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Ven. Prof. Giuseppe Toniolo
Federico Le Play
Cenni commemorativi
da: Studium, Firenze, 1909, a. IV, pp. 633-685
Fra lo spadroneggiare di un laicismo settario e intollerante, come quello di Francia oggidì, non è meraviglia che l'inaugurazione a Parigi nel giardino del Lussemburgo l'Il giugno 1906 di un monumento a Federico Le Play, sociologo cristiano, per il centenario della sua nascita, passasse in generale poco avvertito. Non così però per gli uomini seri e studiosi (tanto è vero che il cammino silente della scienza è spesso inverso a quello rumoroso dei più), i quali anzi vi tributarono opuscoli, discorsi, articoli di riviste, illustrando vari aspetti della vita e degli scritti del valentuomo francese. Ed è confortante indizio di senno che fra noi giovani studiosi desiderino una parola sopra il grande sociologo che ormai appartiene ad un ciclo storico passato, in un periodico che pur sempre intende riflettere le aspirazioni della gioventù presente.
Invero, ciò che oggi sospinge a rimirare con sguardo retrospettivo quest'uomo il quale, ingegnere metallurgico fattosi sociologo, coi suoi viaggi in più continenti, colle sue inchieste monografiche, coi sodalizi scientifici e di propaganda da lui fondati, soprattutto coi suoi scritti, fra le correnti più opposte di scuole, attraeva l'attenzione del pubblico sopra le sue idee e gli onori dei governi sopra i suoi meriti, non è soltanto il valore intrinseco delle sue dottrine, ma il risalto che ora vi aggiunge la via percorsa dal pensiero pubblico nell'ultimo quarto di secolo dopo la morte di lui in ordine alle questioni sociali, cammino ideologico che meglio abilita ad estimare dal termine della traiettoria l'inizio di essa. Sotto questo punto di vista forse v'ha taluna osservazione da aggiungere a quanto fu scritto su questo tema e qualche preziosa istruzione da ritrarne di sommo interesse attuale; ambedue sgorganti da questo concetto (non abbastanza finora chiarito) che egli fu tra i primissimi a dettare e propugnare un sistema di riforme sociali cristiane nel secolo XIX. E allora potrà apparire per qual ragione l'opera dello statistico di Calvados (Normandia), elevato ai più grandi uffici ed onorificenze da Napoleone III nei massimi suoi splendori, trovi tuttora, mercé le società da lui fondate, continuatori in tutta Europa.
Fu un riformatore (e di quelli veri e fecondi, perché inteso a ricondurre la società aberrata e guasta ai suoi principi) di proposito esplicito e maturo, ché a formarsi tale egli mirava coi suoi viaggi (dal 1831), colla conoscenza tecnicoeconomica dei vari ambienti che egli frequentò (circoli industriali, minerari, forestali, agricoli); e a formulare e illustrare i capisaldi di un sistema di riforme egli dedicò un libro La reforme sociale en France in cui condensò tutte le induzioni dei suoi studi analitici e depose le risultanze delle sue convinzioni, educatesi fra i calcoli delle sue statistiche comparate e fra gli attriti di una esistenza laboriosa. Il libro infatti (egli stesso lo dichiara nella prima prefazione), concepito nel 1848, assunse forme di uno schizzo o abbozzo nel 1855, e comparve la prima volta nel 1864. Spuntò dunque - per segnare due pietre miliari estreme ed opposte prima del libro del riformatore socialista Federico Engels, Le condizioni delle classi lavoratrici in Inghilterra (1849) che compose il substrato del collettivismo e insieme del materialismo storico di Carlo Marx; e si compié un anno dopo il libro La questione sociale e il cristianesimo di G. Ketteler (1863), che è reputato il saggio tipico delle riforme sociali cristiane. Questo è il posto di Le Play fra i riformatori della seconda metà del sec. XIX e con essi egli ha un tratto estrinseco comune, quello di riformatore positivo (non positivistico). A distinzione pertanto del ciclo storico già superato dai sociologi riformatori di carattere idealistico, filosofi e utopisti, egli asside il suo programma sul piedistallo dei fatti. Come Engels (e poi Marx) sulle condizioni di fatto del proletariato inglese e sulle cause che lo generarono, e come il vescovo di Magonza sopra l'osservazione del problema operaio e pratico (ormai gigante in quegli anni in cui Lassalle faceva la sua propaganda in tutta Germania), posto a riscontro della storia sociale del cristianesimo, così Le Play poggiava il suo edificio sulle sue celebri inchieste statistiche con quel metodo monografico descrittivo, che come è noto venne a completare quello matematico dei grandi numeri posto in onore da A. Quetelet, e che rimase ad integrare il compito della statistica.
