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IL DECLINO DELLA FELICITA'
di Marcel de Corte

Tutti gli uomini desiderano la felicità: la vogliono, nel senso pieno e forte del termine volontà, questa fame profonda e spirituale del bene, inegualmente distribuita tra gli uomini, come e più di quanto non lo siano l'intelligenza e le altre facoltà dell'anima, la forza, la bellezza fisica, la durata della vita: "Beatos nos esse volumus". La frase di Cicerone riassume la natura e l'avventura straordinaria d'uno strano essere, l'uomo, che di nulla si soddisfa se non di questo bene che egli chiama felicità, e che non ha pace prima di averlo trovato. L'esperienza millenaria dell'uomo ha sempre dimostrato che egli è in perpetua ricerca di questo fine, che solo potrà dar soddisfazione al suo bisogno più profondo.

Ora, è curioso constatare come il termine felicità sia oggi quasi completamente radiato dal vocabolario dei sapienti di questo mondo, e vada scomparendo a poco a poco anche dal linguaggio corrente. I filosofi lo pronunciano soltanto più con un senso di disprezzo o d'imbarazzo, tant'è vero che, contrariamente alla fiorente tradizione antica o medievale, in cui abbondano i trattati "perì eudaimonìas" e "de vita beata", gli studi consacrati oggi alla natura della felicità si possono contare sulle dita di una mano. Gli uomini di Chiesa si richiamano ancora alla felicità del cielo, ma sono generalmente muti su quella terrena. Quando ne parlano, finiscono per deformarla con astrazioni, e penso in particolare alle elucubrazioni di certi preti sulla felicità coniugale, e alle speculazioni sulla città felice che ci arrivano da certi conventi. L'uomo comune, dal canto suo, ha sostituito alla felicità una monotona serie di surrogati, offertigli generosamente dalla civiltà contemporanea: si diverte, nel senso pascaliano del termine. Dal tempo della famosa formula, intrepidamente lanciata dal convenzionale Saint-Just, "La felicità è una idea nuova in Europa", sembra che l'umanità non taccia altro che oscillare da un ozioso pessimismo ad un futile ottimismo, senza mai collocarsi nella situazione stabile che comporta la felicità. La sua scelta va di volta in volta dall'apocalisse alla parusia, laicizzata del resto, senza potersi fissare né sull'una né sull'altra.

Uno dei sintomi più clamorosi, e insieme misconosciuti di questa incomprensione dell'uomo d'oggi nei confronti della felicità, è il significato inedito che egli attribuisce al piacere. Che l'animale ragionevole sia avido di piacere, è un postulato valido per tutte le epoche, ma è appannaggio della nostra il fare del piacere un surrogato esclusivo della felicità, grazie a tecniche di sostituzione che eliminano quest'ultima in maniera definitiva. Senza dubbio, gli uomini hanno sempre desiderato la trasformazione del piacere in felicità: è di tutte le epoche il loro sogno di eternizzare il piacere e di sottrarlo all'azione distruttrice del tempo: ma ciò nonostante, non dimenticavano che il piacere è di per sé discontinuo ed effimero, va e viene, nasce e muore, e che il solo mezze di legarlo alla continuità, alla durata, alla dimensione sovrattemporale della felicità, era di trasferire la sua fragile e fugace sostanza a livello dell'immaginario, al riparo dagli attacchi del tempo.
Chi meglio di La Fontaine ha mescolato le ebbrezze del piacere e le delizie del sogno? Legando il piacere ai giochi della fantasia, i nostri padri lo spogliavano del suo carattere caduco, e tentavano, al di là del reale, soggetto agli attacchi del tempo, di fargli assumere il carattere stabile che attribuivano al suo modello, la felicità. Il loro solido realismo tuttavia non mancava di far sentire l'essenziale precarietà del piacere. Perfino nel secolo che fece del piacere una divinità, affermano i suoi più appassionati assertori: "Tutto, a lungo andare, ci stanca: soprattutto il piacere". Sono parole di Montesquieu che aggiunge: "I piaceri si lasciano con la stessa soddisfazione con la quale si sono presi". E Voltaire scrive nello "Zadig": "Il sempre del piacere, non è piacere". E Rousseau: "Abbiamo cercato il piacere, e la felicità se ne è andata lontano". La loro intelligenza è ancora abbastanza libera per dire, con i due bei versi dell'"Athalie":

Di tutti i vani piaceri in cui s'immerge l'anima loro,

che cosa resterà mai? Quello che resta d'un sogno.

In definitiva, è assurdo trasferire il piacere nel sogno: piacere e sogno sono ugualmente fragili, e l'uno non è meno eterno dell'altro. L'uomo moderno, al contrario, è tecnicamente riuscito a "far durare il piacere" nella stessa realtà, e a fargli imitare meccanicamente la felicità: l'uomo moderno ha colmato l'intervallo che separa i piaceri moltiplicandoli e imprimendo loro un accelerato ritmo di successione.

Che si tratti di viaggi, di mode, di letture, di spettacoli, di giochi, i suoi piaceri non sono tali per lui se non alla condizione di correre senza fermarsi mai, di sostituirsi gli uni agli altri a ritmo ininterrotto. La vittoria del piacere sul tempo che lo uccide è ottenuta con l'aiuto del tempo stesso, trasformando immediatamente il piacere in un altro piacere. Non è tanto questo che piace, quanto piuttosto la sua novità, e più ancora la sua velocità. Il piacere resta precario, ma la moltiplicazione della sua precarietà fa nascere artificialmente un surrogato di permanenza.

 

Simbolo di questo tentativo di trasformazione del piacere in un prodotto di sostituzione della felicità è oggi il cinema. Non è per caso che il cinema occupa un posto di enorme e privilegiata importanza fra i divertimenti dei nostri contemporanei: esso infatti riesce a barattare il discontinuo con il continuo, l'eterogeneo con l'omogeneo, l'istantaneo con il durevole: non è esagerato affermare che l'uomo moderno tende ad essere cinema, vale a dire cambiamento, nella misura in cui è diventato capace di ricostruire tecnicamente un surrogato di felicità con del piacere. Ecco perché non riesce più a percepire la stabilità propria della felicità, che va scomparendo dal suo orizzonte. L'uomo non prova più il desiderio di essere felice; la moneta falsa ha cacciato quella buona; a forza di nutrirsi di artifici, la fame del naturale se ne va.

