• il gruppo Abu Sayyaf, costituito nei primi anni novanta da Abdurajak Janjalani, cittadino filippino musulmano che aveva combattuto nella “Brigata Internazionale Musulmana” in Afghanistan;
• la Jemaah Islamiyha che nel 2002 iniziò ad operare in Thailandia ed Indonesia.
Lo stesso Bin Laden (a sinistra in Afghanistan nel 1984) tornò in Arabia Saudita nel 1990 ove fu accolto come un eroe per aver liberato un paese islamico dagli atei sovietici. Questo idillio però durò ben poco. L’invasione irakena del Kuwait, nell’agosto 1980, spinse Bin Laden ad incontrare re Fahd e il principe Sulṭan, Ministro della difesa saudita, offrendosi di aiutare a difendere l’Arabia Saudita con la sua “legione araba” invece che con l’aiuto degli Stati Uniti.
L’offerta venne respinta ed il dispiegamento delle forze statunitensi sul territorio saudita spinse Bin Laden a denunciare pubblicamente la completa dipendenza militare saudita dagli “infedeli”. Da quel momento in poi si rivolgerà all’Arabia Saudita come regime traditore dei mussulmani che, nel 1992, gli tolse la cittadinanza e lo costrinse all’esilio in Sudan.
Ma anche da qui proseguì nella sua predica contro i regimi mussulmani corrotti e contro l’Occidente, continuando ad alimentare finanziariamente i resti della sua “Brigata Internazionale Musulmana” in Afghanistan.
Costretto a lasciare anche il Sudan, nel 1996 tornò in Afghanistan, a Jalalabad, e pose al Qaeda al servizio del mullah Mohammed Omar proclamatosi capo dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, riconosciuto da: Pakistan, Arabia Saudita Ed Emirati Arabi Uniti.
La costituzione dell’Emirato islamico afghano, attuata secondo gli schemi indicati da Abd Allah Azzam e favorita dalla politica strategica di Pakistan ed Arabia Saudita, rappresentò il primo embrione di califfato globale e fu la prima risposta ai tentativi di esportazione della rivoluzione della Repubblica islamica iraniana nell’area.
L’era di al-Qaeda
Il connubio al Qaeda-Talebani rinvigorì l’ideologia di al Qaeda che a partire dall’agosto 1998 avviò il “concetto operativo” per la realizzazione del califfato globale con i due attentati simultanei contro le ambasciate americane di Nairobi (Kenia) e Dar es Salaam (Tanzania). Nell’ottobre del 2000, seguì l’attacco con un’imbarcazione carica di esplosivo pilotata da un terrorista – di matrice jihadista – suicida contro il cacciatorpediniere “Cole”, ormeggiato nel porto di Aden, uccidendo 17 marinai. Il nefasto preludio si conclude con glòi attacchi dell’11 settembre 2001, che provocarono oltre 3.000 morti.
Questa prima fase fu condotta da Osama bin Laden che, con il suo “fronte islamico internazionale”, intendeva costituire il vagheggiato califfato globale di Azzam e dei suoi mentori pakistani, sterminando gli ebrei ed i cristiani. Gli sciiti, peraltro da sempre considerati fazione scismatica dell’islam, non erano ancora nel mirino dei terroristi in quanto la madre di Osama era siriana e di confessione alauita, uno scisma sciita.