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Ven. prof. Giuseppe Toniolo
La legislazione cristiana
Risposta aperta alla lettera dell'on. dott. F. Saccardo
da: Rivista internazionale di scienze sociali e discipline affini, 1894, v. IV, pp. 703-709
Le sono grato di avere agitato nella pubblica stampa talun quesito che veniva toccato e proposto in formule sintetiche nel Programma degli studiosi cattolici all'occasione delle recenti agitazioni socialistiche in Sicilia (programma concordato a Milano il 2 e 3 gennaio dell'anno corrente e pubblicato anche nella Rivista internazionale di scienze sociali, fascicolo di gennaio); perocchè ogni idea, come fu scritto, la quale non susciti discussioni, è morta! Ciò vale tanto più, quando si tratti di somme idee, le quali, come nel caso concreto, essendo dirette ad unificare l'azione esteriore sociale dei cattolici, è impossibile penetrino nelle menti per tradursi poi efficacemente nell'operosità pratica, se non se ne svisceri il contenuto, non se ne svolgano le applicazioni, e se intorno ad esse il pubblico non si appassioni.
1. Il quesito proposto da V. S. si risolve in questo: sta bene che di fronte a pericoli estremi, come quello di una immane conflagrazione sociale, aggravata dall'odierno dissolvimento organico della società, spetti allo Stato un compito eccezionale, affine di restaurare l'ordine sociale cristiano; ma forse non incomberà allo Stato, anco in condizioni normali, d'informare i suoi intendimenti e quindi tutta la legislazione positiva allo spirito cristiano?
Ella già vi ha risposto egregiamente ed in senso affermativo, confermando quanto già intendevasi implicitamente da chi dettò quella proposizione del programma: reclamarsi altamente dallo Stato che questo, dopo che per sì lungo tempo pervertì nelle sue mani lo stromento o meglio il ministero della legge, provveda ad una grande restitutio in integrum del diritto cristiano.
Ella confermò questo concetto, ma invero lo definì in modo più preciso ed esplicito, conchiudendo che spetta ai poteri pubblici, dopo aver dato opera (insieme ad altri organismi vitali, in ispecie la Chiesa) a ritrarre la società dall'estrema mina, di lasciare ad essa in eredità un sistema compiuto, normale, duraturo di legislazione cristiana.
Questa conclusione attesta una volta di più che spesso un quesito appena sia bene posto nei suoi termini esatti, esso è già sciolto. Non però così che frattanto esso non possa utilmente illustrarsi e più efficacemente propugnarsi. lo colgo pertanto l'occasione per presentare il tema, dietro le tracce che ella mi porge, al pubblico, ed invitarlo a farne obbietto di meditazione in tutta la sua ampiezza e dignità.
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Ven. Prof. Giuseppe Toniolo
Le premesse filosofiche e la sociologia contemporanea
A proposito di odierne discussioni sull'enciclica Pascendi
Da: Rivista internazione di scienze sociali e discipline affini, 1908, v. XXXVI, pp. 309-331
I
1. Gli uomini colti, che col presidio della storia della scienza in tutti i suoi aspetti e della odierna pubblicità universale, si resero capaci di spiare e di riflettere in se stessi dì per dì, quasi in un cinematografo, le grandi mosse del pensiero scientifico, da non pochi anni assistono al volgersi e al confondersi, soprattutto allo scindersi e al contrastarsi, di ogni corrente di dottrine filosofiche, le più differenti, strane e repugnanti; le quali, rifrangendosi in altrettanti svariati ed opposti indirizzi di ogni ramo della scienza, si tramutano infine in un'anarchia di vita pratica sociale, riproducente quella ideale degli scienziati. È ciò che si sente ogni giorno angosciosamente, e che senza menomare il valore di molti e preziosi acquisti recenti nel dominio subordinato delle discipline positive, ha fatto dinanzi alla critica seria e competente intiepidire non pochi entusiasmi verso questa «cultura presente», che spiriti manifestamente pregiudicati o superficiali si ostinano a chiamare «moderna» per antonomasia, quale fattore di una novella civiltà; mentre essa per sicura diagnosi e per indubbi ammaestramenti storici, più che di un rinnovamento rivela sintomi paurosi di decadenza.
Or bene; se fra tanto turbinio che ci rapina, uno di quei geni che il Goethe chiamava le aquile dell'umanità, un areopago di dotti, quale proponeva nelle sue riforme idealistiche il Saint-Simon e vagheggiava ancora il Renan, o infine una istituzione misteriosa, capace di dominare con la sua autorità e sapienza i secoli, fosse intervenuta a disvelare con sicurezza le ragioni prime di tale abbuiamento odierno degli intelletti pensanti, e di tanta tragedia di vita vissuta; e ancora a porgere un filo conduttore, il quale avesse scorto gli scienziati a rivedere la luce e i popoli a rinvenire pace e salvezza, non avrebbe forse essa benemeritato della scienza e del progresso civile?
2. Questo è invero ciò che compié una volta di più la Chiesa cattolica, colla enciclica di papa Pio X sul «modernismo»; e l'imparzialità del giudizio ci obbliga a riconoscere, che uomini sinceri, d'incontestabile valore scientifico, anche non credenti, accolsero con ammirazione un documento autorevolissimo, il quale seppe cogliere e ridurre criticamente in forma sistematica, nel suo nesso coi veri dogmatici, e con le sue inferenze logiche e pratiche, la genesi multiforme, vaga, insidiosa del pensiero filosofico moderno, fattosi quasi impenetrabile alle menti più acute ed erudite. Inattesa e solenne conferma del valore della fede, nell'estimare gli argomenti e i risultati della scienza.