 

Per questo, non c'è da stupirsi che sulla parola felicità sia caduto una specie di pesante tabù. Gli innamorati la sussurrano con prudenza perché parlare di felicità sarebbe oggi evocare uno spettro esorcizzato a dovere, risvegliare un ricordo molesto e, chissà mai, perfino scatenare una catastrofe. Se uno viene ad affermare ingenuamente che va alla ricerca della sua felicità, passa per svanito o ingenuo, se non addirittura per un mostro o un imbecille, e la pubblica opinione lo esclude dalla comunità. All'estremo opposto della nostra furia di piacere, pesa ancora su di noi la dura eredità di una morale negativa, fatta di divieti, piena di inibizioni, irta di cose da non farsi: è la morale che il giansenismo ha lasciato in eredità all'Europa. Ci è divenuta completamente estranea quella pienezza positiva di essere che comporta la felicità e che un san Tommaso, tanto per fare un esempio, assegnava ancora all'uomo come suo fine. È stato Kant a diffondere un atteggiamento di ostilità nei confronti della felicità, relegandola tra i fini patologici e sospetti dell'uomo.

 

La ricerca della felicità, per Kant, è addirittura immorale, e di questo bagaglio di inibizioni non si sono sbarazzate ne la morale borghese ne quella marxista. I due precetti "non rubare" della prima e "non possedere nulla in proprio" della seconda, sono, è chiaro, null'altro che precetti di diffidenza, che altro non fanno se non opporre al male delle negazioni. Abbiamo finito per non saper più che il male può essere vinto soltanto dal bene, e l'infelicità dalla felicità. Ignorando il valore positivo della vera morale, la società moderna permette tutto: avendo fondato la sua propria morale sulla negazione, vieta tutto. Mescola inestricabilmente il più spaventoso lassismo con le più pesanti costrizioni legali: una soffocante geometria giuridica e amministrativa coincide con il caos dei costumi.

 

L'umanità attuale disprezza la felicità, e lo dimostra, mettendo senza posa a ferro e a fuoco la terra. D'altra parte basta dare un'occhiata alla letteratura contemporanea per notare tutta una lunga diatriba contro di essa.

Già Flaubert confessava che la felicità "è una menzogna la cui ricerca è causa di tutte le disgrazie della vita". Per trovare degli uomini felici, bisogna proprio andare a frugare nelle vecchie "biblioteche rosa". A dispetto della cinematica dei piaceri con cui l'umanità contemporanea si stordisce, il tragico, l'angoscia, l'assurdo hanno invaso la letteratura che le fa da specchio, e la psicologia si dedica a esplorare i fallimenti.

Considerato individualmente, l'uomo d'oggi appare a se stesso in segreto come un essere mancato, congenitamente segnato da una specie d'incapacità a diventare quello che è: un uomo.

Il nostro secolo è quello degli "scontenti". Non è soltanto della propria sorte economica, politica o sociale che l'uomo d'oggi non si contenta, ma piuttosto di se stesso e del suo destino di uomo. Mentre rifiuta la felicità rifiuta al tempo stesso la propria natura di uomo: si rivolta contro se stesso, contro il suo contenuto, contro i suoi limiti. Per un paradosso che è tra i meno sconcertanti, il superuomo di Nietzsche si è moltiplicato nei mediocri: il secolo ventesimo è quello della deificazione dell'essere umano, spesso del più vile: Dio è morto e l'uomo, qualunque uomo, lo ha sostituito.

Una incredibile demagogia, fondata sull'adulazione e su una tecnica pubblicitaria senza precedenti, ha progressivamente portato l'uomo a gonfiare nell'astratto e nel vuoto le sue limitate possibilità concrete. Non c'è pigmeo che oggi non si ritenga un gigante, soprattutto nel campo affettivo, intellettuale e spirituale, nel quale è impossibile il controllo diretto. Una immensa letteratura si è specializzata nell'ipertrofizzare l'uomo e nel battezzare le sue "esigenze", i suoi umori, i suoi capricci, per non dire i suoi delitti: la stampa "del cuore", i "digests", la propaganda politica, perfino certe pubblicazioni religiose.

Sotto questa enorme pressione sociale, l'uomo moderno aspira continuamente a superare la sua capacità di essere, ma fuggendo se stesso, diventando null'altro che fuga e movimento. Il suo complesso di superiorità - il prodotto sublimato del suo complesso d'inferiorità -, la sua passione per il superarsi nasce dai suoi successivi aborti. Gli sembra intollerabile prendere su di sé la propria condizione umana, renderla stabile, e intravedere così la felicità. Per questo non riesce più a capire alcuno dei modelli umani che la tradizione gli ha lasciato in eredità. Le nozioni classiche di "kalòs k'agathòs" ("bello e buono") dei Greci, di "honnéte homme", di gentleman, che indicano ad un tempo l'uomo completo ed un certo genere di felicità, sono scomparse dal suo orizzonte e non animano più il suo comportamento. Non funzionano più neppure come maschere per la sua condotta. La vita moderna non impone più di "far bene il mestiere di uomo" e di essere felici, come volevano Montaigne o Aristotele: esige invece che uno se la cavi, e basta. Il manovrare e l'"arrangiarsi" hanno sostituito lo slancio naturale dell'uomo verso il compimento del suo essere e verso la felicità. L'impiego di mezzi così mediocri è proprio il segno della terribile crisi di finalità di cui soffre l'uomo, e le ignobili espressioni comuni che traducono questi mezzi mostrano a pennello che l'uomo moderno si trova perduto in una specie di giungla, e non sa più dove va a finire.

 

Niente da stupirsi che sia anche ossessionato dal desiderio di "piazzarsi". Cercare, trovare e occupare un "posto" è la sua preoccupazione dominante, è il sostituto della scomparsa finalità umana. L'uomo d'oggi ha l'impressione di trovarsi in un mondo di persone "non a posto" e tenta di sfuggire a questa insicurezza con tutti i mezzi, compreso il parassitismo. Ma ha perduto il solo mezzo che potrebbe dargli la stabilità: il suo stesso essere concreto. Non sa che un uomo che porti esattamente a compimento la sua capacità d'essere trova sempre il suo posto nell'universo; ignora che bisogna essere, prima di essere piazzati: non capisce più il senso della parabola evangelica: "Guardate i gigli del campo e gli uccelli del cielo". Le piante e gli animali non si preoccupano del loro vestiario né del loro nutrimento, in quanto obbediscono primieramente alla loro intima natura: l'uomo moderno vi ha rinunciato. Privato della potenza naturale della crescita, erra senza scopo nel mondo, prigioniero del dolore, malgrado i piaceri di cui si riempie. È senza dubbio a questa disillusione calata nelle pieghe più profonde del subcosciente che il nostro tempo deve la doppia tendenza a ricercare "la felicità collettiva" e ad abbandonarsi al "moto della storia". Le prospettive del "Welfare State" e dell'irresistibile corsa in avanti dell'umanità, considerata nel suo insieme, sono delle vie d'uscita o, più esattamente, delle distorsioni della finalità che travaglia ogni uomo venuto alla luce. Incapace di concepire e realizzare la sua propria felicità personale, ma al tempo stesso agitato dall'essenza della sua natura, l'uomo moderno ha trasferito sulla società di cui fa parte, sulle "riforme di struttura" o perfino sulle forze anonime che muovono la terra, il compito di dargli la felicità di cui è avido e il cui nome non osa neppur più pronunciare. È diventato così consueto, questo transfert, che la maggior parte non se ne accorge più, e ammette l'evoluzione come ineluttabile. E la cosa più straordinaria è che il contrario è impossibile: la sete di felicità è innata nella natura, e ne impregna a tal punto ogni attività che, non potendo svolgersi nel reale, si sfoga nel mito.