Dopo l’11 settembre del 2001 la successiva polverizzazione di Al Qaeda, seguita al conflitto che debellò il regime dei Talebani, favorì:
a. la diaspora jihadista che prese la via del Maghreb, del Sahel, della penisola arabica e del Caucaso – in particolare della Cecenia, divenuta ormai terra d’Islam da difendere dalla Russia – dando vita alla costituzione di:
Jemaah Islamiah “Congregazione islamica” (JI), gruppo terroristico legato ad al-Qaeda e militante nel Sudest asiatico che si prefiggeva la costituzione di un califfato islamico regionale, assurto alle cronache il 25 ottobre 2002, dopo aver perpetrato la strage di Bali (Indonesia). L’attentato avvenne il 12 ottobre 2002 ad opera di attentatori suicidi che fecero detonare ordigni esplosivi nella zona turistica dei locali notturni di Kuta. JI attualmente è una organizzazione transnazionale con cellule in Thailandia, Singapore, Malesia e Filippine, nonché con legami con il Fronte Islamico di Liberazione Moro;
Al Qaeda in Iraq, costituita alla fine del 2004 da Abu Musab al-Zarqawi (nella foto a sinistra) che promise fedeltà a Osama bin Laden. Il suo gruppo, al-Tawhid wal-Jihad – già associato ad Al Qaeda – divenne noto come Al-Jama’at al-Tawhid waal-Jihad o meglio al-Qaeda in Iraq (AQI) e a Zarqawi fu dato il titolo di “Emiro di Al Qaeda nel Paese dei Due Fiumi”.
Nel settembre del 2005 AQI, sotto la guida di Zarqawi, dichiarò “guerra totale” agli sciiti in Iraq. Il cambiamento, peraltro criticato dai vertici di Al Qaeda (Osama era ancora vivo), avvenne dopo l’offensiva – contro gli insorti della città sunnita di Tal Afar – delle truppe irachene inviate dall’Assemblea Nazionale transitoria irachena. Tale struttura era già pilotata da Nuri Kamil al-Maliki, sciita, che nel dicembre 2005 diventò Primo Ministro del nuovo governo irakeno, istituito dopo l’abbandono dell’Iraq da parte degli USA;
Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), sorta nel 2005 quando il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, guidato dall’emiro Abdelmalek Droukdel – gruppo jihadista nato negli anni novanta, nell’ambito della guerra civile algerina, con lo scopo di costituire in Algeria uno stato islamico – si è affiliato ad al-Qaeda, rinominandosi AQMI;
Emirato del Caucaso, noto come Emirato caucasico – sedicente entità statale, autoproclamatasi successore della Repubblica cecena di Ichkeria – sorto il 31 ottobre 2007 ad opera di Dokka Umarov, ex capo dell’Ichkeria e proclamatosi primo emiro, dotato di un braccio militare rappresentato dal Fronte Caucasico;
Al Qaeda nella Penisola Araba (AQAP), conosciuta nello Yemen come Ansar al-Sharia, organizzazione jihadista che opera principalmente nello Yemen e in Arabia Saudita. Gruppo di matrice jihadista salafita formatosi nel 2009 con la fusione di cellule qaediste yemenite e saudite, attualmente con a capo l’emiro Qasim al-Raymi.
L’eloquente cartina di Limes sotto riportata, evidenzia a chiare note la strategia per la costituzione del califfato globale – ad opera della propaganda ideologica jihadista – composta da wahhabismo, ancorato al rispetto integrale ed ortodosso della sharia; salafismo, movimento anticoloniale che trae forza da sentimenti antioccidentali; corrente scissionista e rivoluzionaria dei Fratelli Mussulmani di Al Zawahiri.
Questa iniziale ideologia terroristica fu cementata dai Talebani, con i quali Al Qaeda si era indissolubilmente legata e che si erano abbeverati per anni agli insegnamenti delle madrasa deobandi pakistane.
Tali scuole coraniche erano e sono tuttora prepotentemente ispirate dall’organizzazione Ahi al-Hadith che persegue la “linea dura” del salafismo, predicando il disprezzo dei valori occidentali e l’odio dei musulmani per ebrei, cristiani e indù, invitando i suoi adepti a spargere il sangue degli infedeli per la gloria di Allah, “assioma” cha ha “imbarbarito” l’ideologia qaedista.