Tuttavia non mancano altri, i quali, per il richiamo autorevole che nel medesimo documento il pontefice Pio X, sulle tracce del suo predecessore, fece alle dottrine tradizionali della «scolastica», affermino che la Chiesa si ponga con ciò in contrasto irreconciliabile col progresso della cultura e della civiltà, disconoscendo le più caratteristiche e legittime vocazioni della scienza e le esigenze più imperiose della vita sociale moderna.
Avvertasi che l'accusa, la quale si drizza ad un tempo alla cultura ideale ed alla vita pratica, è logicamente coerente; dappoichè la storia stessa della scienza, oggi più che mai illustrata per ogni ramo dello scibile, ha mirabilmente confermato l'antica sentenza del sapere cristiano «che l'ordine delle idee regge l'ordine dei fatti»; e che specialmente i supremi criteri in ogni momento storico della scienza madre la filosofia (in connessione essa medesima colla fede) determinano e colorano gli indirizzi di ogni ramo della scienza; i quali poi atteggiano e sospingono alla lor volta gli ordinamenti sociali e il cammino dell'incivilimento. E avvertasi ancora come il nesso sia così intimo fra idea e fatto, fra il pensare e l'operare con mutuo ricambio, che l'età nostra, satura di positivismo, estima la scienza e la cultura solo in quanto valgano a tradursi nella realtà dell'utile sociale, fuori di che la trascura e rigetta; riconfermando incosciamente un altro canone della cristiana sapienza che il conoscere è mezzo all'operare, e che il fine ultimo del vivere non è il vero, ma il bene.
Sicché questa «formula di accusa» che giudica l'enciclica e le sue dottrine dalla presunta efficacia di queste in ordine al bene sociale ed alle conquiste dell'incivilimento, a cui fra tanti contrasti e pericoli l'età presente anela; mentre rispecchia lo «stato mentale» di gran parte degli studiosi di professione, rinviene eco diffusa e durevole nella coscienza dei più, incapace di apprezzare certi principi filosofici nel loro contenuto, bensì soltanto nelle loro pratiche conseguenze; sicché il rispondervi diviene un compito d'interesse generale e di attualità.
3. Così il quesito si risolve in questa proposizione sintetica: «La scienza sociologica coi suoi presidi metodici, grande ambizione della odierna cultura, e di rispondenza l'ordine sociale di civiltà co' suoi progressi, intorno a cui s'aggira e consuma la febbrile operosità dei popoli contemporanei, sarebbero meglio avvantaggiati dalle premesse filosofiche moderne o da quelle tradizionali cristiane?».
Ampio e grave quesito invero, al quale si può tuttavia dare valevole risposta con pochi richiami bene assodati; perocchè la soluzione è già offerta dalla storia delle teorie sociologiche ed economiche odierne, in relazione a quella della filosofia e delle corrispondenti influenze sulla vita pratica dei popoli; storia dettata con erudizione e critica che formano un titolo di onore per i tempi nostri. Ciò tanto più se si accetti nel suo giusto concetto, e non già nella sua goffa e maligna raffigurazione, la filosofia tradizionale cristiana; la quale esprime un ordine di veri dimostrati (accertati), i quali danno ragione delle cause prime ed ultime dell'universo, considerato come l'ordine reale obbiettivo degli esseri stabilito da Dio. Filosofia pertanto razionale-positiva (obbiettiva) per eccellenza, la quale rispondendo alla natura irreformabile dell'intelletto e delle cose, raccolse il consenso più generale e continuato dei pensatori da Aristotele a s. Tommaso, che col nome di «scolastica» vi diede forma sistematica, e fra varie vicende pervenne fino a noi; e che, rinvenendo conferma superiore estrinseca nella bibbia, nel vangelo e nella tradizione cristiana, fu per questo detta la filosofia perenne dell'umanità. La quale filosofia per ciò stesso è sempre viva e progrediente, in quanto di sua natura è adatta ad assimilarsi tutte le conquiste successive che valgono ad illustrare ed integrare quella suprema concezione («Weltanschauung») della realtà degli esseri. Chi ignori, offuschi o neghi questo vero carattere della «filosofia cristiana» confessa suo malgrado il proprio difetto o di onestà scientifica, o di comprensione filosofica, o di cultura storica.
Anzi, per rendere un altro omaggio a questi criteri di sincerità scientifica, aggiungeremo tosto che altro è dire in che consista la sostanza immutabile della filosofia cristiana tradizionale o scolastica, altra cosa è asserire che essa riguardo ai principi informativi si sia sempre mantenuta pura nello schietto filone dottrinale, senza che nel suo volume d'acque volgentesi da secoli non siensi introdotte correnti torbide o deviatrici, e che rispetto alla sua ingenita virtù di svolgimento, d'applicazione, d'assimilazione (derivante da que' principi stessi) non abbia subito in certi momenti storici rallentamento od arresto; come del resto seguì, e ben altrimenti, a tutte le scuole filosofiche dell'antica e della moderna età, compreso il kantismo, l'hegelianismo, il positivismo fino alla perversione e all'esaurimento. Appunto perché lo ripetiamo, essa è razionale, positiva e storica (tradizionale) per eccellenza, la filosofia cristiana può ripetere il passo di Terenzio: homo sum, nihil humani a me alienum puto. Ma ciò non toglie che essa sia quello che è per sua originaria essenza, e che non possieda in questa l'insita capacità di perenne e progressiva espansione.