 

Da questa distorsione della finalità sono minacciate soprattutto le facoltà più alte dell'uomo. L'intelligenza umana, capace di "diventare tutto" e di dilatarsi ad abbracciare tutto ciò che esiste, si trova nella maggior parte dei casi magnetizzata da una parte della realtà, che ha staccato arbitrariamente dal tutto, e il cui carattere relativo ha elevato in assoluto. Così accade che di volta in volta la conoscenza empirica, la scienza positiva, i diversi sistemi filosofici, le varie specializzazioni e i mille mezzi di accostarsi alla realtà facciano sbandare verso frammenti del vero che hanno monopolizzato lo slancio dell'intelligenza diretta alla verità totale. Le verità si trasformano allora in menzogne, in illusioni esplosive che scoppiano sotto la pressione d'una forza che non possono contenere, devastando le altre verità, e devastandosi. Innumerevoli i guasti provocati dall'empirismo, dallo scientismo, dal razionalismo, dalle verità cristiane impazzite di cui parla Chesterton. Stessa cosa per la volontà: fatta per raggiungere la pienezza del bene, si fissa su di un bene parziale e derisorio, che gonfia smisuratamente nel suo stesso slancio, fino a trasformarlo in un idolo totalitario, evanescente, ingannevole. La vita umana è tutta segnata da queste aberrazioni. Significative le parole di Nietzsche: "Noi amiamo soltanto i nostri trasporti, non le cose verso le quali siamo trasportati"; in altre parole amiamo la nostra soggettività, e non, in essa, l'apertura verso l'oggetto. Questi sviamenti significano che l'uomo orienta la sua finalità non verso la realtà che gli è propria, ma verso l'immagine indefinita che si fa di se stesso. È un rovesciamento completo di valori: Narciso si pone come fine dell'universo, e l'universo si vendica, inghiottendolo.

 

La nostra epoca ha in qualche modo eretto questa tendenza in legge. L'uomo moderno, indebolendosi in luogo di completarsi, si appella alla società o all'umanità, composta di esseri umani miseri e manchevoli come lui, per raggiungere il fine che egli ha mancato. Questo paradosso è reso manifesto dalla grande serie dei collettivismi, dei nazionalismi, degli internazionalismi e supernazionalismi contemporanei: il meccanismo è semplice. Gettato nella miseria dalla perdita del senso della felicità, l'uomo è incline a proiettare in forma astratta e generale l'immagine illimitata della felicità che gli manca. Ciò che non si vive, lo si pensa, e se ne disegna il luminoso e seducente fantasma nella camera oscura dell'immaginazione. Se la sete mi tortura, eccomi ad immaginare una sorgente: non riesco a cogliere più nient'altro che quest'immagine dell'acqua che mi ossessiona, e che esiste soltanto nel mio spirito, tanto che il mio essere intero coincide con questo fantasma che mi sono forgiato. In altre parole, non soltanto lascio il reale per cogliere una pura chimera, ma esco dal mio essere per identificarmi con questa creatura del mio pensiero. In altre parole ancora, dato che separare e astrarre sono sinonimi, tutto diventa per me astrazione. Io stesso non sono che un'astrazione, e così pure il reale. Infine, poiché è caratteristica dell'astrazione l'universalizzarsi, l'adattarsi a un gruppo o a una classe, tutto finisce per perdere individualità e concretezza. La felicità che manca si trasforma in uno schema, una figura, una pura rappresentazione, che si estende a tutti coloro che mancano della stessa cosa. Da individuale e vissuta, la felicità diventa collettiva e pensata.

 

Il passaggio dal singolare manchevole al collettivo compensatore è quanto mai frequente. Il disincarnare una tendenza profonda e il ruminarla a livello cerebrale, ne trasforma il dinamismo, personalmente vissuto, in una entità astratta che altri uomini utilizzano immediatamente come prodotto di sostituzione. Chi è stato ingannato da una donna, sogna la Donna: l'eletta, fino a poco prima diversa per lui da tutte le altre, si dissolve nello spettro universale dell'Eletta, che affascina altri uomini.

Il romanticismo, malattia congenita dell'uomo, si è specializzato nella costruzione di queste ipostasi, in cui lo spirito supplisce alle "défaillances" della vita. Innumerevoli sono gli esempi di questa metamorfosi nel comportamento dell'uomo, mai a corto d'artifici per soddisfare le richieste della sua anemica natura. L'intellettuale senza genio invoca la Ragione, e il suo universale irraggiare; l'apostolo privo di magnetismo personale si rifugia nella chimera della redenzione di una classe, o dell'umanità; il filantropo sacrifica gli uomini in carne ed ossa alla specie umana. Ogni scontento di sé cade automaticamente nel culto di una nozione collettiva. Non c'è dubbio, a questo riguardo, che l'esaurimento della sessualità nell'uomo moderno è all'origine del mito freudiano della libido; la sua incapacità di comunicare vitalmente con gli altri, di quello del comunismo; e la debolezza dello stato, di cui esso è pretenzioso padrone, è la causa della statolatria. I fisiologi affermano che certe zone del cervello possono supplire ad altre distrutte da una malattia: lo stesso accade per l'anima, con la differenza che la natura umana, individualizzata in ciascuno, è sostituita da un sistema di pensiero immaginario.

 

Le stesse caratteristiche hanno le epoche storiche oscure. Gli Ebrei erranti nel deserto elaborano il mito di un popolo trionfante, installato in un paese dove scorra il latte ed il miele. L'immagine dell'ellenismo conforta i Greci vinti e decaduti. Le religioni della salvezza che pullulano a Roma all'inizio dell'era cristiana assicurano una salvezza meccanica ai loro membri, e anche i primi cristiani sono ossessionati dall'instaurazione del Regno di Dio in terra. Giustiniano risuscita il miraggio della "romanitas" per tentare di differire il crollo dell'Impero. La radiosa prospettiva del Sacro Impero si libra sul disordine germanico, al quale fa da contrappeso. Nel culto dell'antichità e dell'umanesimo si rifugia un'élite al momento della rovina dell'ideale teocentrico medievale, e nel turbine delle guerre di religione. E oggi, l'idea dell'Europa, non è spesso per molti una forma di rifugio?

