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LE TRASFORMAZIONI DELL'UOMO CONTEMPORANEO
di Marcel de Corte

La moderna cosmogonia immagina l'universo in espansione: un atomo originario, enorme, spesso, senza fratture, che si gonfia smisuratamente, e si spezza in mondi, galassie e nebulose. I frammenti, sparsi nello spazio ai quattro angoli dell'universo, si allontanano a velocità favolosa, ciò che era unito si disgiunge, universi si rompono e si spostano. Immensi mondi sono ridotti a tracce luminose che si spengono e si perdono in una notte senza fine. Le grandi luci di questo gigantesco fuoco d'artificio sono destinate a non conoscersi, a ignorarsi sempre più.

L'universo, nato dalla rottura, continua a rompersi, e morrà un giorno, al limite della rottura, come una bolla di sapone, come una membrana tesa allo spasimo, che finisce per scoppiare. Per uno strano paradosso, più l'universo diventa universale, e più perde la sua unità; più si fa, e più si disfa; più progredisce, e più si disperde.

La moderna cosmogonia presenta l'universo fisico come un insieme di relazioni che sempre più s'indeboliscono, i cui elementi diventano sempre più estranei gli uni agli altri. Questa immagine del mondo materiale è l'esatto riflesso delle attuali trasformazioni del mondo morale. La teoria dell'universo che si disgrega nella sua espansione, ci rivela un mondo morale i cui rapporti interni si spezzano, proprio come l'universo.

Questa, la morale della nostra favola.

L'immagine, in cui si corrispondono microcosmo e macrocosmo, illumina, come un "mito" platonico, le trasformazioni della vita moderna, in cui le relazioni dell'uomo con la natura, con gli altri uomini, con Dio, perfino con se stesso, sono profondamente alterate, e minacciano di sparire.

 

È un luogo comune dei nostri tempi affermare che il rapporto dell'uomo con la natura è completamente rovesciato. L'uomo moderno non segue più la natura come il suo antenato greco, non è più un elemento naturale d'un mondo naturale creato e riscattato da Dio, come accadeva al suo avo cristiano, e neppure domina più la natura nell'obbedirle, come prescriveva Bacone. L'uomo moderno è arrivato al punto in cui i1 suo sfruttamento della natura trasforma la natura stessa nel suo contrario, in un ambiente artificiale che la respinge progressivamente al di fuori della sfera umana. Non si esagera, affermando che si tende oggi alla massima assenza di relazioni tra l'uomo e la natura. Il rapporto familiare, rapporto intimo, carnale dell'uomo con la natura, che la civiltà contadina dell'Europa conobbe per millenni, regredisce continuamente. Già all'inizio del secolo il romanziere svizzero Ramuz diceva: "Il contadino sta per scomparire".

Noi traduciamo questo concetto con una frase banale: la vita moderna è industrializzata. Ben pochi riflettono al senso di questa industrializzazione, che è sempre esistita; fin dall'età paleolitica, ma che sta ora per cambiare significato. L'uomo agisce sulla natura, ridotta a un puro insieme di forze meccaniche che la trasformano in un semplice meccanismo razionale: le innumerevoli tecniche che dominano la natura e le strappano le sue energie, costruiscono un mondo che è soltanto una creazione umana, e che si va sostituendo alla natura oggi esiliata. Da giardiniere, l'uomo s'è fatto pirata, che sfrutta a fondo il suolo, gli alberi e l'erba, che rubacchia le risorse minerali, popola di macchine la sua esistenza, sporca l'aria e l'acqua, sofistica gli alimenti e deforma la fisionomia della terra. Abolito il contatto diretto, intuitivo, istintivo, simile a un'onda spirituale, dell'uomo con la natura, l'uomo non l'abbraccia più come l'amante l'amata, ma la violenta come una sconosciuta. Non la feconda neppur più: la sterilizza.

Per la maggior parte degli uomini d'oggi, ammassati nelle grandi città e negli agglomerati industriali, la natura ha perduto completamente la sua esistenza reale. Gli uomini ne sono separati dall'invalicabile barriera del nuovo ambiente di vita che essi stessi si costruiscono senza sosta. Basta vederli camminare la domenica, in campagna o in riva al mare, per constatare come la natura sia loro completamente estranea: l'evasione settimanale dall'ambiente artificiale urbano è un puro pretesto per un nuovo ammassamento, quello di cui tante località di villeggiatura offrono sciagurati esempi. Gli uomini si attaccano alla natura come uno sciame d'api che ha abbandonato l'arnia, a un albero incontrato per caso. Chi fugge dalla città ogni sera non vede nella natura che un luogo igienico, distaccato da sé, più o meno come un letto sul quale schiacciare un sonnellino. Quanto ai viaggi, alle escursioni, alle gite così facilitate dagli odierni mezzi di comunicazione, come pensare che questi luoghi in cui non si fa che passare riescano a lasciare una traccia nell'animo? Alla vista di questi viaggiatori, vien da pensare che la natura sia per loro soltanto un surrogato molto pallido del tecnicolor.