Nel medesimo periodo della guerriglia sunnita in Afghanistan, l’esportazione della Rivoluzione Islamica Iraniana rimaneva impantanata nella guerra Iran-Iraq dal settembre 1980 all’agosto 1988, riuscendo solo a costituire lo SCIRI –Supremo Consiglio Islamico per la Rivoluzione in Iraq (gruppo di opposizione armata al dittatore iracheno Saddam Hussein) e a realizzare una solidissima alleanza con gli Alauiti siriani e con gli Hezbollah libanesi sia in funzione anti israeliana, sia nella prospettiva strategica di soggiogare l’Iraq e realizzare una mezzaluna sciita dal Golfo Persico al Mediterraneo.
Le pretese ideologiche khomeiniste verso la Russia ed in primis verso il Caucaso, trovarono immediatamente un freno alla loro espansione nell’”Islam di Stato” di stampo sunnita, ancorché burocratico e controllato dalle risorse distribuite dal partito comunista dell’URSS.
Infatti, quelle repubbliche sovietiche con popolazione musulmana nelle quali lo sciismo sperava di espandersi erano controllate da confraternite che avevano reso inutili i commissari politici travestiti da muftì e dato vita ad un islam sunnita parallelo, incontrollabile e ben radicato, soprattutto in Daghestan e in Cecenia-Inguscezia, che furono subito preda della diaspora qaedista.
Inoltre l’Iran, a partire dalla fine degli anni ’80, fu costretto ad assumere un basso profilo sul piano internazionale fino al 2014 a causa di una serie di sanzioni, dapprima per la sua azione di supporto al terrorismo (1983-1992) e successivamente, dal 1994 al 2014, per frenarne la corsa al nucleare.
Infatti nel 1995, previ accordi con la Russia, l’Iran iniziò la costruzione del reattore di Bushehr, inaugurato il 21 agosto 2010.
Nel 2002 il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, guidato dal movimento dissidente Mojahedin-e Khalq (MEK) annunciò durante una conferenza stampa a Washington D.C. che la Repubblica degli Ayatollah stava costruendo nei pressi della città di Natanz un impianto segreto per l’arricchimento dell’uranio.
La nuova trasgressione comportò all’Iran nel 2010 l’imposizione di ulteriori e più pesanti sanzioni internazionali.
La guerra civile siriana, scoppiata nel 2011 tra le forze governative e quelle dell’opposizione – nonché situata nel più ampio contesto delle primavere arabe – ha visto l’inserimento nel contenzioso di forze qaediste supportate da Pakistan ed Arabia Saudita per far cadere il regime siriano di Bashar Al Assad e vanificare il disegno strategico della mezzaluna sciita vagheggiato dall’Iran.
La Siria – che costituisce il più recente dei molteplici terreni di scontro, fra sciiti e sunniti, sul quale l’Arabia Saudita è impegnata a mantenere la propria influenza – rappresenta il più feroce scontro interreligioso per sostenere il quale Riyadh necessita di uno dei più stretti alleati di cui disponga: il Pakistan.
I rapporti tra i due Paesi risalgono agli anni Sessanta, quando l’Arabia ottenne l’assistenza militare pakistana per accrescere le limitate capacità delle sue forze di sicurezza nazionali.
Negli anni successivi, le relazioni bilaterali furono progressivamente rafforzate, grazie alla complementarietà degli interessi dei due Paesi: la monarchia saudita, in quanto custode dei più importanti siti religiosi dell’Islam, offriva al Pakistan la legittimazione religiosa ed i proventi derivanti dalla vendita del petrolio per il sostegno della fragile economia pakistana.
Riyadh riceveva in cambio il supporto di uno dei più importanti apparati militari della regione, senza dover necessariamente provvedere al rafforzamento delle proprie forze armate per non compromettere gli equilibri interni di potere. Sono in molti a ritenere che esista una sorta di patto non scritto, tra Riyadh e Islamabad, che garantirebbe ai Sauditi le armi nucleari pakistane qualora Teheran riuscisse a dotarsene.