 

Ma era riservata alla nostra epoca la trasfigurazione di queste idee collettive in individualità gigantesche: le astrazioni sono per il nostro tempo più vive che gli uomini. Quanto più l'individuo s'intristisce e si svaluta, tanto più il gruppo in cui si è dissolto se ne arroga gli attributi. Popolo, razza, proletariato, ed in genere ogni insieme fornito d'un qualunque indice sociale, sono dotati di vita propria. Il "grosso animale" platonico è sotto i nostri occhi in una moltitudine di esemplari: è lui che beve e mangia, che lavora, che combatte e si difende, che si copre di gloria, che esercita tutte le funzioni dell'individuo, negategli dal più elementare buon senso. È lui che monopolizza tutta la felicità sottratta agli esseri umani in carne ed ossa, che ne detiene tutte le promesse, e l'individuo non ottiene nulla se non si confonde nella grande enfiagione. Che egli stenti, soffra, muoia, non ha la minima importanza: occorre anzi che l'individuo manchi di tutto, perché il "grosso animale" possa nascere, essere felice e distribuire graziosamente la felicità di cui è gonfio. Una felicità astratta e collettiva, a livello del pensiero immaginario, diffonde una immaginaria esaltazione che distoglie l'individuo dalla ricerca della propria felicità. Non c'è periodo storico nel quale sia stata portata ad un simile grado di perfezione questa transustanziazione della realtà in una apparenza più reale della stessa realtà.

 

La felicità collettiva singolarizzata, caratteristica esclusiva del "grosso animale" è un fantasma svuotato di senso dalle sue stesse contraddizioni interne. Una felicità collettiva, impersonale, separata dall'essere umano in carne ed ossa, non è che una parola priva di significato, il cui possesso si può avere solo a prezzo d'un delirio allucinante nel quale l'individuo si assimila alla collettività. Come mostra l'esperienza, il "grosso animale" detentore della felicità è il prodotto di tutti i "piccoli animali" individuali, che si gonfiano fino a scoppiare. Ad ogni sgonfiamento, l'avventura deve essere ricominciata con eccitanti appropriati: poi l'ardore si spegne, e la maggior parte degli uomini si rassegna e si disintegra nella collettività. Poiché ogni azione emana soltanto dall'individuo, al quale essi hanno abdicato, ne segue che possono essere soltanto più dei soggetti passivi: delle cose.

 

Il perseguimento della felicità collettiva si rivela così la più vasta truffa che il mondo abbia mai conosciuta, che dissimula il suo vero scopo: la risurrezione della schiavitù. Il cerchio si chiude: lo schiavo è per natura infelice fin nel profondo dell'anima, e la felicità alla quale aspira non ha altra via d'uscita se non una rappresentazione collettiva, che consolida il suo asservimento. È lo schiavo che costruisce da solo le sue catene. E si rende vero il vecchio adagio: la disgrazia degli uni fa la felicità degli altri. Ma questi altri sono pochi: sono quelli che dirigono, direttamente o indirettamente, il "grosso animale". È giocoforza: un sistema schiavistico esige dei padroni e delle guardie, e divide la società in due gruppi, che hanno fra di loro soltanto una comunicazione verbale: i "condottieri" e quelli che li seguono, e, in una categoria a parte, i "beati possidentes" che hanno il privilegio di detenere, ad un grado qualunque, le leve del potere. Lo stato felice, isolato nella sua trascendenza, si libra sui "sottomessi ", ai quali garantisce l'esistenza materiale, e somministra un cibo spirituale destinato a prevenire ogni rivolta. È così, più o meno, per tutti i popoli della terra: lo esige la ricerca della felicità collettiva.

 

È proprio questo venir meno del senso della felicità che ha scatenato la straordinaria mistificazione che si chiama il "moto della storia", caro a quasi tutti gli spiriti contemporanei: gli uomini sono oggi convinti che un'onda irresistibile li porti, volenti o nolenti, con o senza il loro aiuto, verso un "mondo nuovo", senza gerarchie ne’ distinzioni, in cui regnerà una perfetta e definitiva democrazia economica e sociale. Anche coloro che maggiormente si oppongono a questo andazzo, vi contribuiscono di nascosto nella misura in cui pongono la felicità in quel bene apparente che è la fortuna, ed hanno in comune con gli avversari la stessa insoddisfazione che travaglia il loro essere, e provoca appunto "il corso della storia".

 

Ora, i fatti danno ogni giorno una energica smentita a questa escatologia: nelle società nuove che sorgono dalla storia, come in quelle che si abbandonano al suo corso per esaurimento, le vecchie classi scompaiono solo per far posto ad altre, ansiose di utilizzare, con violento senso della disciplina e della gerarchia, il potere che hanno conquistato. Cadono antichi privilegi, ma il favoritismo ideologico si moltiplica, ed il 5 agosto assomiglia al 3 come un fratello gemello (Il 5 agosto 1789 è l'abolizione dei privilegi; il 3 agosto 1802 la nomina di Napoleone a console a vita, N.d.T.) È molto difficile scoprire una sola traccia di democrazia effettiva negli stati che si fregiano di questo termine, il cui significato classico si è disperso in frammenti contrastanti: da una parte, una pretesa democrazia politica, dall'altra, una pretesa democrazia economica. Le trasformazioni economiche e sociali nascono nei cenacoli di pochi, e l'uomo della strada non è altro che materiale di manovra per i "wire-pullers". Lungi dall'unificarsi, il mondo si va spezzando sotto il martello dei nazionalismi: il presente nega deliberatamente l'avvenire. Malgrado la sconfessione clamorosa della storia effettiva, l'intelligenza disincarnata ed anestetizzata dei nostri contemporanei continua a correr dietro alle sue chimere.

 

Evidenti le analogie fra "moto della storia" e "felicità collettiva". Nel tempo, il primo rappresenta ciò che nello spazio è il mito collettivistico: un infallibile mezzo per assorbire l'individuo in una entità astratta ipostatizzata. La storia è il "grosso animale" in movimento, che costringe l'individuo a seguirlo, pena l'esser condannato a quella specie di morte anticipata che è la solitudine in un passato trascorso, senza contatto con l'umanità presente.