Se qualche degenerazione subì (e in parte ancor oggi s'appalesa) fu colpa degli studiosi, non del sistema. Perciò papa Leone XIII in modo esplicito, restaurando la filosofia scolastica (1879), ammoniva di attingerla alle fonti pure di s. Tommaso, e in coerenza con essa di tesoreggiare le solide conquiste del sapere moderno, specialmente delle scienze storiche e naturali. Certo in qualche nazione i cultori della neoscolastica, fieri del prezioso patrimonio di supremi veri, acquisito con tanto rigore di argomenti logici e riprova di secolari consensi, neglessero, anche nelle alte scuole, di ritemprarlo al cimento delle recenti scuole filosofiche e di adoprare linguaggio e metodi adatti all'odierna cultura per analizzarne criticamente il contenuto e disvelarne a fondo le novelle insidie o respingerne gli audaci assalti. E ammettiamo ancora che tal altra siasi stati lenti nel trarre dal seno di quella filosofia lumi ed indirizzi a più ricchi svolgimenti o a più originali ricerche, specialmente nel dominio delle scienze positive. Ciò che poté avverarsi propriamente in quei paesi cattolici, ove la lotta delle dottrine più radicali e audaci fu più tardiva che nei paesi protestanti, e dove molto difettarono i mezzi di suppellettile scientifica e di pubblici favori, massime nelle università oggi necessari alle grandi battaglie e conquiste del vero.
Ma tutto questo non è comune alla generalità dei filosofi cristiani. Spesso questi, pur partendo dalla tradizionale scienza scolastica, seppero non solo avanzarsi arditamente e gloriosamente entro i vasti orizzonti delle scienze naturali, ma riuscire (a modo di esempio) a due risultati che ci interessano, perché toccano i massimi problemi dell'ora presente: - a giustificare ed ampliare coi principi scolastici, avvalorati dai metodi di osservazione, le più recenti scoperte della fisio-psicologia - e a comporre un sistema di dottrine sociali in piena corrispondenza colle esigenze della sociologia contemporanea e delle analoghe discipline positive; dottrine desunte direttamente dalla stessa filosofia. E per quanto riguarda la conoscenza in generale della cultura razionalistica moderna, a contatto di quella tradizionale cristiana, essa, in alcune nazioni ed in ispecie fra i cattolici di Germania, del Belgio, della Gran Bretagna, di Francia, è cotanto diffusa in ogni classe di studiosi, che proprio da questo fatto derivò quella penetrazione di teorie filosofiche e scientifiche di ogni scuola razionalistica, i cui riflessi, male intrecciati alla fede cattolica, composero fra i credenti stessi quel modernismo filosofico-dogmatico, che già preannunziato, oggi la Chiesa colpì.
Viceversa per la stessa imparzialità di giudizio va rilevato, che quasi sempre filosofi e scienziati anticristiani dimostrano d'ignorare la nostra filosofia, né tengono perciò conto alcuno delle sue analisi, critiche, confutazioni, spesso poderose e schiaccianti; anche nei più classici saggi recenti; e (salvo rarissime eccezioni) uomini per altri rispetti eruditi e valorosi, troppo fedeli al motto protestante libri catholici non leguntur, s'aggiungono alla schiera dei dilettanti, degli imparaticci, dei declamatori, a gettare lo spregio e il ridicolo alla scienza cristiana tradizionale, sulle tracce di vaghi pregiudizi antiquati. Basta ricordare per tutti la campagna di Huxley in Inghilterra, e la conferenza recentissima in Germania di Haeckel.
Tali criteri di fatto era necessario premettere per correre sicuri e spediti nella presente e breve trattazione.
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Ven. Prof. Giuseppe Toniolo
Lettera aperta a don Romolo Murri
l'ex-prete fondatore della Democrazia "cristiana"
"Nessuna innovazione vera, e duratura si può conseguire in ordine alle esigenze presenti e alle più legittime aspirazioni future della civiltà, se non stringendosi di più in più alle dottrine, allo spirito, al governo della Chiesa e del pontificato"
Pisa, 29 giugno, il dì di S. Pietro
da: L’avvenire d’Italia, Bologna, 1 luglio 1903, n. 177
Arrivai questa notte qui da Roma, pieno l'anima di dolorose e fosche previsioni a suo riguardo, egregio ed antico amico, a cui non nascosi mai come l'ammirazione per il suo ingegno ed il suo slancio, così i difetti ed i pericoli della sua propaganda; mentre in taluni sommi e legittimi intendimenti di questa, noi c'incontrammo. Ritornai, ripeto, con l'anima angosciata perocchè nel fondo di essa si ripercotea ognora il monito che in questi dì volle ripetermi un illustre arcivescovo che, a scanso di sospetti, ha altrettanta mente quanto cuore, e che è sincero amico dei giovani e del popolo, quanto inconcussamente fedele a Pietro ed alle sue sapienti direzioni; - monito che suonava così: «in forma minuscola ma sempre lagrimevole siamo già al caso di Gioberti».