Fino a un'epoca relativamente recente, l'uomo aveva accettato la missione che a lui aveva affidato il Dio del Genesi: coltivare la natura e portare a compimento la creazione. Il lavoro dell'uomo non distruggeva l'ambiente circostante, ma lo nobilitava, elevandolo a un livello umano. I quadri di vita che il passato ci ha trasmesso, e che dovrebbero essere protetti, al giorno d'oggi, come certe specie animali in via di estinzione, ne fanno un'eloquente testimonianza. In tutti i loro aspetti, scopriamo una connivenza segreta e profonda tra l'uomo e il suo ambiente.

La natura ci appare come un corpo più esteso dell'uomo, come un prolungamento fisico della sua anima. Le tracce della comunione sono ancora visibili nei rottami, ricchi o umili, d'un immenso naufragio, avidamente ricercati dalla nostra povertà, e cantati dal poeta:

I mobili splendenti,

lucidati dagli anni…

 

I nostri padri sentivano con mito il loro essere la presenza della realtà dell'ambiente. La loro tecnica, che ci sembra derisoria, e che in realtà era assai fine, rappresentava l'estensione della loro facoltà di sentire con il corpo e con l'anima. In accordo con l'universo, radicati nel reale, in contatto assiduo con la natura, la conducevano, con la loro attività artistica o con il loro lavoro, verso la perfezione della sua forma umanizzata. Il loro ambiente di vita ne conservava le grandi caratteristiche: la stabilità, il ritmo, la vita, l'armonia che, secondo la definizione pitagorica, è l'unità del molteplice e l’accordo del discordante. Non v'è una sola traccia nell’ambiente umano d'un tempo, da cui non appaia, a uno sguardo attento, l'unione dell'uomo con la natura colta e vissuta fin nelle più intime fondamenta.

La vita moderna ha rotto il patto nuziale, la grande unione, l'amicizia fra l'uomo e la natura, come diceva Montaigne. E il grave sta non tanto nella volontà di potenza e di aggressività che l'uomo manifesta, e che esaurisce stupidamente la natura; non tanto nel culto della macchina e della tecnica, come spesso affrettatamente si afferma, ma nel processo di sostituzione.

La relazione fra uomo e natura è spezzata, d'accordo, ma a questa frattura, a questa amputazione, si sostituisce un apparecchio di protesi che accentua progressivamente l'impossibilità di tornare indietro. La civiltà urbana ne è l'esempio più tipico, caratterizzata com'è dalla ricerca, fino allo spasimo, di "aver tutto sotto mano", dal "comfort" che crea intorno all'uomo un ambiente in cui si spengono la capacità di sentire e d'imparare la realtà della natura. Chi ha tutto sotto mano è incline a non capire più nulla, a ignorare tutto. Si può usare il telefono, la radio, le macchine elettriche; si possono acquistare dei legumi, della carne, delle stoffe, senza capir nulla delle forze che si nascondono nelle cose. Ma è impossibile lavorare la terra con un aratro senza conoscerla. Questa nuova solidarietà dell'uomo, con un ambiente di cui conosce solo la superficie, rende l'uomo incapace di comprendere le profondità della natura se non in modo inconscio. A un ambiente in cui l'uomo e la natura sono in reciproco rapporto, se ne sostituisce un altro, in cui si escludono a vicenda: l'uomo si disumanizza, la natura si snaturalizza. L'universo morale è colpito dallo stesso fenomeno che distrugge l'universo fisico, man mano che i suoi elementi si disgiungono e si decompongono. Le due entropie gemelle sono irreversibili.

 

Questo nuovo mondo, interamente costruito dall'uomo, è caratterizzato inoltre da un fenomeno d'ampiezza inusitata nella storia: la razionalizzazione, il che significa ridurre le differenze, ed, al limite, sopprimerle. Razionalizzare è uniformare, collocare ogni cosa sotto il segno d'una astrazione comoda, maneggevole, che s'applica a tutto, e sempre nello stesso modo. È inevitabile che l'uomo, rotti i ponti con la natura, dove ogni foglia d'albero è diversa da un'altra, dove tutto è vario, multiforme, concreto, si abbandoni alla razionalizzazione intensiva, e perda il senso dell'individuale, del carnale, del concreto. Alla sua impoverita sensibilità, sopperiscono le potenze astratte del numero, della statistica e del calcolo.

