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IL CARDINALE BILLOT SUL LIBERALISMO
Il dibattito religioso e politico corrente -
sotto la spinta di concrete necessità, come quelle costituite, per esempio, dai
problemi della "Chiesa conciliare", rimessi in luce dalla pendente revisione
consensuale del Concordato - va riscoprendo, con una frequenza sempre maggiore,
il termine liberalismo - e quindi liberalismo cattolico -, che comincia a essere
usato come sinonimo di pluralismo, o almeno come a esso abbondantemente
equivalente, quando pluralismo, da fatto e constatazione, diviene dottrina e
programma. Per contribuire alla esplicatio terminorum, cioè a quel
chiarimento dei termini che è già battaglia delle idee, pare opportuno fornire
al lettore una sostanziosa esposizione e confutazione del liberalismo, dovuta
alla dottrina del cardinale Louis Billot (1846-1931) - dal servo di Dio Raffaele
Merry del Val definito "onore della Chiesa e della Francia" - e contenuta nel
trattato De Ecclesia, tomo 11, pp. 19-63. L'insegnamento cattolico del cardinale
Billot è magistralmente sunteggiato da p. Henri Le Floch, della Congregazione
dello Spirito Santo, che fu superiore del seminario francese di Roma, ed è
tradotto dal volume Le cardinal Billot, lumière de la théologie, senza
indicazione di editore, 1932, pp. 43-61.
Riassunto della dottrina del cardinale Billot sull'errore del
liberalismo e le sue diverse forme, secondo l'esposizione del trattato sulla
Chiesa.
Il
liberalismo in materia di fede e di religione è una dottrina che pretende di
emancipare l'uomo, più o meno, da Dio, dalla sua legge, e dalla sua rivelazione,
e di emancipare anche la società civile da ogni dipendenza dalla società
religiosa, dalla Chiesa, custode, interprete e maestra della legge rivelata da
Dio.
L'emancipazione da Dio, fine ultimo dell'uomo e della società, è quanto
anzitutto persegue. E, per giungervi, fissa come principio primo che la libertà
è il bene fondamentale dell'uomo, bene sacro e intangibile, che non è
assolutamente permesso violare con qualsiasi coazione; perciò, questa libertà
senza limiti deve essere la pietra immobile su cui si organizzeranno tutti gli
elementi dei rapporti tra gli uomini, la norma immutabile secondo cui saranno
giudicate tutte le cose dal punto di vista del diritto; quindi sarà equo, giusto
e buono quanto, in una società, avrà come base il principio della libertà
individuale inviolata; iniquo e perverso tutto il resto. Questo il pensiero
degli autori della rivoluzione del 1789, rivoluzione di cui il mondo intero
gusta ancora i frutti amari. Questo l'oggetto completo della Dichiarazione dei
diritti dell'uomo, dalla prima riga all'ultima. Questo, per gli ideologi, il
punto di partenza necessario per la riedificazione completa della società nel
campo politico, nel campo economico, e soprattutto nel campo morale e
religioso.
Il
trattato critica anzitutto il principio generale del liberalismo, considerato in
sé stesso e nelle sue molteplici applicazioni. Poi tratta del liberalismo
religioso e delle sue diverse forme (pp.
19-20).
In un
magnifico preambolo, in cui si eleva alle altezze di sant'Agostino nel De
Civitate Dei e di Bossuet nel Discours sur l'Histoire universelle, e
che si concentra nella spiegazione e nella applicazione della profezia di
Daniele a Nabucodonosor, p. Billot annuncia che seguirà, trattando del
liberalismo, i potenti spiriti del secolo XIX che hanno lottato contro la
perversità dei principi della Rivoluzione, J. de Maistre, de Bonald, Ketteler,
Veuillot, Le Play, il cardinale Pie, Liberatore, ecc. E li cita nel corso della
sua esposizione. E con loro cita Charles Maurras, di cui apprezzava la
confutazione del liberalismo in campo filosofico, politico ed
economico.
I
limiti che ci siamo fissati ci permettono, in questa sede, di presentare solo
l'ossatura del ragionamento di questo studio, lasciando da parte tutto lo
splendore dello svolgimento, che potrebbe essere fatto intravedere soltanto da
una traduzione completa.
ARTICOLO I.