Io pur di lunga mano sento corrodermi da questo sospetto; più allarmante per le conseguenze che potrebbero accompagnare il suo avverarsi nel seno di alcuni giovani, che non lei soltanto, ma io stesso, ma tutti amiamo di amore sincero. E che tale sospetto fosse vano sempre mi augurai, e che lo possa divenire anche oggi, anche domani, per una di quelle dichiarazioni sincere, raffermato dai fatti, che tolgono fin l'ultima nube dalla serenità del cielo, io ora novellamente faccio voto e preghiera fervidissima. Ma non le posso negare, caro don Romolo, che l'articolo della Cultura, riportato poi dall'Avvenire, mi pare segni almeno l'esordio di una catastrofe.
E dico fra me: è mai possibile per un animo retto e credente, che una di quelle udienze intime presso il padre dei fedeli, che inondano il cuore di gioie sovrumane e che vi depositano il germe di eroiche virtù per la difesa del papato e della cristiana civiltà, è possibile, ripeto, che per altri divenga pietra di inciampo e di ruina?
Né vale per giustificare il fatto strano e doloroso, che ella (mi perdoni il giudizio) reagisca contro le cause impellenti di questo contegno, lanciando il dubbio, di aver taluno degli avversari suoi, abusato della stampa liberale per comprometterla; come ella e parecchi dei suoi amici già avevano commesso lo stesso errore, colle troppo note e deplorevoli interviste di liberali corrispondenti.
Questi eventuali artifizi, non degni di caratteri aperti ed onesti, non giustificano in alcuna guisa la sua condotta; sicché ella, in luogo di protestare contro quelle insinuazioni di avversari segreti, si accampi contro l'Opera dei congressi, pur cotanto favorevole al movimento democratico, ai giovani, a lei stessa, e quindi contro il conte Grosoli degno rappresentante dei nuovi indirizzi in quella istituzione, affermando che innanzi ad essa, ella intende riprendere intera la sua libertà.
Il presidente dell'Opera non ha bisogno di essere difeso da me, che stimo ed amo come fratello, appunto perché è uno di quegli uomini rari, che non vivono per il proprio io, ma per la santa causa della Chiesa, da cui non si dipartirebbe, se gli costasse l'esistenza. Ma a lei, che sa essere anche generoso, chiedo se sia nobile e giusto reclamare la sua libertà dinanzi all'Opera e quindi a lui che la rappresenta, quando ella sa quanto egli abbia fatto fino a ieri in tutti i modi possibili, seguendo la carità di Cristo e del suo vicario, per ravvicinare e congiungere l'attività sua e quella degli altri cattolici nel seno dell'Opera dei congressi e dietro le norme autorevolmente dettate e con sapiente larghezza applicate. A tutto ciò ella avrà pensato di certo; ma se mai si illudesse che cotanta longanimità e carità trasse infine quell'uomo ad offendere i suoi principi e a menomare l'inconcusso ossequio ai dettami del pontefice, ella s'ingannerebbe a partito!
Perocchè (ciò è più importante ancora) l'atteggiamento che oggi ella dichiara di assumere, è proprio contrario ai dettami del pontefice. Il quale, mirabilmente fermo a voler introdurre nell'azione sociale e negli ordinamenti dei cattolici d'Italia quello spirito democratico, anzi quella espansione di cristiana civiltà che è tanta parte dei voti di lei, di me, di quasi tutti ormai, altrettanto fu ed è coerente di volere, che queste legittime innovazioni, si effettuino entro la cornice dell'Opera dei congressi e sotto l'alta e sapiente disciplina della gerarchia ecclesiastica. Ella invece, inclinò sempre (più o meno latentemente) ad opposto programma, come io ebbi più volte a rilevarlo anche pubblicamente; ed oggi ella dichiara di rivendicare questo programma e con esso la sua azione passata. Io vorrei ingannarmi, ma oggi questo mi pare evidentemente un primo atto, che non oso di dire di ribellione (ché la parola a me e a lei ripugnerebbe) ma di aperta indisciplina, che può peraltro preludere ad altre e vere ribellioni.
Ella, nella sua coscienza di sacerdote e nella sua mente acuta, l'avrà forse presentito fin dal primo momento. Ma la prego di pensarvi un'altra volta, dopo queste mie parole di amico, con serietà e trepidazione; perché l'atteggiamento che sta per prendere è più gravido di risultanze per lei (soprattutto per lei) di quello che prima fronte potrebbe apparire.