 

Sotto questo aspetto, il moto della storia è infinitamente più pericoloso delle elucubrazioni sulla "felicità collettiva". Occorre già una buone dose di energia per sopportare la riprovazione che si provoca rifiutando di partecipare alla costruzione della "felicità collettiva"; ma bisogna averne il doppio per subire il rimprovero di "non appartenere al proprio tempo". Nel primo caso, si è tacciati di "egoismo", nel secondo si è puramente e semplicemente espulsi dalla vita, si è dei "sorpassati", delle "nullità"; secondo il barbaro vocabolario degli esistenzialisti. Ora, se l'uomo tollera ancora di essere accusato di freddezza e d'insensibilità, non conosce accusa più offensiva che quella di non seguire la moda. La prima tocca la sua coscienza, la seconda la sua vanità. Un rimprovero che riguardi la moralità è molto meno grave d'una offesa al nostro amor proprio. E che? Non esisto più, non conto nulla; ma è terribile! Allora cambiarne il nostro comportamento mettendoci a rimorchio della storia. Il moto della storia tocca l'uomo in quello che ha di più caro: la vanità sociale del suo "io". Il segreto del successo del moto della storia sta nella paura che fa nascere, di non essere aggiornati. Si capisce perciò perché i sacerdoti - di chiesa, di setta, o di partito - siano per natura tentati dal culto servile della storia: si trovano al punto d'incontro fra un "messaggio" eterno - vero o falso che sia - e il temporale continuamente mutevole, e acquistano una mentalità strisciante, uno spirito di accomodamento e di conformismo, che facilita il loro compito: è più facile adattare l'eterno al temporale, che il contrario. Essi hanno bisogno di collocare le loro astrazioni nel senso del vento, per persuadersi che agiscono, e per provarsi che hanno ragione.

 

È dimostrata l'efficacia della teoria come arma psicologica. Nelle lotte politiche che lacerano la società, le sue elaborazioni demoralizzano e snervano l'avversario. Come potrebbe costui farsi sentire dall'opinione pubblica, che è sempre l'opinione dell'oggi, quando gli si fa colpa di avere una visione arretrata del mondo? È condannato così alla difensiva e alla disfatta. D'altronde, la favola del moto della storia ubriaca l'immaginazione e da a chi la usa la sicurezza di aver già avuto ragione del nemico prima ancora di combatterlo: si è più avanti di lui, e quindi si ha vinto. Tutti i partiti politici sono costretti a utilizzare quest'arma per non sembrare retrogradi, vale a dire battuti in partenza; per questo mobilitano la Città intera e la fanno scivolare meccanicamente nello sconosciuto.

 

Non c'è mito più nocivo che la convinzione di essere portati avanti da un movimento irresistibile: questa convinzione uccide l'intelligenza, perché essa ha bisogno d'una specie di pausa, ha bisogno di tirarsi indietro di un passo, prima di giudicare; le impedisce di distinguere il bene dal male, la realtà dall'apparenza; la abbandona, vinta o vittoriosa, ai Machiavelli che cercano di conquistare il potere. Così, sotto il pretesto di "liberarsi ", l'intelligenza abdica alla sua capacità di giudizio e alla sua libertà. Persuasa che non si può far nulla per risalire il corso della storia, si abbandona, come un cadavere alla corrente, a tutti i sofismi, purché siano strombazzati abbastanza dall'alto per soffocarla. Diventa incapace di discernere la salute dalla malattia, e di constatare che guarire non significa affatto ritornare all'età che si aveva all'inizio della malattia. Rifiuta la salute, e arriva perfino a chiamare beni i mali che la schiacciano, e felicità la sua disgrazia. È prigioniera dell'opportunismo, del conformismo: "Vox populi, vox Dei". Trasformandosi in intelligenza collettiva, si nega come intelligenza.

 

È normale: l'uomo che non conosce il suo bene non cessa per questo di desiderarlo, d'un desiderio informe e senza volto, nervoso e indeterminato, che si confonde con il movimento del tempo, con lo svolgimento della storia. Sprovvisto di intelligenza e di finalità reali, l'appetito umano si riduce a un indifferenziato divenire, che rende uguali e mobili tutte le condizioni, nella misura stessa in cui è indeterminato e mobile.

Privo d'una direzione, esso è braccato in tutti i sensi; sgretola tutte le diversità individuali o specifiche; livella la molteplicità gerarchizzata degli esseri e delle cose, e ciascuno diventa allora il sosia di tutti. La fraternità si perde nella similitudine; razze e patrie svaniscono, classi e persone diventano nebbia, e la natura a sua volta è volatilizzata e costituisce con l'umanità unanime un tutto unico, una "noosfera", come scrive nel suo gergo Teilhard de Chardin; una "noosfera" che tende all'unità attraverso la miriade dei punti di coscienza fuggevoli e occasionali che sono gli uomini. L'universo si trasforma in "Colui che è Unico", ne diventa il corpo, in cui tutti gli uomini, confusi in una specie di democrazia mistica e panteistica, godono della beatitudine per virtù automatica della storia che li muove. Questo, il sogno messianico sollevato dal desiderio degli adoratori della storia; ed è la misura della degradazione dell'intelligenza e del risentimento contro la felicità personale che imperversano nelle diverse ideologie contemporanee. L'uomo moderno, schiavo di un desiderio che si rivela incapace di illuminare, ritorna automaticamente all'ideale della felicità, caratteristico dell'alveare o del termitaio.

 

La continua tensione che caratterizza il desiderio dell'uomo, privato del senso della felicità, conduce allo stesso risultato: l'uomo s'identifica con la sua storia, e tutta la sua realtà umana diventa storica. Tutto il suo essere non è che un continuo sorpassarsi, come un fiume che avanza senza posa ignorando la sua sorgente e tutti i punti del suo corso. Ne passato ne presente hanno dunque significato umano: soltanto l'avvenire ne ha. Lo afferma Marx, con una formula da oracolo: "L'uomo è l'avvenire dell'uomo". Il che significa che l'essenza dell'uomo non è un dato, ma una costruzione umana, e che non esiste una natura umana, ma una incessante trasformazione o, più esattamente, una creazione dell'uomo ad opera dell'uomo nel corso della storia individuale e collettiva.