Sotto questa nefasta influenza, la policultura cede alla monocultura, orti e campi allo sfruttamento industriale della terra. Le città operaie, gli appartamenti simili a "buildings", gli edifici dell'architettura cosiddetta funzionale, con le mille finestre tutte uguali che guardano come un gigantesco occhio di mosca, sostituiscono la diversità vivente delle case d'una volta.

Intanto la standardizzazione degli oggetti familiari invade l'ambiente dell'uomo; da una parte all'altra della terra, si tende a vestirsi, a nutrirsi, ad alloggiare, a godere, a vivere e a morire, nello stesso meccanico modo. La vita non è più ritmata dall'alternanza del giorno e della notte, delle stagioni fredde e calde, del riposo e del lavoro: ma sistole e diastole sono eliminate da una tecnica perfezionata.

Il subcosciente dell'uomo, travagliato dalla sua inferiorità biologica e dal suo disadattamento alla natura, si tende, si rivolta e finisce, per impotenza, nella nevrosi. Lo invade una noia sorda e mortale, appena mascherata dalla continua fuga nel divertimento. È normale che questi ambienti uniformi fermentino continuamente nell'intimo, e si rovescino come spessa schiuma in miserabili sobborghi ed anche nelle campagne. Congelati e trepidi, inorganici e cancerosi, essi diramano dappertutto lunghe metastasi distruttrici che rendono uguale il mondo intero.

L'uomo che vi si trova immerso, si cerebralizza al limite estremo (senza per questo diventare più intelligente, anzi!), pensa per schemi prefabbricati, percepisce soltanto più sensazioni violente, le sole accessibili al suo stato di disincarnata astrazione. Via via che l'uomo trasforma in questo modo l'ambiente naturale al punto da distruggerlo e da sostituirgliene un altro, si trasforma a sua volta: lo hanno visto i marxisti, con terribile e beffarda lucidità.

Così, si modifica profondamente il rapporto dell'uomo con i suoi simili.

 

Il mutamento delle relazioni fra uomo e uomo nella vita moderna, è un fenomeno che salta agli occhi, ed accompagna inevitabilmente la rottura del legame che stringeva l'uomo alla natura. Lo si può osservare a tutti i livelli della vita sociale. Una volta, ci si univa nel sentimento originato da una stessa fonte, e la famiglia era il tipo su cui si modellavano tutte le altre comunità. Gli operai si raggruppavano intorno al padrone, nell'impresa nata dalla sua genialità industriosa, gli abitanti di un villaggio, di un paese, di una regione intorno a un notabile, i cittadini di una nazione intorno al principe, i fedeli intorno al pastore, come i figli intorno al padre. La relazione orizzontale, di vicinanza, era direttamente dipendente dalla relazione verticale di filiazione. Gli uomini si sentivano realmente ed effettivamente solidali gli uni con gli altri, nella stessa misura in cui sentivano in mezzo a sé la presenza concreta di un padre sottoposto allo stesso destino: oggi, essi si sono separati dal padre, come si sono allontanati dalla natura materna.

In termini psicanalitici l'assassinio del padre, storicamente e simbolicamente compiuto nella persona di Luigi XVI, ha segnato l'uomo fin nell'intimo del subcosciente. Si è scatenata una vera e propria aggressione contro tutte le forme di presenza paterna: padre di famiglia, padrone, notabile, re, sacerdote. La marea ha sommerso tutte le relazioni con una tale violenza, che restano soltanto qua e la alcuni isolotti sperduti.

Ne è risultata una netta distorsione dei rapporti fra gli uomini, diventati sempre più estranei gli uni agli altri, nonostante il loro ammassarsi; e poiché devono pur vivere insieme, hanno sostituito al rapporto concreto un rapporto astratto, quasi sempre di tipo legale.

Indubbiamente, relazioni vive come quelle d'una volta esistono ancora nell'interno delle famiglie, ma tendono ad allentarsi sempre più nello spazio e nel tempo. Il divorzio, la divisione forzata delle eredità, l'indipendenza della donna sposata, il suo lavoro al di fuori della famiglia, la crescente autonomia dei figli, erodono queste relazioni, e via via le sostituiscono con la semplice iscrizione comune nella stessa pagina del registro di Stato Civile.

I rapporti organici e concreti che ancora rimanevano nelle imprese sono messi al bando dai sindacati dei padroni e degli operai, accomunati soltanto da un reciproco spirito di rinvedicazioni. Notabili e principi sono stati cacciati dalle ideologie politiche di partito. La patria è morta, e sul suo cadavere crescono le erbacce della dottrina della razza, della classe, dello Stato, dei predominii economici, dell'umanità.

Man mano che avvengono queste sostituzioni, la relazione fra uomo e uomo passa dallo stadio della vita, che ne articola i termini, a quello dell'astrazione, che li giustappone superficialmente.