Or sono pochi giorni, ad un giovane sacerdote a me ignoto, ma che con confidenza filiale scrivevami di aver letto gli scritti miei e suoi con pari entusiasmo, ma ritraendone nel primo caso sentimenti di fervide e serene speranze, nel secondo, di non so quali indefinite e inquietanti previsioni, e conchiudeva, domandando che cosa in fondo distinguesse le dottrine sue e le mie; - a questo giovane desioso di una parola illuminatrice e rassicurante, credetti dare una breve ma decisiva risposta. In essa io potrei essermi ingannato perché essendovi interessata la mia persona, forse l'amor proprio mi fa velo, e perché ancora (lasci che dica chiaro ciò che molti mormorano tra i denti) i torti suoi stanno, non tanto in ciò che scrive quanto in ciò che non scrive, ma che lascia leggere fra le righe e trapelare da tutto il suo contegno, ciò che i giovani del resto troppo bene intendono. Potrei, ripeto, ingannarmi; ma la distinzione richiesta, compendiai così: - ambedue vagheggiamo una maggiore espansione sociale di cristiana civiltà. Ma ella (forse nolente) insinuò la persuasione nel pubblico è in ispecie fra la gioventù, che questo maggiore slancio non si possa effettuare se non allentando e in qualche parte infrangendo i vincoli di disciplina dalla Chiesa e dalle materne direzioni. Io invece (non so se vi sia riuscito) mi proposi sempre di persuadere che nessuna innovazione vera, e duratura si può conseguire in ordine alle esigenze presenti e alle più legittime aspirazioni future della civiltà, se non stringendosi di più in più alle dottrine, allo spirito, al governo della Chiesa e del pontificato.
Rifletta bene, caro amico, a questa specie di dilemma; il quale ha qualche valore, non già perché impersonato nel nome suo e mio, ma perché risponde a due storiche e solenni esperienze, che sono quasi due vie, lungo le quali camminarono tutti i riformatori (veri o falsi, grandi o piccini) della società; una via al capo della quale si trova la Chiesa e la civiltà cristiana; un'altra al cui termine non c'è né la Chiesa né la civiltà, ma la ribellione e la morte.
Ella, per conto suo, ne la prego e scongiuro in nome della religione e della patria, che sono gli obbietti della nostra comune ebbrezza, badi di non sbagliare nella scelta. Ma riguardo ai cari nostri giovani che certamente amano lei per la parte buona della sua propaganda, ma che in genere amano soprattutto la fede, la Chiesa, il papa e tutto ciò che si aggira intorno agli ideali di cristiana civiltà, - mi lasci dire, che essi, sdegnosi di meschine controversie del passato, e anelanti ai progressi dell'avvenire, di mezzo alle lotte generose del presente cercando non la morte ma la vita perennemente fresca del cristianesimo, non esiteranno dinanzi al bivio!
Ma frattanto prima lei, poi i giovani e con loro tutti gli uomini di intuito e di carattere, riconosceranno la verità di quest'altra proposizione pronunciata dall'illustre dignitario che rammentai al principio, la quale troppo bene si addice qui alla chiusa: si licet parva componere magnis sta per suonare l'ora in cui si distinguerà fra noi chi sono i La Mennais e quali i Lacordaire.
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Ven. prof. Giuseppe Toniolo
La recente lettera apostolica e la sua importanza sociale
da: Rivista internazionale di scienze sociali e disciplne affini, 1902, v. XXVIII, pp. 517-523
Il riferimento è all’Enciclica Vigesimo Quinto Anno di Leone XIII, comunemente indicata come il bilancio del Pontificato
I
Come un papa muore fu il titolo espressivo di uno scritto che nel prossimo passato luglio corse per le mani di tutti, col quale un nostro illustre letterato1, durante la protratta e solenne agonia del santo vegliardo del Vaticano, additava a tutto il mondo civile, quasi soggiogato d'un tratto dalla evidenza della verità e dalla commozione dell'amore, che lassù Leone XIII venia spegnendosi, come si addice al padre dei credenti, anzi come doveva morire questo tipo di romano, di cristiano, di pontefice.
Trascorsi alcuni giorni nelle angosce, e le trepide previsioni divenute realtà, noi tutti come credenti, come cittadini, come uomini dell'età nostra, meditando sul recente passato, siamo tratti a chiederei mutuamente, con eguale sollecitudine amorosa, ma con significato ancor più alto ed istruttivo, «come Leone XIII morì».
Dissi con significato ancor più elevato ed istruttivo, perocchè non trattasi già di ricordare come le meste preoccupazioni del domani sieno divenute l'irrevocabile e doloroso avvenimento di oggi, ma di ricordare a quanti ebbe figli credenti o ammiratori o critici Leone XIII, come questo papa sia disparito, in faccia alla sua Chiesa, dinanzi ai suoi popoli, di fronte ai problemi, alle lotte, alle vocazioni dell'età che fu sua; o, in altre parole, «che cosa abbia egli lasciato di duraturo e fecondo intorno a se e dietro di se».
Allora la risposta, che sgorga spontanea quanto vera, è che Gioacchino Pecci morì come pochi uomini che la posterità chiamò grandi, anzi come pochi pontefici, anche dei massimi della storia. Gregorio Magno moriva vecchio e malaticcio, quando la Chiesa e la società, in cui pure egli avea deposto i germi della risurrezione, giacevano al fondo di ogni desolazione. Papa Ildebrando, colui che avrebbe plasmato fra lotte titaniche la civiltà medioevale, scompariva nell'esilio di Salerno, quando credeva di aver tutto perduto, fuorché la fede nella giustizia di Dio. Innocenzo III, per cui la grandezza del papato e della cultura cristiana italica toccò l'apogeo, spirava vedendo crescere al suo fianco l'astro corrusco di Federico II, il maggiore uomo che avesse mai rivestito la corona imperiale germanica, il quale avea giurato di stritolare, con la sua forza materiale, con la sua paganità, col suo ingegno superiore, la potenza papale, il sapere cristiano latino, la libertà comunale italica. E a tempi più vicini Pio VI, dinanzi al genio di Napoleone, che si apprestava ad imporre al mondo intero le cruente conquiste della rivoluzione di Francia, esalava l'anima a Valenza, mentre l'orgoglio beffardo di tardivi enciclopedisti additava su quel letto derelitto «l'ultimo papa».