L'uomo che coincide con la sua storia si fa da solo; è il demiurgo di se stesso. Spodesta il Dio del Genesi e ne prende il posto. La sua sola fede è l'ateismo. Tutto ciò che separa l'uomo dal divenire, che è la sua essenza, deve essere distrutto: Dio, la proprietà privata, le differenze sociali, le strutture politiche, lo stato stesso sono soltanto delle alienazioni che allontanano l'uomo da sé; delle illusioni che egli coltiva per consolarsi di essere straniero al suo essere; delle realizzazioni fantastiche delle quali abusa per sfuggire al suo avvenire, e che consolidano tutti quelli che hanno interesse a far durare la schiavitù dell'uomo. Ma questi miraggi sono condannati dal progresso della storia. Possono ancora mentire e ingannare l'uomo, ma le loro apparenze sono cacciate dal soffio dell'uomo creatore di se stesso, a dispetto degli sforzi dei "tiranni" e dei "reazionari". La "rivoluzione" ne farà infallibilmente piazza pulita, perché c'è una necessità onnipotente che costringe l'uomo ad essere padrone del suo destino: come dice Sartre, buon erede di Marx, l'uomo "è condannato ad essere libero".

 

La natura umana non è determinata una volta per tutte, così da poter determinare l'essere umano. L'uomo è senza limiti. Per il fatto stesso che è uomo, è rivoluzionario, in rivolta contro tutto ciò che non è l'uomo, e si solleva invincibilmente contro ciò che non è la reale appropriazione dell'uomo ad opera dell'uomo, e per l'uomo. Il comunismo, che costituisce la radicale soppressione di quanto impedisce la riconciliazione dell'uomo con se stesso, è vero umanesimo: risolve l'enigma della storia umana, e sa di risolverlo. Investito degli attributi stessi di Dio, il comunismo pone termine, secondo Marx, alla "disputa fra l'individuo e la specie". Non ci sarà più lotta fra gli uomini perché ciascuno di essi sarà tutta l'umanità. E il paradiso terrestre sarà riconquistato.

 

Ora, se ogni individuo grazie al comunismo non viene più ad essere alienato in nulla e compie un completo ritorno a se stesso, l'universo non esiste più a titolo di realtà oggettiva, e tutto diventa soggettivo. Ogni presenza si dissolve in rappresentazione, e ogni essere concreto in una entità mentale. L'essere umano in carne ed ossa è inghiottito da un'astrazione, l'uomo diventa l'idea dell'uomo, e in essa si disincarna. Il comunismo si presenta così come una colossale macchina imbottigliatrice, che trasforma l'uomo nel suo concetto, la cui assoluta perfezione ha un solo inconveniente: quello di non esistere. Il mito comunista della storia divora "l'uomo nuovo" che ha messo al mondo, come Crono i suoi figli.

Nato da un desiderio senza termine, può approdare soltanto al nulla; è fatto di un nichilismo che uccide l'uomo concreto per far vivere l'uomo astratto.

 

Orbene, le analogie fra la teoria marxista della storia e l'"auri sacra fames" che essa pretende di estirpare, sono evidenti. Per il "capitalista" esiste una specie di autofecondazione del denaro; per il marxista, c'è una autocreazione dell'uomo. Per il primo, il tempo ha un valore di arricchimento; per il secondo la storia è una potenza di produzione. Come il denaro impregnato di tempo produce continuamente maggior denaro, l'uomo assimilato alla storia fabbrica continuamente un tipo d'uomo "più umano". I due atteggiamenti sono identici: l'uomo vale solo per la sua esistenza temporale, è continuamente insoddisfatto, e questo lo sospinge sulla via del progresso. Per il marxista, quanto più l'uomo si possiede, tanto più è. Per il capitalista, quanto più l'uomo ha denaro, tanto più è. Ciascuno dei due concepisce l'uomo come separato dall’avere che lo costituisce, come se avesse bisogno di recuperare qualche cosa che gli manchi, e ciascuno aspira a sopprimere questa alienazione, l'uno avendo sempre più denaro, l'altro possedendosi sempre maggiormente. In entrambi i casi, l'infelicità sta nel non possedere. I due sistemi si spiegano con la stessa carenza di una filosofia della felicità fondata sul compimento dell'essere. Così, entrambi sacrificano la felicità individuale o al denaro o all'idea collettivistica.

 

L'ossessione della felicità collettiva e il magico prestigio della storia sono i segni d'un rovesciamento integrale di valori nello spirito dell'uomo contemporaneo.

L'epoca moderna è stregata dalla rivoluzione a tal punto che non ne percepisce più la suggestione, come un morfinomane perduto negli incantesimi fantastici della droga. La maggior parte dei controrivoluzionari sono essi stessi dei rivoluzionari senza credere di esserlo, i quali mettono sossopra la realtà proprio pretendendo di raddrizzarla.

 

Lo spirito rivoluzionario si condensa interamente nella formula del vangelo secondo "l'apostolo" Jean-Jacques: l'uomo è infelice perché dipende da una società malfatta: il rifacimento di questa società gli darà la felicità cui aspira. Non è l'uomo in carne ed ossa che deve cercare e trovare la sua felicità, ma è la società - a condizione di cambiarne le basi - che deve dargliela, liberandolo dai mali che lo opprimono. Il Sociale è il Bene, il Bene è il Sociale; la Società è Dio, e Dio è la Società. Essa sola conosce il bene e il male, discrimina tra buoni e cattivi, pronuncia le benedizioni e le maledizioni. Il Sociale si trova investito di tutti i privilegi dell'Etica e della religione. Per lo spirito rivoluzionario, l'esistenza sociale rinnovata dalla rivoluzione è rivestita di carattere sacro: attentare alle sue conquiste sociali sarebbe non solo un delitto ma una profanazione. L'Arca dell'Alleanza che il messianismo e il razionalismo riconsacrano è intoccabile. La nuova Società è un Assoluto a cui l'uomo non può accostarsi senza morire: è insieme una Chiesa, una Provvidenza, un Redentore e un Salvatore. Il suo marchio s'imprime sugli atti stessi degli uomini: "Senza di me non potete fare nulla" o meglio "non siete proprietari di voi stessi".

Come ha sottolineato acutamente Michelet, "la rivoluzione continua il cristianesimo e nello stesso tempo lo contraddice: ne è insieme l'erede e la nemica". In parole più povere, ne è la caricatura.

 

Fino a oggi nessuna società, nemmeno la Città antica, aveva avanzato pretese così esorbitanti. Neppure il monarca più assoluto avrebbe osato proclamare che il suo regno era incarnazione del divino: il più duro dei regimi assolutisti, quello di Filippo II per esempio, si sottoponeva completamente a Dio: "omnis potestas a deis", o "a Deo". L'esperienza dimostra del resto che non è mai esistita società umana sprovvista di religione, e che una società "laica", priva di ogni riferimento religioso, è inesistente come un cerchio quadrato.