Il
principio fondamentale del liberalismo è la libertà da ogni e qualsiasi
coazione, non solo da quella esercitata con la violenza, e che riguarda soltanto
gli atti esterni, ma anche dalla coazione che proviene dal timore delle leggi e
delle pene, dalle dipendenze e dalle necessità sociali, in una parola, dai
legami di ogni genere che impediscono all'uomo di agire secondo la sua
inclinazione naturale. Per i liberali, questa libertà individuale è il bene per
eccellenza, il bene fondamentale, inviolabile, al quale tutto deve cedere, a
eccezione, forse, di quanto è richiesto dall'ordine puramente materiale della
città; la libertà è il bene a cui tutto il resto è subordinato; è il fondamento
necessario di ogni costruzione sociale conforme all'equità e al
bene.
PARAGRAFO I.
Questo
principio fondamentale del liberalismo è assurdo, contro natura e chimerico (pp.
22-30).
1.
Assurdo (Incipit ab absurdo), in quanto pretende che il bene
principale dell'uomo stia nell'assenza di ogni legame capace di intralciare o
limitare la sua libertà. Il bene dell'uomo, infatti, deve essere considerato o
come un fine, o come un mezzo per pervenire a questo fine. Ora, la libertà non
può essere un fine in sé e il fine sommo, perché non è altro che un potere o
potenza operativa, perché ogni potere o potenza è in vista della operazione, e
perché ogni operazione, in questa vita, consiste completamente nel perseguimento
di un bene reale o apparente. Quindi, la libertà non può essere per l'uomo il
suo bene considerato come fine. D'altra parte, essa non è neppure un bene
considerato come mezzo per pervenire a un fine buono, se non a condizione di
essere contenuta da certi freni, e questa è la rovina pura e semplice del
principio del liberalismo ... a meno di ammettere o che la libertà, nella vita
presente, è infallibile, oppure che bisogna sempre lasciarla fare, quali che
siano i suoi difetti.
2.
Contro natura (in ea progreditur quae evidentiori naturae intentioni
contraria sunt), in quanto pretende che tutto debba cedere il passo al bene
della libertà individuale, che le necessità sociali hanno moltiplicato gli
ostacoli a questa libertà, e che il regime ideale per l'uomo è quello in cui
regni la legge dell'assoluto e perfetto individualismo; perché questo
individualismo è assolutamente contrario alla natura umana. Infatti, se vi è una
cosa evidente e manifesta, è che la condizione sociale è la legge della vita
umana, come lo provano le necessità della sua esistenza anche corporale.
«Agli altri animali, la natura ha preparato nutrimento, vestimento di pelo,
mezzi di difesa, come i denti, le corna, le unghie, o almeno la rapidità nella
fuga. L'uomo, invece, si è trovato creato senza che dalla natura gli sia stato
fornito nulla di simile; ma, in cambio, è stato provvisto della ragione che lo
mette in condizione di preparare tutte queste cose con le sue mani; e siccome un
uomo da solo non basta a preparare tutto, e se fosse da solo non saprebbe
assicurare neppure a sé stesso i beni che gli permettano di mantenersi in vita,
ne segue che, per natura, l'uomo deve vivere in società. Inoltre, in tutti gli
altri animali è imita una naturale capacità a discernere quanto è a essi utile o
nocivo. Così, l'agnello sente istintivamente nel lupo un nemico. Per una
capacità analoga certi animali sanno naturalmente distinguere le piante curative
e anche quanto è loro necessario per
vivere.
«L'uomo, invece, conosce ciò di cui abbisogna per vivere, ma solo in
generale. Così, con la sua ragione può pervenire, attraverso i principi
universali, alla conoscenza delle cose particolari necessarie alla sua vita. Ma
non è possibile a un uomo, da solo, attingere con la sua ragione tutte le cose
di questo ordine. E quindi necessario che gli uomini vivano insieme, per
aiutarsi a vicenda, per dedicarsi a ricerche diverse in rapporto con la
diversità dei loro talenti: uno, per esempio, alla medicina, un altro a questo,
un altro a quello. ( S . Tommaso, De regimine principum, libro I,
cap. I).