 

Guardiamo il più forte e il più sottile, il più prorompente e il più delicato dei rapporti fra gli uomini, l'amore. Evidenti la sua svalutazione e la sua caduta sul piano dell'astrazione. L'amore oggi è legato solo alle innumerevoli eccitazioni corticali di questo mondo di carta, d'immagini, di pubblicità. L'amore terrestre, lungi dall'emanare dalla potenza biologica propria dell'uomo, ed essere integrato più o meno felicemente dallo spirito, lungi dal prorompere da un eccesso di vitalità senza misura e senza partecipazione mentale, come in certi indimenticabili personaggi di La Varende, ha la sua fonte soltanto più nel cervello; prende vita da una intelligenza degradata in cui ad una vitalità esangue si sostituisce la curiosità mentale.

L'uomo d'oggi è sollecitato non tanto da una certa donna, o dall'eterno femminino, ma dal sesso elevato in entità a sé stante, in una mostruosa idea afrodisiaca. Testimonianza che il nostro tempo rende a se stesso, è il formidabile successo delle teorie freudiane, che hanno invaso non solo le cliniche psichiatriche, ma anche le tecniche pubblicitarie, il cinema, le riviste, la letteratura, l'arte, la moda, l'educazione, perfino i chiostri. Il freudismo, come il marxismo, trionfa perché s'adatta non all'uomo eterno, ma, al contrario, all'uomo trasformato da deleterie influenze, ed il cui essere adulterato si riduce ad un universalizzato schema sessuale.

Il freudismo non è legato all'inconscio biologico dell'uomo più di quanto lo sia il marxismo ai suoi bisogni economici: è semplicemente il risultato d'una malattia dello spirito, ridiscesa nelle viscere, una devitalizzazione dell'anima che impregna, come una pioggia pestilenziale, una carne impoverita di spirito e meccanizzata.

Basta guardare al "sex-appeal" ed ai suoi mille artifici, che colpiscono il cervello, più di quanto non eccitino la carne.

Basta guardare al tipo della "vamp", all'assenza di vita dipinta in tutta la sua fisionomia; alle tecniche di pensiero e di metodico calcolo che hanno il sopravvento, nella propaganda maltusiana, sulla naturale generosità della vita. L'amore sessuale non ha neppure più la spontaneità esplosiva di un riflesso: nella tenda del guerriero moderno, la foto della "pin-up-girl" ha sostituito la violenza commessa dal mercenario; sarebbe un gran bene, d'accordo, se questa trasposizione di una venere di quadrivio a livello delle meningi non coincidesse con quella del dio Marte al livello d'una scienza matematica della distruzione. Il guaio è che le viscere risalgono alla testa, e ne ridiscendono nelle parti basse corrotte e malsane. Il dongiovanni contemporaneo non è più l'uomo che ama tutte le donne, ma un pensiero ossessionato dalla sola immagine astratta del sesso.

È significativo che il tipo del seduttore sia scomparso dalla letteratura contemporanea, come pure quello dell'innamorato, per far posto a quello del "gigolò" o della bestiolina. Un personaggio come il visconte di Valmont, che pure è fortemente cerebrale, è oggi assolutamente impensabile.

 

Il fenomeno è lo stesso nelle forme superiori dell'amore, e, in modo assai singolare, nell'amore cristiano, nel quale si sta trasformando la carità che prorompe dal cuore in presenza del prossimo di cui sentiamo la miseria o la debolezza. Come negli organismi invecchiati e arteriosclerotici, vediamo in molti cristiani il lento ed inarrestabile risalire al cervello di questo amore unico, di cui san Giovanni ha parlato in termini appassionati: "In che modo colui che non ama il prossimo che vede, potrebbe amare Dio, che non vede?".

Il fatto è che l'amore astratto s'è impossessato di molte mentalità cristiane, ed ha ridotto all'inazione l'amore concreto per il prossimo, quello in carne ed ossa. Senza dubbio, una certa "intellighenzia" cristiana, al vertice dei suoi pensieri e del suo amore, ha soltanto più delle astrazioni: popolo, proletariato, democrazia, evoluzione sociale, per non parlare dell'evoluzione generale dell'universo trasformato in noosfera verso un punto "omega" che sarebbe Dio...

Il cristiano tradizionale non ha mai amato un'astrazione, non un operaio in quanto membro della classe operaia, un duca in quanto aristocratico, un Patagone in quanto uomo. Gli è impossibile: può amare soltanto quell'operaio, quel duca, quel Patagone, per il semplice fatto che li conosce, che partecipa alla loro vita; perché delle qualità comuni, assolutamente indipendenti dalla loro qualità di operaio, di aristocratico, di uomo in generale, hanno tessuto fra di loro dei legami concreti.