Un individuo può senza dubbio essere irreligioso o ateo, anche se poi, per poco che si scavi nella sua psiche, si finisce per scoprire, nascosta in qualche piega, una minuscola divinità dalla quale dipende e alla quale sacrifica in segreto; idolo che cambierà volto nel corso della sua esistenza, che sarà forse sostituito da altri, ma ciò non toglie che quell'uomo venererà sempre "qualcosa" che lo supera, e verso la quale egli tende: magari la propria immagine. Lo stesso Sartre ha perfettamente descritto l'uomo come una "passione di essere Dio"; come una tensione - impotente secondo lui - verso la trascendenza.

Ma se l'uomo può, a parole o per disattenzione, rifiutare ogni divinità a dispetto del suo comportamento, ciò è del tutto impossibile per una società. Dal momento in cui gli uomini entrano in relazione, hanno bisogno di credere in qualcosa, che tenga fermo il legame che hanno stretto fra loro. Il fatto di essere uniti lo devono principalmente a qualcosa di comune, la cui stabilità non può essere messa in dubbio, e che è analogo all'immutabilità divina. Dall'impegno reciproco giurato alla patria in cui la Provvidenza ci ha fatto nascere, tutte le forme sociali stabili si sono sempre collocate sotto il segno o nella luce della divinità. Tutti sanno che l'uomo è un essere mutevole, e che occorre una "forza" che lo sorpassi per mantenerlo in una società. "Ogni studio storico e positivo dei fatti sociali, condotto in uno spirito di miglioramento e di progresso", scrive Proudhon, "deve partire dal presupposto popolare dell'esistenza di Dio, salvo a dimostrarla in un secondo tempo". Che cosa è l'onore se non la fede in un ordine che trascende e rende solida la fragilità umana? Nessuno può garantire da sé solo che domani sarà uguale a quello che è oggi,

L'onore suppone che l'uomo sia sottoposto a una legge non scritta e "divina" la cui luce lo avvolge e lo sottrae al mutamento. La fede giurata presuppone una morale e una religione naturale, fondate sulla certezza che nessuno le tradirà: se questa base crolla, l'edificio sociale che vi si appoggia cade a sua volta. Dunque, nessuna società, senza riferimento a una qualche entità trascendente. Anche le convenzioni e i contratti durano soltanto se sono riferiti a una trascendenza implicita.

 

"Il governo soltanto non può governare", scrive Joseph de Maistre. Ed è una massima che risulterà tanto più valida quanto più la si mediterà. Il governo quindi ha bisogno, come d'un indispensabile servitore, della schiavitù che diminuisce il numero delle volontà che agiscono nell'ambito dello stato, o della forza divina che, grazie ad una specie di innesto spirituale, rompe la naturale asprezza di queste volontà e le mette in grado di agire insieme senza nuocersi. Ora, la caratteristica dello spirito moderno è di aver combinato insieme "schiavitù" e "forza divina", divinizzando la Società. Non c'è mezzo di governare oggi senza questo atto d'adorazione costantemente stimolato dalla propaganda. Soltanto la forza può porre dei limiti all'anarchia delle volontà individuali, ma, poiché la costrizione fisica è sempre precaria e il terrore fa un effetto incostante, si tratta di portare i cittadini di uno stato che rifiuta ogni trascendenza, a sottoscrivere la loro schiavitù, se non proprio ad amarla e a votarvisi. In questo modo non sembra più che l'oppressione venga dal di fuori, ma sorga dal di dentro, per una specie di "consenso naturale". La schiavitù è rigorosamente mantenuta, ma si traveste in volontà di essere schiavi o, più esattamente (giacché anche la parola, come la cosa, dev'essere dissimulata) in mistica unione della volontà del cittadino a quella dello stato.

 

Le moderne tecniche di propaganda sono capaci di compiere questa fusione con procedimenti assai simili al riflesso condizionale, per esempio associando l'idea di sofferenza a quella di straniero, di superiore o di padrone e, in senso positivo, a quella di liberatore, di riformatore, di costruttore d'un "nuovo ordine". Per far obbedire fino al fanatismo e al delirio i membri d'un gruppo, senza dar loro l'impressione che obbediscano loro malgrado, basta agitargli davanti il fantasma di un ordine sociale che li libererà dalle loro disgrazie. Questa rappresentazione penetra nel centro della loro coscienza e quasi all'origine stessa dei loro atti: poiché è solo una rappresentazione e non esiste che nel loro spirito, essi ubbidiscono alla volontà altrui persuasi di seguire la propria. E le ubbidiscono con attenzione, dato che il sociale si riferisce continuamente al religioso; ma divenuta immanente e trasformata in immagine, diviene l'oggetto di una autentica idolatria. Conoscendo la propensione dell'uomo ad adorare se stesso e le proprie idee, lo si prende, nel vero senso della parola, in trappola: nulla rafforza più la schiavitù che una immaginaria liberazione e la prospettiva d'una chimerica società. È un mezzo infallibile, usato da tutti i nuovi regimi e, nella forma edulcorata dello stato-provvidenza, dai più antichi.

 

Non sfuggono a questa regola fatale i raggruppamenti umani laicizzati dalla rivoluzione: le energie religiose dei loro componenti non sono affatto neutralizzate, ma si riversano semplicemente sul gruppo, popolo, razza, classe sociale, comunità linguistica; invece di superare il fenomeno sociale, vi si cacciano dentro e lo gonfiano smisuratamente. In ogni società si rivela la trascendenza di Dio o quella di un idolo, e quest'ultimo non è mai altro che la società stessa ipostatizzata in "grosso animale". La società esige un punto fermo di convergenza, vero o falso che sia, reale o illusorio. Il rovesciamento di valori operato dallo spirito rivoluzionario ha almeno il merito, in quest'epoca che va distruggendo, di mettere in rilievo questo fatto fondamentale: il collettivo, in tutte le sue forme, è solo il surrogato di Dio.

 

Ancora una volta, non potrebbe essere diversamente. Il rovesciamento rivoluzionario dei valori è fatale dal momento in cui l'uomo si ritrova infelice, incatenato ad una finalità senza scopo, incapace di raggiungere la sua felicità personale. C'è il fatto che nessun essere umano confesserà mai di essere miserabile per suo proprio difetto: per farlo, bisognerebbe che misurasse l'entità della sproporzione che lo porta al di là del fine che gli è proprio, e che costituisce l'essenza stessa dell'infelicità.