O
insensati sophistae, scrive p. Billot, quis vos ita dementavit, ut ad
naturam continuo appellantes, contra naturam talia et tam enormia
peccetis?», «O sofisti dissennati, chi vi ha fatto tanto uscire di
ragione, che, pur richiamandovi continuamente alla natura, peccate tanto e così
grandemente contro la natura?».
3.
Chimerico,
1°
Perché non combina in nessun modo con la
realtà:
Suppone,
all'origine della società, un patto iniziale. Dove l'ha
visto?
Suppone
il libero ingresso di ciascuno nella società. E ancora più
spinto.
Suppone
che tutti gli uomini siano ritagliati esattamente sullo stesso modello -
assolutamente uguali -, l'uomo astratto riprodotto milioni di volte senza note
individuanti. Dov'è? «Applicate il contratto sociale, se vi sembra buono, ma
applicatelo solamente agii uomini per i quali è stato fabbricato. Sono uomini
astratti che non appartengono a nessun tempo e a nessun paese, pure entità
sbocciate dalla bacchetta metafisica» (Taine, La Révolution, tomo I,
libro II, cap. II).
2°
perché tende a distruggere direttamente proprio ciò che vuole proteggere: la
libertà individuale.
Se la
cosa è evidente nel caso delle minoranze, tiranneggiate dal numero, non è meno
certa per le maggioranze, che si lasciano condurre, non dal «giudizio
autonomo di ciascuno dei loro membri, ma da agitati, da violenti, da oligarchi
nati dall’individualismo, che le soggiogano e che se ne servono come di uno
strumento di dominio ai fini del loro interesse privato e della loro
ambizione» (pp. 29-30).
PARAGRAFO II.
Bisogna
notare che esso non è applicabile integralmente (il male integrale non esiste),
ma che, nella misura in cui è applicato, comporta due
conseguenze:
1° La
disgregazione e la dissoluzione di ogni organismo sociale, la soppressione di
ogni società minore, naturale o connaturale, distinta dallo Stato o che non
riceva da esso la sua legge, operante nel campo domestico, in quello economico e
in quello politico.
Questo
si prova:
a) A
priori, l’individualismo liberale permette l’esistenza di una sola società:
quella che è derivata dal contratto sociale.
b) A
posteriori, con la guerra fatta in primo luogo alla famiglia (è la
«delenda Carthago» dei rivoluzionari), di cui si è distrutto
progressivamente il fondamento, cioè il matrimonio (con l’istituzione del
contratto civile, poi del divorzio, in attesa dell’unione libera), e nello
stesso tempo l’autorità (con la soppressione della libertà testamentaria, della
libertà di insegnamento e attraverso le leggi di successione); con la guerra
fatta, in secondo luogo, e con un successo completo al primo colpo, alle
corporazioni, con il pretesto di proteggere la libertà individuale. Questa
«libertà del lavoratore genera la piaga della società moderna, il
proletariato, cioè l’esistenza di una classe numerosa priva di ogni proprietà e
che vive in un certo senso in uno stato di indigenza ereditaria» (Le Play,
Réforme sociale, tomo I).
2° La
costituzione di uno Stato dispotico, assoluto, irresponsabile, che estingue
tutte le libertà reali e assorbe tutti i diritti, senza che vi sia limite alcuno
alla sua onnipotenza e al suo arbitrio.
«Come
gli organi del corpo fisico non sono le molecole e gli atomi, ma le
articolazioni e le membra, allo stesso modo gli organi del corpo sociale non
sono gli individui, ma la famiglia, la corporazione e la città. Se le supponiamo
disorganizzate nel loro stesso organismo, ne deriva inevitabilmente che tutte le
libertà reali svaniscono. La ragione di questo è evidente: su queste monadi
dissociate dall'individualismo, rimane soltanto questo enorme colosso costituito
dallo Stato onnivoro, che, essendo crollata sotto di esso ogni
organizzazione e ogni autonomia, assorbe in sé ogni forza, ogni potenza, ogni
diritto, ogni autorità e diventa l'unico amministratore, procuratore,
istitutore, precettore, educatore e tutore, in attesa di diventare anche l’unico
proprietario e possessore. E che cosa ne risulta, di grazia, se non una
mostruosa schiavitù?» (pp. 35-36).
PARAGRAFO III.
Rispetto alla religione, il principio
del
liberalismo
essenzialmente antireligioso (pp.