Nulla di somigliante oggidì. Leone XIII, con la sua meravigliosa longevità, visse sì a lungo e così sapientemente operoso, da poter non solo tracciare un ciclo compiuto di criteri riformatori della Chiesa e della società, ma da scorgerne in buona parte i risultati o almeno i germogli vegeti e promettenti; e ancor più (privilegio rarissimo) di raccogliere egli stesso prima di scendere nel sepolcro sopra l’opera propria il giudizio e l'elogio da' suoi contemporanei. E il giudizio compendioso ma concorde fu che l'azione sua di pontefice aperse un solco profondo e duraturo nella storia della Chiesa e dell'incivilimento.
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Non apprezzo i monaci atei. Livi, autorevole e venerabile teologo di establishment nega la cattolicità del “profeta” Bianchi
19 aprile 2012 - Paolo Rodari
il Foglio
“Per aver detto ciò che penso su Enzo Bianchi mi danno del cattolico tradizionalista, pigiando con disprezzo sull’aggettivo, ma io non mi sento tale, mi sento piuttosto cattolico punto e basta, uno che senza offendere nessuno cerca di difendere la vera teologia dai falsi profeti, da coloro che dicono di fare teologia e invece altro non fanno che una squallida filosofia religiosa. Bianchi è uno di questi”.
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Se alla Santa Messa si canta Ligabue: “quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”…
Libero 21 aprile 2012
di Antonio Socci
Ma i vescovi e i preti credono ancora alla vita eterna? Spero di sì, ma dovrebbero farcelo capire. Specie nei funerali, in particolare quelli di personaggi famosi.
Ho letto, per esempio, le cronache sul rito funebre del giovane calciatore Piermario Morosini che pure “Avvenire” ha messo in prima pagina con una grande foto notizia e questo titolo: “L’ultimo gol di Morosini. Folla ed emozione ai funerali a Bergamo”. Un altro sommario del giornale dei vescovi diceva: “Lacrime, canzoni e applausi. Commovente il ricordo del suo parroco”.
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DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AGLI ECC.MI PRESULI DELLA CONFERENZA DEI
VESCOVI CATTOLICI DEGLI STATI UNITI D’AMERICA
IN VISITA "AD LIMINA APOSTOLORUM"
Sala del Concistoro
Giovedì, 19 gennaio 2012
... tale consenso, così come racchiuso nei documenti fondanti della nazione, si basava su una visione del mondo modellata non soltanto dalla fede, ma anche dall’impegno verso determinati principi etici derivanti dalla natura e dal Dio della natura.
Oggi tale consenso si è ridotto in modo significativo dinanzi a nuove e potenti correnti culturali, che non solo sono direttamente opposte a vari insegnamenti morali centrali della tradizione giudaico-cristiana, ma anche sempre più ostili al cristianesimo in quanto tale.
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Commento al Vangelo — III Domenica di Pasqua
Cristo è risorto! Viva è la nostra Fede!
La notizia della Resurrezione di Gesù suscitò nel Cenacolo e nel Sinedrio un clima febbricitante. Il tema era lo stesso, le testimonianze, però, del tutto differenti, e ancor più i destinatari dei racconti. Il dogma della Resurrezione sarebbe stato fondamentale per la Religione ed era indispensabile la testimonianza, con una solida e fondata dichiarazione, di coloro che avevano visto Gesù vivo, nei giorni successivi alla Sua morte.
di Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP
fondatore degli Evangeli Praecones
courtesy of
[www.salvamiregina.it]
Vangelo
35 "Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. 36 Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi!’. 37
Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma 38 Ma egli disse: ‘Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? 39 Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho’. 40 Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. 41 Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: ‘Avete qui qualche cosa da mangiare?’. 42 Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; 43 egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. 44 Poi disse: ‘Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi’.
45 Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse: 46 ‘Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno 47 e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48 Vós Di questo voi siete testimoni.’" (Lc 24, 35-48).
I – Gli Apostoli ed il Sinedrio davanti alla Resurrezione
L’ipotesi che, una volta morto Gesù, i Suoi discepoli abbiano rubato e occultato il Suo corpo, con l’intento di diffondere la notizia della Sua Resurrezione, riappare con frequenza nel corso della Storia.
Poco dopo che il Salvatore aveva operato il grande miracolo di riprendere la Sua vita umana in corpo glorioso, i suoi avversari, quelli stessi che avevano pianificato e voluto la Sua morte, comprarono la testimonianza di soldati venali e — per timore e odio — misero in circolazione quest’ipotesi (cfr. Mt 28, 11-15).
Ancora oggi, non è raro ascoltare echi di questa insolente presa in giro.