Ama, nel vero significato del termine, un certo numero di esseri umani, non molti a dire il vero, poiché le sue relazioni sono il più delle volte ristrette. Se li conoscesse tutti, si sforzerebbe di amarli tutti, quanti sono sulla terra, e se per caso incontra un ferito sul ciglio di una strada, in quel momento lo conosce e lo ama; ma l'amore dell'umanità gli è sconosciuto.

Come un uomo normale ama non già la bellezza, ma le cose belle, egli ama non l'umanità, ma gli esseri umani in carne ed ossa; li ama come prossimo, qualunque sia la loro qualità. E prossimo vuoi dire vicino, accanto a qualcuno che porta un nome proprio, con il quale sono allacciate delle relazioni. L'amore reale esige un oggetto concreto, ben diverso da una rappresentazione collettiva del pensiero: ogni altra forma d'amore ne è semplicemente la contraffazione. Se questo sentimento non è cristiano, è dovuto al fatto che l'accezione tradizionale del termine cristiano ha cambiato senso.

 

Ed è vero. Oggi, in molte anime cristiane, si è indurito un certo intellettualismo sospetto, unito ad una torbida affettività, una specie di romanticismo dell'amore. Anche qui, è il cuore che sale nella testa, e ne ridiscende un po' meno cuore, un po' meno palpitante. Ci si ritiene esonerati dalle esigenze dell'amore perché si ama il popolo, la democrazia, la classe operaia; ci si convince che questo è il vero cristianesimo, la carità autentica. Potrei fare il nome di dieci intellettuali cristiani, i cui scritti le cui parole trasudano di questo"amore", mentre del popolo conoscono soltanto i propri domestici, della democrazia il principio teorico ed i rapporti che hanno potuto avere con una anonima folla, della classe operaia sì e no l'idraulico venuto un giorno a riparare il loro bagno. Intorno a me, posso osservare centinaia di cristiani che si danno ad amare idee simili, nelle quali il prossimo in carne ed ossa si disperde in una esistenza spettrale.

Che l'amore naturale e quello soprannaturale si gonfino in astrazioni, è facilmente spiegabile: l'amore di entità astratte, in cui l'uomo concreto si scioglie come neve al sole, è infinitamente più facile che l'amore del prossimo in carne ed ossa. Dice un umorista inglese che è molto facile per l'uomo amare la donna, ma è assai più difficile amare la sua donna. E poi, l'amore vero fa uscire l'essere al di fuori di sé, e lo trasfonde interamente nell'altro: è un dono, mentre le astrazioni non escono dal pensiero che le produce, se non sotto forma d'inchiostro o di saliva. Amarle, equivale ad amare il proprio pensiero, ad amare se stessi, a non uscire mai da se stessi. Ne è capace anche l'ultimo degli uomini.

 

Man mano che il rapporto tra uomo e natura, e tra uomo e uomo, va modificandosi, si trasforma di pari passo la relazione fra uomo e Dio. Come si potrebbe ancora conoscere ed amare Cristo, se la natura non ha più che un volto umano sfigurato, se l'uomo non ha più che un volto umano diluito nelle astrazioni?

Tipico, in questo senso, il declino del cristianesimo e delle grandi religioni della salvezza, nelle zone afflitte dalla massiccia invasione delle macchine industriali. Altrettanto tipico, il loro isterilirsi là dove imperversano le entità astratte, come stato, razza, classe, popolo, democrazia, proletariato. Arriviamo all'essenza stessa della vita moderna: l'idolatria del collettivo, sul piano politico come sul piano economico.

Per comprendere il fenomeno, d'estensione e durata uniche nella storia, bisogna preventivamente capire come l'unico idolo che l'uomo possa sostituire a Dio è l'Io: non ve ne sono altri. La molteplicità degli idoli è semplicemente l'espressione dell'infinita capacità di metamorfosi dell'Io proteiforme. In secondo luogo, bisogna arrivare a capire che non esiste la minima differenza fra il piccolo animale che noi chiamiamo l'Io, e quel"grosso animale" che è il collettivo.

Che cos'è l'Io se non il risultato della rottura di ogni legame che unisce l'uomo al mondo, e fa da tramite alla presenza del reale? L'uomo ridotto al suo Io ha spezzato le arterie che lo legano alla realtà ed al principio d'ogni realtà; s'è vuotato per sempre del sangue che lo nutre; si è alleggerito di tutto ciò che lo fa esistere.

Grossa farsa il dire che l'Io non ha bisogno degli altri: al contrario, l'Io ha essenzialmente e tirannicamente bisogno degli altri, e la sua povertà è tale che deve esigere tutto proprio da quegli altri dai quali si separa senza poter rendere loro nulla, mai. L'Io è un vampiro, che sugge il sangue degli altri con tanta maggior forza e impazienza, quanto più è radicato. Al limite, l'Io è costretto a divorare ogni cosa per rifarsi un'esistenza che gli sfugge via da tutte le ferite, e per tentare di esistere, deve chiamare in soccorso l'intera collettività umana.