38-43)
Esso si
erge direttamente contro Dio. Persegue completamente la distruzione del culto di
Dio, della religione di Dio, della legge di Dio, e anche della nozione di Dio,
con il pretesto di salvaguardare la libertà in campo politico ed
economico.
1.
Prova a posteriori: la storia della Rivoluzione francese, la cui
caratteristica è quella di essere «satanica nella sua essenza» (de Maistre,
Du Pape, Discorso preliminare). Il liberalismo è il grande principio
della Rivoluzione francese.
2.
Prova a priori: Dio e Nostro Signore Gesù Cristo costituiscono il grande
ostacolo e alla libertà rivoluzionaria e al dispotismo dello Stato, suo
corollario. A tale punto che la distruzione di Dio, del suo culto, della sua
religione, della sua legge, del suo nome e del suo concetto, è non soltanto un
articolo del programma, ma il programma stesso e il fine al quale tutto il resto
è ordinato come mezzo. «Il pretesto è la libertà, il codice è il contratto
sociale, il mezzo è la demagogia; ma la ragione ultima è la costituzione di uno
Stato ateo ed enorme, arbitro supremo di tutti i diritti, dittatore onnipotente
del giusto e dell’ingiusto, del lecito e del vietato, grazie al quale siano
aboliti per sempre il nome e il culto infame di Dio. E' ciò a cui tutto è
diretto, a cui tutto il resto è ordinato come mezzo: e la distruzione della
famiglia, e la distruzione della corporazione, e la distruzione delle libertà
tanto comunali quanto provinciali, di modo che, infine, resti in piedi soltanto
la potenza dello Stato empio, fuori da cui nessuno potrà, su tutta la terra,
muovere una mano o un piede» (pp. 41-42). «Noi vogliamo organizzare una
umanità che possa fare a meno d i Dio» (Jules Ferry). «Dalla Rivoluzione
siamo in rivolta contro l’autorità divina e umana, con la quale, con un solo
colpo, abbiamo regolato un terribile conto il 21 gennaio 1793»
(Clemenceau).
ARTICOLO II.
Le diverse
forme del liberalismo in materia religiosa (pp.
44-63)
Con p.
Liberatore (cfr. La Chiesa e lo Stato), si possono ricondurre a tre: il
liberalismo assoluto, il liberalismo moderato e il liberalismo che si potrebbe
chiamare il liberalismo dei cattolici liberali. Le tre forme hanno in
comune il volere emancipare l’ordine civile dall’ordine religioso, cioè lo Stato
dalla Chiesa. Ma la prima forma vuole il dominio dello Stato sulla Chiesa; la
seconda, la piena indipendenza dello Stato rispetto alla Chiesa, e della Chiesa
rispetto allo Stato; quanto alla terza, anch‘essa ricerca questa indipendenza,
non come una verità di diritto, ma come, in pratica, la migliore condizione di
esistenza e di vita.
PARAGRAFO I.
La prima
forma del liberalismo, il liberalismo assoluto, riporta al materialismo e
all’ateismo (pp. 44-48).
Concepisce lo Stato come la potenza più elevata alla quale è dato
all’umanità di poter salire nel suo progresso sociale. Non solo lo Stato non ha
nulla al di sopra di sé, ma non ha nulla che a esso sia uguale o che a esso non
sia sottomesso. E la potenza suprema e universale, alla quale nulla può
resistere, alla quale tutto deve ubbidire.
Questa è
la teoria che regge, più o meno, le costituzioni moderne dell’Europa, nate dalla
Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Non solo la Chiesa vi ha perso ogni
preminenza rispetto allo Stato, essa non vi ha neppure più il suo carattere di
società perfetta e indipendente.
Ora,
questa è la negazione implicita della spiritualità e dell’immortalità
dell’anima; in ultima analisi, è materialismo. Lo Stato, infatti, può essere
concepito come potenza suprema solamente a condizione di ricondurre tutto il
destino dell’uomo alla sua vita organica e
materiale.
Inoltre,
vi è la negazione di Dio; infatti, se Dio esiste, bisogna riconoscere
assolutamente che è il padrone supremo e il legislatore universale; bisogna
riconoscere che la regola suprema dell’azione, sia nella vita privata che in
quella pubblica, sono i principi immutabili della morale impressi da Dio
nell’anima umana, e non lo Stato, né l’opinione pubblica; bisogna riconoscere,
infine, che i poteri più elevati hanno solo un diritto subordinato di comandare,
così che governano i popoli secondo la volontà di Dio, alla quale sono per primi
sottomessi.