Il contrario di fanatici e allucinati
D’altra parte, l’idea di considerare la Resurrezione del Signore un mito nato dall’allucinazione sofferta da poche persone, non fu estranea agli stessi Apostoli. Fu quello che accadde quando ascoltarono la narrazione fatta dalle Sante Donne dopo il loro incontro con Gesù quel "primo giorno" (cfr. Lc 24, 1-11).
Lo stesso fatto è la conferma che i discepoli non possono essere stati gli autori di una favola su questo miracolo, poiché l’esperienza insegna quanto sia in funzione di un grande desiderio, o di un grande timore, che l’allucinato comincia a vedere miraggi. L’ipotesi che — per pura allucinazione — fossero stati gli Apostoli gli autori del "mito" della Resurrezione del Signore non smise di circolare attraverso le bocche e le penne degli eretici, in questa o in quell’epoca.
In realtà, essi non avevano compreso la portata delle affermazioni del Signore su quanto sarebbe accaduto il terzo giorno dopo la Sua morte, non giungendo neppure alla condizione di temere o desiderare la Resurrezione, motivo che li indusse a negare, senza esitazioni, la veridicità della narrazione fatta dalle Sante Donne. Essi dimostrarono di essere del tutto estranei rispetto all’accusa di essere stati dei fanatici e allucinati a proposito della Resurrezione, poiché non accettavano neppure la semplice possibilità che questa potesse effettivamente verificarsi. L’esempio massimo della loro impostazione di spirito si verificò in San Tommaso, il quale si arrese soltanto di fronte a un fatto irrefutabile: mettere il dito nelle piaghe di Gesù.
Inoltre, negare la veridicità della Resurrezione, lanciando la calunnia di essere stata una invenzione di allucinati, corrisponderebbe, ipso facto, a riconoscere l’esistenza di un miracolo di non molto minore portata: quello della conquista e riforma del mondo, portata a termine da un ridotto numero di deviati.
Domenica di Resurrezione nel Cenacolo
La Storia ci fa conoscere quanto, la mattina di quella Domenica, gli Apostoli si trovassero in uno stato di dolore e tristezza (cfr. Mc 16, 10). Mancava loro la speranza, poiché nessuno di essi credeva all’ipotesi che il Maestro ritornasse in vita.
I fatti si succedevano, ma nonostante le Sante Donne fossero entrate nel Cenacolo con molta agitazione per raccontare il sorprendente avvenimento di aver trovato vuoto il sepolcro e un Angelo al suo interno, nessuno di loro era indotto a supporre la Resurrezione. Senza dubbio, Pietro e Giovanni si diressero immediatamente al sepolcro, con Maria di Magdala, confermando al loro ritorno, il racconto delle Sante Donne: il sepolcro era vuoto (cfr. Lc 24, 1-12). Coloro che vivevano ad Emmaus tornarono a casa molto afflitti, sconsolati, commentando le esagerazioni — secondo loro — dell’immaginazione femminile.
Subito dopo, Maria di Magdala ritornò al Cenacolo ad annunciare euforicamente l’incontro che aveva appena avuto col Signore. Ancora dopo, le altre Sante Donne entrarono per narrare l’apparizione di Gesù Risorto. Anche sommando questi episodi ai precedenti, ancora una volta, non credettero alle loro parole (cfr. Mc 16, 1-11). Pietro si avviò al sepolcro e, al ritorno, affermò che di fatto il Signore era risorto, poiché gli era apparso (cfr. Lc 24, 34). Alcuni gli credettero, altri no (cfr. Mc 16, 14).
La notte, fu la volta dei due discepoli di Emmaus a dare la loro minuziosa testimonianza sul famoso avvenimento che sarebbe culminato con l’aprirsi dei loro occhi, riconoscendolo "nello spezzare il pane" (Lc 24, 35). Nel Cenacolo si trovavano tutti riuniti a commentare l’apparizione del Signore a Pietro. Ancora, nonostante ciò, la maggioranza continuava a negare la Resurrezione di Gesù.
Considerazioni del Sinedrio di fronte al miracolo
Parallelamente a quanto si discuteva con tensione, suspense e una certa paura nel Cenacolo, i principi dei sacerdoti e il Sinedrio in generale discorrevano sulla narrazione fatta dai soldati, la quale rendeva evidente il fatto che Gesù fosse risorto. Era un’ipotesi ardua ugualmente per loro, ma sapevano considerarla pragmaticamente, misurando bene tutti i danni che da una simile realtà potevano derivare.
In città, celebrato già il sabato, le attività erano state riprese in tutta normalità. Soltanto nel Cenacolo e nel Sinedrio dominava la frenesia, in quelle ore del dopo cena. Il tema era lo stesso, le testimonianze, però, molto differenti, e ancor più i destinatari dei racconti. Il dogma della Resurrezione è fondamentale per la Religione ed era indispensabile la ferma testimonianza di coloro che avevano visto Gesù vivo, nei giorni successivi alla Sua morte. Nonostante i Suoi insistenti avvisi e profezie, se non ci fossero stati dei testimoni oculari, sarebbe stato difficile credere in un così grande miracolo.
È proprio a questo punto che, pur essendo sprangate le porte e le finestre, Gesù entrò nel Cenacolo, iniziando il brano evangelico della Liturgia di oggi.