Popolo, razza, classe, proletariato: ecco i suoi dèi. Attraverso di essi l'Io adora se stesso. Insidiosamente, si divinizza in essi. Idolatra le collettività perché coincidono con lui, le adora perché si adora. Assurdo dunque parlare d'irreligiosità contemporanea: mai, anzi, la vita umana è stata più impregnata di mitologia, mai gli uomini hanno creduto con tale fervore, fanatismo, entusiasmo. Tutti i grandi movimenti politici di massa che troviamo da qualche lustro a questa parte, altro non sono che epidemie religiose. Non hanno nulla di politico nel senso proprio della parola, ma mirano invece, sotto una direzione politica che li utilizza per i suoi fini, a conferire a ciascun Io lo statuto di divinità.

Un sistema di vaste proporzioni, il marxismo, ha in qualche modo codificato questa tecnica. Come il sincretismo orientale alla fine della civiltà antica, esso si colloca alla confluenza di tutte le mitologie, di cui assimila il contenuto. Chi afferma il proprio Io, è destinato, presto o tardi, ad essere preso nel suo infernale ingranaggio.

 

Non è per caso che l'idolatria del collettivo va di pari passo con lo sviluppo della tecnica nella vita moderna: divisione estrema del lavoro, esplosione di trusts e di monopoli, industrie gigantesche, nazionalizzazioni, finanza internazionale, amministrazione statalizzata, dominio dei piani. Le due tendenze hanno un'origine perfettamente simile: la rottura del legame che unisce l'uomo alla natura ed ai suoi fratelli.

Né l'ambiente naturale, né quello umano sono suscettibili di estensione indefinita: la rana umana non può diventare un bue interplanetario senza pericolo di scoppiare. Perché questi ambienti siano cose vive, bisogna che corrispondano alla capacità dell'uomo di abbracciarli, e se io posso abbracciare in modo vivo e vero la mia regione natale, un po' meno ci riesco per la mia patria, meno ancora poi per l'Europa o il mondo. L'uomo che non sente più la presenza effettiva della natura e dei suoi fratelli intorno a sé, non ha più dei quadri di vita. Senza la disciplina di questi ultimi, le tecniche hanno potuto dar vita a collettività umane che s'ingigantiscono smisuratamente sotto i nostri occhi, in un modo che sembra preordinato, mentre è soltanto anarchico. Le grandi combinazioni commerciali, industriali, finanziarie, si estendono da se stesse senza limiti perché non trovano alcun limite, perché non ci sono più comunità umane che le moderino in forme precise. Le tecniche s'articolano alle tecniche, senza che alcuna linea di demarcazione ne determini o ne limiti la crescita. La macchina pare dotata d'una vita propria, la sua produttività si sviluppa autonomamente quanto più ha bisogno di distruggere per estendersi. Ne fa testimonianza l'esempio delle guerre mondiali, la cui origine economica è fuori dubbio.

 

Assurdo dunque attribuire soltanto alla tecnica tutti i mali di cui soffriamo, come troppo spesso si fa. Lo straordinario caos della vita moderna, la tirannia della meccanizzazione che si afferma in tutte le sfere dell'attività umana, sono provocati dall'incontro della tecnica con un tipo d'uomo che ha rotto i suoi legami vivi con la natura ed i suoi simili.

Assolutamente falso affermare che lo sviluppo della tecnica e il dinamismo dell'economia hanno mandato all'aria le linee tradizionali dell'esistenza: è vero il contrario. È proprio lo spezzarsi di queste linee, con la conseguente anemia dell'essere umano amputato dei suoi rapporti vitali, che ha determinato l'avvento della tecnocrazia. Non è privo di significato il fatto che la tecnocrazia abbia preso per la prima volta coscienza di sé proprio negli Stati Uniti, paese popolato di esseri senza radici. Così, la tecnocrazia sovietica è nata dall'immaginazione di rivoluzionari strappati alle loro radici: dappertutto essa è legata ad uno sradicamento.

L'individuo divelto dalla campagna non si butta verso gli impieghi in burocrazia, la grande città anonima, la fabbrica tentacolare? E le aspirazioni di tutti gli sradicati dall'esistenza non son dirette verso lo statalismo?

La natura dello schiavo tende alla schiavitù.