Occorre, infine, considerare che :
a. la posizione geografica dell’Iran colloca quest’ultimo in un quadro strategico molto favorevole nell’ambito dell’area islamica. La sua posizione costituisce il naturale collegamento tra Medio Oriente, Caucaso, Asia centro-meridionale, ma nel contempo rischia di essere coinvolto in molte questioni regionali. Inoltre, l’attuale teocrazia sciita punta ad aumentare la propria influenza in tutta l’area ricercando relazioni e strette alleanze con i gruppi sciiti di altri Paesi;
b. il Pakistan, paese a maggioranza sunnita, è una potenza nucleare islamica e si trova in una posizione geografica altrettanto favorevole, ma anch’esso non è esente da dispute territoriali, in particolare: quelle relative alla linea di confine con l’Afghanistan, con l’Iran nella regione del Belucistan e con l’India riguardo al Kashmir.
Inoltre, negli anni ‘90 il gruppo etnico degli Hazara situato in Afghanistan, sostenuto da Teheran, divenne obiettivo dei Talebani appoggiati dal Pakistan e tuttora la questione afghana continua a essere una spina nel fianco nei rapporti Iran-Pakistan;
c. l’Arabia Saudita ha come suo più grande alleato il Pakistan, sia in relazione alla pregressa guerra contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan, sia per l’influenza wahabita sull’islam deobandi dell’area, sia per le ottime relazioni fra i dirigenti dei due Paesi fra cui per ultime quelle dell’attuale Primo Ministro pakistano Muhammad Nawaz Sharif, di orientamento wahabita, che è stato eletto per la terza volta a questa carica. Durante il suo secondo mandato, in seguito agli esperimenti nucleari del 1998, gli Stati Uniti e la NATO imposero sanzioni economiche al Pakistan.
Poco dopo il governo di Nawaz Sharif fu rovesciato dal colpo di stato militare del generale Parvez Musharraf ed egli fu inviato in esilio in Arabia Saudita dove sarebbe dovuto rimanere per dieci anni. Nel novembre del 2007, in seguito alla visita in Arabia Saudita del Presidente Musharraf al re Abd Allah, fu consentito a Sharif il rientro in patria. il suo legame privilegiato con l’Arabia Saudita ha favorito il trasferimento in Pakistan di aiuti economici sauditi, parte dei quali utilizzati per la costruzione di moschee e la realizzazione di madrasa, o scuole coraniche.
Si può dunque affermare che i vari conflitti regionali che nel tempo si sono verificati nell’area medio-orientale e centro-asiatica, hanno favorito lo sviluppo sotterraneo e dissimulato di un conflitto ben più profondo fra sciiti e sunniti per la supremazia della rispettiva concezione religiosa, che vede l’Iran chiuso fra il fronte pakistano e quello saudita ed il suo maggiore alleato, la Siria, territorialmente ed etnicamente sconvolta dallo Stato Islamico, creatura finanziata dai ricchi paesi arabi del Golfo persico e ritenuta pilotata da apparati intelligence.
In sintesi, pare possibile che tutto questo sia finora accaduto solo per opera di:
• un facoltoso saudita di origini yemenite (Osama bin Laden ) con ottime relazioni con il capo dei servizi pakistani Hamed Gul, contornato da un ideologo palestinese e un fratello mussulmano egiziano?
• un delinquente comune (Abu Musab al Zarqawi) fuggito dalla Giordania e riparato nel 2000 in Pakistan, inizialmente fermato dalle autorità pakistane e successivamente rilasciato con un lasciapassare ed inviato in Afghanistan a parlare con Osama bin Laden. Il colloquio fra i due non fu molto felice per differenze di vedute sugli sciiti, tuttavia Zarqawi ottenne denaro con cui allestì un proprio campo di addestramento ad Herat, poi passò in Iraq e nel 2004 costituì AQI e giurò fedeltà ad Osama. Nel 2005 attuò la sua strategia stragista contro gli sciiti?
• un mufti irakeno (al Baghdadi) che interpretava ed applicava capziosamente la legge coranica, mandando a morte con qualsiasi pretesto intere famiglie sciite, ancorché circondato da consiglieri e personale dei servizi dell’ex dittatore Saddam Hussein?