PARAGRAFO II.
Il
liberalismo moderato vuole l’emancipazione dell’ordine civile rispetto
all’ordine religioso, dello Stato rispetto alla Chiesa, così che il dominio
dello Stato e quello della Chiesa sono considerati completamente separati e
separabili, e la Chiesa e lo Stato sono considerati nel loro rispettivo dominio
come pienamente indipendenti.
Un tale
sistema, già abbondantemente incoerente, è:
a)
praticamente irrealizzabile;
b)
teoricamente assurdo. Si riduce, se non a un ateismo formale, almeno a un
manicheismo certo, a un dualismo assurdo, sia considerando l‘uomo stesso che
considerando il principio e il fine
dell’uomo.
1)
Considerando il principio e il fine dell’uomo: infatti, se vi sono per l’uomo un
solo principio e un solo fine, questo principio e questo fine sono: o lo Stato
(e ricadiamo nel liberalismo assoluto), o Dio (ed eccoci nel
cattolicesimo)
2)
Considerando l’uomo: infatti, questa separazione assoluta del civile e del
religioso suppone in lui due anime, due spiriti, due coscienze. Se vi sono solo
un’anima, uno spirito, una coscienza, vi è necessariamente subordinazione del
civile al religioso o del religioso al
civile.
Libera Chiesa in libero Stato, è la formula del liberalismo
moderato. «Più nessuna alleanza tra la Chiesa e lo Stato: la Chiesa non abbia
più niente in comune con i governi, i governi non abbiano più niente in comune
con la religione, non si immischino più negli affari rispettivi. Il singolo
professa a suo modo il culto che sceglie secondo il suo gradimento; come membro
dello Stato non ha un culto proprio. Lo Stato riconosce tutti i culti, assicura
a tutti una uguale protezione, garantisce a essi una uguale libertà; questo è il
regime della tolleranza; ed è conveniente che lo proclamiamo buono, eccellente,
salutare, che lo conserviamo a tutti i costi, che lo offriamo
costantemente». Questo è quanto Louis Veuillot ha chiamato l’illusione
liberale.
Ma
volere che il fine della città e il fine della religione siano divergenti,
volere che i poteri incaricati di regolare il perseguimento dell’uno e
dell’altro fine siano separati, significa, implicitamente, negare l’unità del
principio primo del mondo e affermare che vi sono un creatore delle cose
spirituali e un creatore delle cose temporali; che esiste un dio che dirige
l’uomo verso la vita civile, e un dio che lo dirige alla vita religiosa; in una
parola, che bisogna ammettere, con i manichei, due principi, opposti l’uno
all’altro.
D’altra
parte, il liberalismo moderato, separando l’ordine civile dall’ordine religioso,
separa il cittadino dal cristiano, il filosofo dal credente, l’uomo pubblico
dall’uomo privato, il politico dal fedele, e li separa, non come due
belligeranti di cui l’uno vuole la morte dell’altro, ma come due vicini, di cui
ciascuno segue la propria via, di cui ciascuno, nello stesso tempo e
regolarmente, compie il suo dovere, come se fossero mossi tutti e due per cose
divergenti e contrarie da motori separati. Chi non vede che tale concezione è
possibile soltanto a condizione di supporre in un solo e stesso uomo due anime,
un duplice spirito, due coscienze realmente distinte ira di loro, l’una atea,
l’altra religiosa, l’una credente, l’altra miscredente, l’una attenta alle cose
temporali senza rapporto alcuno con le cose spirituali; l’altra intenta alle
cose spirituali e come esistente fuori da questo mondo, nel mondo della luna;
l’una che serve Cesare e l’altra che serve
Dio?