Se l'uomo si meccanizza, è perché si è già svitalizzato, perché ha rotto i legami vitali che lo univano alla natura ed ai suoi simili. Bisogna ripeterlo senza stancarsi: non c'è rimedio alla soffocante proliferazione delle tecniche, se non nella decentralizzazione e nel ritorno dell'uomo alle linee elementari della vita quotidiana. Le tecniche domestiche - pensiamo al valore della parola domus, casa - da malefiche che erano, spiegheranno allora i loro benefici effetti.

 

C'è da osservare poi che nel vivere dentro immense sfere, senza potersi compenetrare e comprendere, gli uomini si fanno aggressivi: il vicino diventa il nemico del vicino, ciascuno difende rabbiosamente il posto che occupa, vede troppo vicino l'Io minaccioso dell'altro, e s'inalbera. Occorre allora una costrizione esterna per mantenere l'ordine politico ed economico in questa confusione. Ed ecco il circolo vizioso. Basta la più elementare esperienza della vita moderna a mostrare come il collettivismo e la tecnocrazia siano continuamente carichi di dissidi interni: vedere le lotte fra i grandi feudatari della tecnica, le epurazioni all'interno del regime marxista. Tutto ciò che è concentrazionario può esistere solo grazie alla forza, e quanto più la forza cerca di tenere insieme i vari elementi stagni, tanto più ne aumenta la forza esplosiva. Nella società, come nel mondo fisico, lo sfregamento degli atomi gli uni contro gli altri, li riscalda fino all'esplosione.

Non soltanto i grandi gruppi artificiali, che non trovano altro rimedio alla loro ostilità larvata che la fusione nella confusione, si disgregano, ma l'uomo stesso, come l'atomo. La disintegrazione atomica è l'immagine esatta della disintegrazione dell'uomo: questa la trasformazione più visibile, e tuttavia più inosservata, della vita moderna.

 

Un tempo, l'essere umano era quello che era, e nulla più: la natura, la presenza concreta di altri uomini, la fede in un Dio personale, onnipotente e trascendente, esercitavano un controllo abbastanza efficace perché non potesse sfuggire ai propri limiti e alla propria realtà. L'uscire al di fuori di se stesso gli era sconosciuto.

Oggi siamo al polo opposto: l'essere umano evade continuamente al di fuori di sé, in un'immagine spettacolare che forgia di se stesso, e che è la negazione della propria realtà. Basta guardarsi intorno: ciascuno si vuole diverso da quello che è, si sdoppia, si divide e si disintegra. L'essere si cancella, a tutto vantaggio dell'apparenza. L'uomo si crea una maschera che nasconde il suo volto, e si persuade che questa sia quello vero.

Sono ancora donne quelle specie di maschere femminili delle grandi città, e anche delle campagne, imbellettate dentro e fuori, con il cervello farcito di romanzi da quattro soldi, d'immagini volgari, di scene hollywoodiane, che conducono un'esistenza irreale fuori di casa? Sono ancora uomini certi "intellettuali", il cui pensiero non ha mai fatto presa sulla realtà, senza alcuna esperienza della vita, che "vivono" in un mondo di idee disincarnate? Gli scienziati che esorbitano dai limiti della loro scienza i sacerdoti che abbandonano il Vangelo di Cristo per seguire quello di Marx, e che prescrivono agli uomini illusorie direttive sulla loro salvezza temporale e sul governo politico, sono ancora dei saggi contemplativi?

E i romanzieri, i poeti, gli artisti che si ergono a direttori di coscienza dell'umanità, sono ancora degli innamorati della bellezza?

Sono ancora dei cittadini quegli individui che chiacchierano a perdifiato di politica interna e internazionale senza conoscerne il minimo elemento concreto, che hanno abbandonato la loro patria di carne per una patria ideologica, individui la cui capacità riflessiva si riduce a quanto hanno letto sul giornale del mattino? Sono ancora uomini di stato i politici che fabbricano leggi e regolamenti da mattina a sera? E gli innumerevoli fantocci che credono che il fumo negli occhi e il denaro siano il segno della distinzione sociale, sono ancora esseri umani?

 

Il motivo di queste profonde trasformazioni della vita contemporanea?

Si può eludere la domanda con lo scettico distacco di un Jacques Bainville, quando diceva: "Tutto è sempre stato cattivo".

Cercate bene nella storia - dicono gli scettici - ed in ogni epoca scoprirete questo scisma. Inutile prendersela. L'umanità va avanti a caso. Non c'è ne regresso ne progresso, ma una assurda avventura che va a tentoni, nelle tenebre. Oscuri progressi compensano regressi altrettanto oscuri, perché l'uomo va indietro su un punto ed avanti su un altro. La storia umana è un susseguirsi inestricabile di cose positive e negative che si annullano a vicenda.