Prima dell’11 settembre 2001 vi erano più di 40 fra gruppi e partiti estremisti islamici direttamente legati all’ISI e all’apparato militare pakistano e da essi manovrati, ai quali Al Qaeda, creatura dell’ISI, forniva un progetto internazionale di jihad globale.
Secondo Ahmed Rashid – dopo l’intervento USA contro i talebani afghani – l’apparato militare e di sicurezza pakistano ha continuato a sostenere l’estremismo islamico degli studenti-guerriglieri attraverso lo schermo di società caritatevoli gestite da ex militari ed ex appartenenti ai servizi di sicurezza fra cui l’ex capo dell’ISI Hamed Gul, che aveva patrocinato la costituzione di Al Qaeda.
Le organizzazioni hanno operato in maniera clandestina e sotto copertura con una ridotta procedura gerarchica, un sistema di comando e controllo non rintracciabile, assenza di ogni procedura documentale o documentabile e finanziamenti tramite articolazioni decentrate dell’apparato militare e di sicurezza.
Fra le strutture indicate quali appartenenti a questa organizzazione vi sono Jamaat-ud-Dawah (acronimo JuD, letteralmente Organizzazione per la predicazione) ed il suo braccio armato Lashkar-e-Taiba (acronimo LeT, letteralmente “Esercito del bene”) entrambe ferocemente anti sciite ed anti indù, prevalentemente operanti nel Kashmir.
Jamaat-ud-Dawah ebbe origine nel 1985, come un piccolo gruppo missionario dedicato alla promozione dell’associazione Ahl-e-Hadith (La gente del Hadith), per opera di Hafiz Mohammed Saeed (inviato all’università in Arabia Saudita nei primi anni ’80 per gli studi superiori, ove incontrò personaggi che stavano prendendo parte alla jihad afgana e, al suo rientro, nominato dal Generale Mohammad Zia-ul-Haq fra i membri del Consiglio dell’Ideologia Islamica, struttura con funzioni di controllo sull’applicazione della legge coranica) e Zafar Iqbal.
Nel 1987 un gruppo di jihadisti anti-sovietici, fra i quali il più attivo era Abdallah Azzam si associò al JuD per formare il Markaz-ud Dawa-wal-Irshad (Centro per la predicazione e di orientamento – MDI), che nel 1990 – nella provincia di Kunar (nei pressi di Jalalabad – Afghanistan) – costituì il suo braccio armato, Lashkar-e-Taiba, ad opera di Hafez Saeed, Abdullah Azzam e Zafar Iqbal, con un finanziamento di Osama Bin Laden.
La sicurezza nazionale del Pakistan poggia sull’estremismo islamico sunnita di matrice deobandi ed è rappresentata da una “triade” politico-strategica fondata su:
• contrasto all’egemonia dell’India nell’area regionale, con rivalse territoriali sul Kashmir;
• protezione e sviluppo del nucleare, sia civile sia militare;
• insediamento di un governo filo-pakistano nel suo retroterra strategico identificato dall’Afghanistan.
Questo concetto strategico si avvia con la presidenza del generale Zia-ul-Haq (Presidente Pakistan dal 5 luglio 1977 al 17 agosto 1988) che, per contrastare il suo predecessore Zulfikar Ali Bhutto (di orientamento laico e progressista), instaurò un islam di tipo integralista appoggiandosi ai mullah ed alle madrasa deobandi.
Allo scopo provvide a vietare alcolici, imporre la zakat, infliggere punizioni corporali ai criminali e a reintrodurre la lapidazione per le donne adultere, spingendosi fino a tentare di restaurare il califfato con il supporto di Al Qaeda e del suo ideologo Abdallah Azzam.
Successivamente il suddetto concetto strategico è stato rafforzato dal conflitto Pakistan-India del luglio 1999 per la disputa del Kashmir ed ulteriormente potenziato dal colpo di stato del generale Parvez Musharraf (ottobre 1999 – agosto 2008) che, per mantenere il potere, ha seguito la politica del cosiddetto “doppio binario”.