Infine,
comunque si concepisca questa indipendenza reciproca dei due poteri, o questa
finzione della libera Chiesa in libero Stato, si cade in un nuovo manicheismo
che, assurdo dal punto di vista teorico, è in pratica impossibile. Come
immaginare che due motori possano essere normalmente applicati a un solo e
medesimo mobile, senza che vi sia tra di essi qualche subordinazione? Solo la
subordinazione permette di evitare i movimenti contrari e di mantenere la
necessaria unità di direzione. I liberali moderati se ne sono ben resi conto, e
si sono visti costretti ad ammettere o la subordinazione dello Stato alla
Chiesa, o la subordinazione della Chiesa allo Stato; ora, non hanno potuto
accettare la subordinazione dello Stato alla Chiesa, perché avrebbe significato
rinunciare al principio essenziale e primo del liberalismo; costretti dalla
necessità, e non potendo mantenersi in questo equilibrio di indipendenza
reciproca, hanno dunque, come il liberalismo assoluto, posto la Chiesa sotto la
dipendenza e il potere dello Stato, tutte le volte che, a giudizio di questo
stesso Stato, un fine politico o un interesse temporale sembrano esigerlo.
«La società religiosa, diceva Portalis (Discours et travaux
inédits), ha dovuto riconoscere nella società civile, più antica, più
potente, e di cui veniva a fare parte, l’autorità necessaria per assicurare
l’unione, e il sovrano è rimasto padrone di fare prevalere l’interesse dello
Stato in tutti i punti disciplinari in cui si trova
immischiato».
PARAGRAFO III.
Liberalismo
dei «cattolici
liberali»
Consiste
nella emancipazione dell’ordine civile rispetto all’ordine religioso, dello
Stato rispetto alla Chiesa, considerata non come una verità di diritto, ma come
offerta, in pratica, di un eccellente «modus
vivendi».
Il
liberalismo dei cattolici liberali sfugge a ogni classificazione, e ha una sola
nota distintiva e caratterizzante, quella di una perfetta e assoluta incoerenza
(pp. 55-63).
a)
Questa incoerenza è evidente nel termine stesso «cattolico liberale», dal
momento che liberale implica «emancipazione», cattolico implica
«sottomissione».
b) E'
non meno evidente nella opposizione che i suoi partigiani pongono tra principi e
pratica (i principi, che pretendono di accettare, sono solamente regole pratiche
d'azione, che rifiutano precisamente di ammettere). Lo stesso accade
dell’opposizione tra convenienza di diritto e utilità di fatto, per esempio
della collaborazione della Chiesa e dello Stato, di cui ammettono di diritto la
convenienza e di cui negano di fatto
l’utilità.
Con
l’incoerenza, si può dare come nota del cattolicesimo liberale la mania delle
confusioni, per esempio tra tolleranza e
approvazione.
La prova
di questa affermazione si può trarre anzitutto dal nome stesso di cattolico
liberale. Il cattolico, infatti, professa che l’uomo è stato creato per
questo fine: lodare il Signore, onorarlo, servirlo secondo la volontà divina, e
così salvare la propria anima; che tutto in questo mondo non ha altra ragione
d’essere che quella di aiutarlo a realizzare questo fine; che, di conseguenza,
bisogna mettere da parte la prosperità della vita presente, se la si può
ottenere, soltanto con la perdita della propria anima; bisogna fare della vita
presente una preparazione della vita futura; bisogna subordinare i beni
temporali ai beni eterni; bisogna, quindi, che il potere che presiede alle cose
temporali sia sottomesso al potere superiore incaricato da Dio, con la promessa
di un’assistenza perpetua, di procurare il fine eterno. Ora, il liberale è
attaccato agli immortali principi del 1789, e il principio rivoluzionario per
eccellenza, dice Louis Veuillot (cfr. Illusion libérale, par. 33), «è
ciò che l’educazione rivoluzionaria dei conservatori del 1848 chiama la
secolarizzazione della società; è ciò che la franchezza rivoluzionaria del
Siècle, dei Solidaires e del signor Quinet, chiama
brutalmente l’espulsione del principio teocratico; è la rottura con la Chiesa,
con Gesù Cristo, con Dio, con ogni riconoscimento, con ogni ingerenza, e con
ogni comparsa dell’idea di Dio nella società
umana».
Questa affermazione è confermata anche dall’esame delle ragioni addotte
dai cattolici liberali.