Un tentativo di questo genere è contraddittorio, ed è questo il senso profondo dell'antico concetto di Destino: l'uomo che spezza i suoi limiti si castiga con le sue stesse mani. Lungi però dall'accusare se stesso, accuserà sempre qualcosa che gli sta al di sopra, Dio o la società. Vorrà rifarli da cima a fondo, per porre un termine allo slancio indefinito che lo trasporta. Il tentativo però si conclude infallibilmente con un fiasco: come rifare ciò che sfugge per natura dalle mani? L'esito positivo andrà a perdersi in un avvenire sempre più promettente ma sempre più lontano. Per giustificare ai suoi propri occhi le sue iniziative, l'uomo è costretto a divinizzarsi e a socializzarsi sempre più, a trasformarsi in demiurgo della società, in un essere sempre più rivoluzionario, in un messia e in un tecnico del collettivo che non riesce mai a portare a termine la sua opera, e la cui insoddisfazione lo trascina in un perpetuo divenire, che genera una condizione sempre più miserabile perché non ha fine. Il rovesciamento dei valori implica il rovesciamento degli altri valori artificialmente ricostruiti; il processo non ha termine, la rivoluzione è rivoluzione contro se stessa. La si può interrompere soltanto con un colpo di forza dogmatico che blocchi arbitrariamente la corrente rivoluzionaria. Vedere Napoleone, Stalin, Hitler, Mussolini.

 

Ogni rivoluzione si cristallizza così in strutture amministrative e burocratiche, senza eccezione: il suo scopo è quello di congelare il torrente messianico e razionalista che trasporta la società nel suo "progresso infinito". Le facili riforme di struttura nell'ordine economico, politico e sociale, alle quali la maggior parte degli uomini danno oggi tutta la loro fiducia indicano che la corrente rivoluzionaria non si è ancora esaurita: sono dei tentativi impotenti di canalizzazione. La rivoluzione dimostra di essere della stessa natura conservatrice dell'infelicità umana che l'ha generata. La storia conferma, in modo lampante, che essa si consolida nel dispotismo delle forme giuridiche, nella "legalità rivoluzionaria" e, in ultima analisi, nell'involucro verbale della retorica superficiale. Questa mitologia sclerotizzata soddisfa il cittadino "astratto" e "l'intellettuale", ma l'uomo in carne ed ossa rimane con tutta la sua fame, privo di felicità ne più ne meno di prima. Niente da stupirsi quindi che la nostra epoca sia caratterizzata da un malcontento universale.

 

Concludiamo. Noi abbiamo perso il senso della felicità. Si tratta di ricuperarlo, sotto pena di vedere l'umanità condannata al perpetuo mutamento, che è uno dei nomi della morte. In che modo? Facendo ritorno a una morale umana, a quella morale propria dell'animale ragionevole e volontario che è l'uomo, che siamo tutti noi; rifiutando la pseudomorale collettiva propalata dall'opinione dominante; lottando con tutte le forze contro la pretesa fatalità della storia; persuadendoci che il mezzo migliore per evitare la rivoluzione è ancora quello di farla, ma di farla in noi stessi, nella nostra individualità; ritrovando infine, grazie a un'azione su noi stessi, quella pienezza di essere nella quale sentiamo che è riposto il segreto della felicità.

 

Soltanto grazie a una morale viva, e in essa, noi potremo essere felici.

La morale vivente ha la sua fonte nella vita: è molteplice, multiforme, diversa come la vita stessa. Tuttavia, se parte dalla diversità, va verso l'unità, dapprima in sé e poi intorno a sé. A somiglianza della vita, essa lega, articola, gerarchizza. Nulla di ciò che è reale nell'uomo, perfino l'istinto, perfino la passione, vi è escluso, ma vi trova posto nella convergenza di tutti gli elementi verso una unità centrale: educare bene l'uomo, come dice Montaigne. Lo stesso movimento si verifica nei gruppi sociali in cui l'individuo si trova immerso per nascita o vocazione: gli sforzi di ciascuno convergono verso l'unità. Ciascuno vi tende a modo suo, secondo il suo grado d'essere, più o meno bene; c'è anche chi recalcitra di fronte a questo lavoro di costruzione; c'è chi colloca l'unità dove non è. Ma gli errori e i rifiuti si pagano. Non solo vengono giudicati dalla loro coscienza e dai loro costumi, non solo sono accusati dai loro stessi frutti, secchi o marci, ma, in una società ben strutturata, pagano anche di persona i propri errori. I migliori hanno sempre da fare: ci sarà sempre da fare sulla strada d'una morale viva, per ogni generazione. Nulla è mai definitivo, compiuto e perfetto per l'uomo. Non c'è uomo perfetto, come non c'è società perfetta, altrimenti l'uomo sarebbe Dio, e la società paradiso. Lo sforzo va proseguito in ogni istante della vita, di padre in figlio, di generazione in generazione. La morale vivente è come la vita stessa: una lotta continuamente ripresa contro la divergenza e l'anarchia della morte. E ciò è tanto più vero per la sfera economica: non posso certo tralasciare di dire come questa convergenza di tutte le nostre facoltà e di tutti gli uomini verso l'"educare bene gli uomini", in cui in definitiva consiste la felicità, è richiesta dal dinamismo economico della nostra epoca.

 

È il vertiginoso sviluppo dei beni materiali che ci spinge oggi a ritrovare la nostra finalità essenziale. La materia, più saggia dei nostri spiriti sconvolti, più innocente delle nostre anime distorte; più veritiera delle nostre invadenti scienze esatte, ci obbliga a un miglioramento sociale e individuale. L'atomo - simbolo della nostra dinamica economia - ci porta un male o un bene immensi, a seconda che noi gli rivolgiamo la nostra convergenza o divergenza, il nostro fine di uomini in carne ed ossa o la nostra mancanza di finalità camuffata in astrazioni ideologiche.

 

Ci troviamo dunque di fronte ad una opzione radicale, da cui dipende la vita o la morte dell'umanità. È giunto il momento di mobilitare l'essere umano nella sua integralità, corpo e anima, riserve sociali e personali, malauguratamente disperse da una spaventosa politica di divisione, per poter avere ragione del nostro destino.

Anche i nostri interessi materiali ci costringono a essere uomini in pienezza, e a stringere nuovamente fra di noi solidi legami. L'economia non può più evitare di porsi al servizio della felicità degli uomini, se non vuole tramutarsi in un'arma distruttrice.

E allora, occorre: primo, una profonda riforma dell'economia, che va ripulita di tutti i retrogradi pregiudizi collettivistici che l'ingombrano; secondo, una riforma radicale dello stato, e la restaurazione d'un potere arbitrale indipendente nei confronti di tutti i gruppi.

Ma queste riforme esigono prima di tutto un rinnovamento delle nostre concezioni, dei nostri costumi.

C'è del pane sul tavolo: ma bisogna cominciare dall'inizio. Questa è la conclusione: a meno che la nostra imbecillità, la nostra cecità non facciano calare sulla scena del mondo, la tela che segnerà la fine della tragicommedia umana.