Da un lato ha sostenuto e finanziato l’estremismo islamico dei talebani per formare un governo filo-pakistano in Afghanistan, dall’altro ha sporadicamente catturato elementi di Al Qaeda – non afghani o pakistani – consegnandoli agli Americani per non perdere il loro appoggio politico, la fornitura dei loro armamenti ed i finanziamenti a sostegno dell’economia.
La più evidente dimostrazione di questo assunto è costituita dall’allargamento territoriale del califfato globale avvenuta nell’area afghana ove nei primi di gennaio 2015 ha debuttato il c.d. IS (acronimo di stato islamico) del Khorasan – originaria regione costituita dalle città di Balkh, Herat, oggi in Afghanistan;
Mashhad e Sabzevar, oggi nel nord-est dell’Iran; Merv e Nisa, oggi nel sud del Turkmenistan; Samarcanda e Bukhara, ora in Uzbekistan – con il formale giuramento di fedeltà nei confronti del califfo Al Baghdadi che lo ha riconosciuto come «wilaya», cioè “provincia” (il c.d. Stato Islamico si propone, nella sua retorica, di abolire i confini interni al mondo arabo-islamico abbattendo i confini nazionali “colonialisti”).
La sua costituzione rappresenta la prosecuzione della politica strategica pakistana sia verso l’Afghanistan sia verso l’Iran sia verso l’India.
Per tali ragioni anche Al Qaeda in Iraq e la sua filiazione di Stato Islamico, sorto subito dopo l’abolizione delle sanzioni all’Iran per lo sviluppo del suo nucleare, rientrano in questa logica strategica.
Il Califfato universale
Secondo l’ideologia jihadista il califfato universale deve essere costituito attraverso “la jihad”, iniziando con la realizzazione di califfati regionali che diventeranno poi poli di attrazione per i paesi confinanti.
“La scintilla è partita qui in Iraq, e il suo calore continuerà ad intensificarsi – se Allah vuole – fino a quando brucerà le armate crociate a Dabiq.», è una frase attribuita ad Abu Musab al-Zarqawi, riportata sulla rivista Dabiq dello stato islamico. La località di Dabiq nella Siria settentrionale – menzionata in un ḥadith del Ṣaḥiḥ di Muslim (una delle sei maggiori raccolte di ḥadith della tradizione sunnita) – è il luogo dove dovrebbe avvenire l’apocalittico scontro finale tra musulmani e bizantini, che si concluderebbe con il trionfo definitivo dell’Islam in tutto il mondo.
Lo studio degli hadith è una peculiarità delle madrasa deobandi pakistane da cui sono nati Al Qaeda, i Talebani – e non ci sono solo quelli afghani – le filiazioni di Al Qaeda dal Maghreb all’estremo Oriente ed infine l’ISIS.
Gli elementi indiziari fin qui tracciati non sembrano sufficienti per incolpare i burattinai, ma è tradizione consolidata che chiunque sponsorizzi il terrorismo non operi mai in prima persona ma si serva sempre di intermediari, più o meno affidabili, che operano sotto copertura e qui ce ne sono ad abundantiam.
Quanto finora accaduto si è verificato senza che il disattento pubblico occidentale ne riuscisse a percepire la realizzazione, perché:
• è stato ormai anemizzato dei principi religiosi e dei precetti morali, da teorie opportunistiche, egoistiche e relativiste;
• ha dissolto tradizioni e consuetudini intese come trasmissione – nel tempo all’interno di un gruppo – di conoscenze, competenze, eventi sociali e storici, usanze, ritualità, costumi, superstizioni e credenze religiose, per le giovani generazioni. Queste avrebbero dovuto raccogliere i valori in esse contenuti ed adattarli alle loro attuali esigenze di vita. Ma non l’hanno fatto;
• ha smarrito la propria fede nei labirinti dell’edonismo, della sessualità, dell’accaparramento di denaro e nei liquami della demagogia, abdicando ad ogni forma di assistenza, aiuto e solidarietà,
sicché non si è accorto che gli editti propagandistici del cosiddetto “Stato Islamico”, la sua propaganda attraverso le riviste ed il web nonché la sua strategia altro non sono che la naturale evoluzione delle teorie del “califfato globale”, dettate negli anni ’80.