Ci si può abbandonare al fatalismo: il mondo morale - si dice - è sottoposto alla stessa legge di entropia che governa il mondo fisico, o meglio, le società umane sono caratterizzate anch'esse dall'alternarsi di vita e di morte che ritma il succedersi degli individui e delle generazioni sulla terra. Vengono a proposito le parole di Valéry: "Noi civiltà, sappiamo di essere mortali", e la grande inchiesta di Toynbee sulla storia dell'umanità: ventun civiltà sono nate nel tempo, tredici sono morte e sepolte; delle altre, sette sono in declino, e la nostra, l'ultima, ha quasi certamente superato il suo apice.

Nonostante il suo ottimismo religioso, Toynbee subisce l'influenza del pessimismo di Spengler, e della sua diagnosi sul declino dell'Occidente. Una civiltà che si universalizza - osserva - è vicina al tramonto. Man mano che la vita moderna si estende sul nostro pianeta, si disperde in frammenti antagonisti, che ne annunciano la sparizione. Come non ricordare qui l'espansione e la sistemazione rigorosamente parallele che la moderna cosmologia scopre nell'universo stellare?

 

Ma la causa più profonda delle malefiche trasformazioni della vita contemporanea ci sembra d'ordine politico. Che non tutto possa andar bene, d'accordo; che l'uomo invecchi, d'accordo; che le civiltà siano mortali, è evidente.

Resta il fatto che una buona politica può proteggere indefinitamente contro l'usura del tempo e le tempeste dell'esistenza quell'insieme di preziosi imponderabili che si chiamano civiltà; può armonizzare la tradizione con i cambiamenti inevitabili nel corso della storia umana. La vita è essenzialmente un movimento costante verso l'unità, la morte invece è movimento verso la dispersione.

Una buona politica deve vigilare continuamente, senza tregua, su questa duplice tendenza, e favorire con tutte le forze il mantenimento dell'unità organica. Tra i cambiamenti della società, deve effettuare una scelta, adattando all'unità i mutamenti idonei a consolidarla, e sanzionando quelli che invece la compromettono. È suo diritto, ed è anche suo dovere.

La politica, oggi, ha misconosciuto questa missione.

Se la civiltà ellenica e cristiana, che è la nostra, manifesta dei segni pericolosi di stanchezza e di declino, lo deve ad una politica di divisione e di morte. E la causa fondamentale delle trasformazioni della vita e degli scismi odierni è, secondo noi, la democrazia delle masse prevalsa da due secoli. Le democrazie locali, ristrette, sono regimi agevoli e benefici, perché l'attività dei cittadini vi si dispiega nei limiti dell'esperienza concreta che essi hanno degli uomini e delle cose di cui decidono; perché intelligenza, sentimenti e anima restano in contatto con la realtà che abbracciano in modo vitale, e che permette di discernere immediatamente il vero dal falso.

La democrazia più estesa, al contrario, provoca una scissione profonda, una incurabile ferita nell'anima umana. Attribuisce al cittadino una competenza che sorpassa continuamente i limiti della sua conoscenza effettiva, e che non è sostenuta da alcun legame vivo con la realtà; caccia in esilio le minoranze creatrici, delle quali le democrazie ristrette riconoscono spontaneamente la presenza, e delle quali controllano l'azione, e le sostituisce con altre minoranze che s'impongono con il sofisma dell'ideologia e con la violenza della passione; separa l'uomo dal reale e lo proietta nell'immaginario.

La democrazia delle grandi masse e delle grandi estensioni territoriali spezza in questo modo i rapporti reali che uniscono l'uomo alla natura, ai suoi simili, a Dio, e spezza l'uomo stesso trasformandolo in un essere ibrido nel quale si giustappongono un angelo irreale e un animale reale. Le sue istituzioni influenzano la vita moderna in tutti i settori, e sconvolgono le superstiti democrazie ristrette, votandole alla distruzione.

Dappertutto è visibile la sua evoluzione verso il "mostro" universale, verso il Leviàtan: la crepa nella volta dell'edificio politico lo farà crollare.

 

Ne nasce una prima conclusione, implacabile; se la politica non si rimette in carreggiata, la civiltà moderna farà l'ultimo e decisivo passo avanti, la morte.

Non è una prospettiva assurda, questo destino non ci attende dal di fuori, ma è in noi.

Le civiltà non muoiono sotto l'urto di barbarie esterne, ma sotto l'influenza della decomposizione interna che si chiama barbarie dell'anima. Barbaro significa straniero, e barbarie dell'anima è proprio l'introduzione in noi d'un elemento disumano che fa esplodere i limiti dell'umano.

 

Ne viene anche una seconda conclusione.

L'esperienza bimillenaria dell'umanità dimostra che l'elemento disumano che distrugge l'uomo può essere vinto solo da un elemento divino.

In altre parole, la salvezza della civiltà si fonda soltanto su un ritorno ad una politica naturale e ad una religione soprannaturale.