Costoro distinguono tra i principi astratti e la loro applicazione:
riconoscono, certamente, l’unione e la subordinazione necessarie tra i poteri;
ma, dicono, altro è l’oggetto della speculazione, altro quanto si realizza in
concreto, così diverso dalle condizioni della teoria. In questo modo, pensano di
avere soddisfatta la verità, relegandola nel mondo delle astrazioni. Ma questi
principi, detti astratti, riguardano o no la morale, costituiscono la norma
degli atti umani e la regola dell’operazione buona, cioè dell’operazione che, in
una società umana, è diretta secondo le esigenze del fine? E, se sono norme
pratiche, non è il massimo dell’incoerenza ammetterle senza volere che vengano
applicate? Dal fatto che l’ordine concreto delle cose differisce dalle
condizioni ideali della teoria, ne segue che le cose concrete non avranno mai la
perfezione dell’ideale, ma non ne segue niente di più. Con il modo di
argomentare dei cattolici liberali, si proverebbe ugualmente bene che i precetti
relativi alle virtù devono restare sul terreno puramente speculativo, perché la
condizione umana non li può realizzare perfettamente. Si potrebbe anche
dimostrare che le scienze matematiche non possono e non devono assolutamente
essere applicate alle arti, con il pretesto che il triangolo ideale, esatto,
geometrico, non esiste in concreto, oppure perché la prova sperimentale
contraddice sempre il rigore del calcolo.
I
liberali distinguono tra il diritto e il fatto, tra ciò che dovrebbe essere di
diritto, e ciò che è, di fatto, utile alla Chiesa. A sentire loro, il regime
dell’unione è sempre stato, di fatto, dannoso alla Chiesa. La Chiesa non ha mai
avuto tanti mali quanto al tempo dei vescovi con il foro esterno, dei principi
protettori, come attestano le lotte ininterrotte con gli imperatori di Bisanzio,
con i Cesari germanici, con i re di Francia, d’Inghilterra, di Spagna: «La
Chiesa perisce per gli appoggi illegittimi che si è voluta dare. E venuto il
momento, per essa, di cambiare principi: i suoi figli gliene devono far sentire
la necessità. Bisogna che rinunci a ogni potere coercitivo sulle
coscienze. Più nessuna alleanza tra la Chiesa e lo Stato» (Louis Veuillot,
Illusion libérale, par. 14). I1 rimedio sarebbe dunque soltanto la
libertà. Ma, in primo luogo, se principi a priori enunciano un ordine
istituito e stabilito da Dio, è impossibile che sia più utile per la Chiesa
trascurarlo. In secondo luogo, gli inconvenienti che vengono segnalati provano
solo che l’uomo, per la sua perversità, spesso corrompe le istituzioni divine,
ma non che queste devono, per tale ragione, essere respinte e messe da parte. In
terzo luogo, l’argomento storico pecca per omissione: si limita a elencare i
mali del regime di unione, senza dire anche i beni enormi che la Chiesa ha
ricavato dalla protezione dei principi. In quarto luogo, non dice nulla dei mali
tanto gravi quanto numerosi che derivano normalmente dallo stato di separazione,
come ne può testimoniare l’esperienza attuale. In quinto luogo, niente mostra
meglio l’incoerenza dell’argomentazione dei cattolici liberali, della loro
conclusione ultima, che propone il ricorso alla libertà: la libertà, pronta al
male, predisposta alla irreligione, è la causa di ogni male, ed essa viene
presentata come rimedio.
I
liberali riprendono: indubbiamente l’unione e la subordinazione dei poteri sono
auspicabili in sé, ma sono ormai impossibili, poiché sono ripugnanti per lo
spirito moderno, ed è inutile urtarlo; la prudenza, dunque, comanda di accettare
il nuovo stato di cose, sia per impedire un male più grande, sia per ottenere i
migliori effetti possibili. Ma a questo punto si palesa una incoerenza ancora
maggiore delle precedenti, perché tende a spostare il problema. Il problema tra
i liberali e noi, infatti, non sta nel sapere se, data la malizia del secolo,
bisogna sopportare con pazienza quanto non dipende da noi, e lavorare, nello
stesso tempo, per evitare mali maggiori e per fare tutto il bene che è ancora
possibile fare; ma il problema è proprio se conviene approvare questa condizione
sociale a cui porta il liberalismo, decantare i principi che sono il fondamento
di questo stato di cose, promuoverli con la parola, la dottrina e le opere, così
come fanno i cattolici detti liberali.
+ HENRI LE FLOCH, C.
S..Sp.