Anzi, a tali teorie si sono associate le esortazioni di Al Zawahiri con il trasferimento – all’interno dell’Europa attualmente e degli Stati Uniti in prospettiva – della conflittualità terroristica, facendo leva sulla terza e quarta generazione degli immigrati mussulmani, specie se disoccupati, emarginati e frustrati e sui giovani occidentali nelle medesime condizioni, strategia abilmente sfruttata da daesh (è un acronimo ed è usato in senso denigratorio perché in arabo il termine ha un suono simile alle parole “calpestare e distruggere”).
Del resto, questa ulteriore diffusione dell’ideologia califfale è insita nella visione bipolare geo-religiosa del radicalismo islamico, ove gli stati-nazione che dividono la Umma musulmana non sono riconosciuti. Diventa ovvio quindi pensare che i proponimenti strategici dei burattinai dello Stato Islamico siano quelli di annientare la presenza dei mussulmani sciiti nell’area medio-orientale, e poi allargare le frontiere inizialmente verso l’Europa e l’Africa e poi verso l’Asia e le Americhe.
Per questo l’IS, anche se non dispone di contiguità territoriale, impiega i suoi proclami propagandistici e la costituzione di nuove wilaya per realizzare uno stretto legame di sottomissione con i nuovi affiliati, imponendo loro il giuramento di fedeltà al califfato.
Quale risposta è possibile dare a siffatta concezione strategica che con l’opzione militare non sta dando soddisfacenti risultati, anzi rischia una guerra che, se non controllata, potrebbe condurre al terzo conflitto mondiale con un olocausto nucleare superiore a quello di Hiroshima e Nagasaki?
Quanto precede traspare nelle parole del presidente Vladimir Putin che nel dicembre 2015 – poco dopo il lancio di missili su Raqqa – chiedendo l’analisi dei risultati si è augurato che tali missili non debbano mai essere armati con testate nucleari.
Ipotesi da non sottovalutare atteso che l’attuale fronte sciita, che conta sul supporto della Russia, vede la cooperazione militare ed intelligence fra Iran, Iraq e Siria che in pratica si traduce nel progetto iraniano della “mezzaluna sciita” dal golfo persico al Mediterraneo.
A questo fronte si oppone quello a guida statunitense che vede impegnati Arabia Saudita, Qatar e Turchia con contrasti russo-turchi per gli sconfinamenti di bombardieri russi sul territorio turco.
Ma la risposta militare non può essere solo affidata a missili ed aerei bensì integrata con Intelligence e forze speciali caratterizzate dal più elevato indice di addestramento per conseguire i risultati necessari a debellare i nuovi barbari, che appaiono sempre più gli eredi dei sanguinari Gengis Khan e Tamerlano.
Claudio Masci – Ufficiale dei Carabinieri proveniente dall’Accademia Militare di Modena, dopo aver assunto il comando di una compagnia territoriale – impegnata prevalentemente nel contrasto al crimine organizzato, è transitato negli organismi di informazione e sicurezza nazionali. Laureato in scienze politiche. Tra i suoi contributi L’intelligence tra conflitti e mediazione, Caucci Editore, Bari 2010 e The future of intelligence, 15 aprile 20122, Longitude, rivista mensile del MAE
Luciano Piacentini – Brevettato incursore, è stato Comandante di Unità Incursori nel grado di Tenente e Capitano. Assegnato allo Stato Maggiore dell'Esercito, ha in seguito comandato il 9. Battaglione d'Assalto Paracadutisti "Col Moschin" e successivamente ricoperto l'incarico di Capo di Stato Maggiore della Brigata Paracadutisti "Folgore". Ha prestato la sua opera negli Organismi di Informazione e Sicurezza con incarichi in diverse aree del continente asiatico.