CAPITOLO 1
LA STORIA DEL DIRITTO NATURALE NEI SECOLI:
DALL ANTICA GRECIA AD OGGI.
1.1. Lantica Grecia.
La cultura greca raggiunge uno sviluppo ed una profondità mirabili, soprattutto in campo filosofico. Le condizioni della vita politica e sociale di Atene, che é una democrazia diretta, sollecitano ogni cittadino a prendere ampiamente parte sia alla vita pubblica - partecipando alla vita dellagorà o, se eletto, sedendo in Consiglio, oppure esercitando le funzioni di magistrato, quando la sorte ve lo designa- sia alla vita giudiziaria, discutendo processi di diritto pubblico e privato.
In questo clima di libertà, che offre la vita pubblica ateniese, fioriscono le tendenze speculative più diverse: tra i filosofi greci vi sono i sostenitori della democrazia ed i loro avversari, i nazionalisti ateniesi ed i fautori dellunione di tutta la Grecia o del cosmopolitismo; ed è sempre qui che si trovano i germi della teoria del diritto naturale, quelli del positivismo giuridico, del relativismo e del sociologismo.
Nella filosofia greca del diritto, tra le opere nate da una profonda esperienza della vita sociale e, come tali, capaci di influenzare il mondo del diritto, vi sono quelle di Platone e di Aristotele.
In Platone, sebbene predominino gli interessi politici, non manca lo studio del diritto, degno di ogni attenzione da parte delluomo politico poiché il compito del giurista è sì quello di applicare le leggi scritte dello Stato, ma sapendole discernere in base alla loro giustezza: una legge ingiusta, malvagia, "...non é una legge, non é diritto" (platone, Leggi, IV, 715b.). Nella sua opera intitolata Politico, Platone paragona i decreti ingiusti votati dallassemblea popolare, così come quelli emanati dai tiranni, a ricette mediche provenienti da unassemblea di ignoranti qualsiasi; " esse non andrebbero propriamente nemmeno considerate ricette" (platone, Politico, 298-299).
Il giurista deve perseguire il bene, che coincide con la giustizia: nella lingua greca, infatti, lo stesso termine dikaion viene usato per indicare il diritto ed il giusto.
Giustizia e diritto, per Platone, concernono, nella loro accezione più tipica, i rapporti sociali: la prima, allinterno della comunità civile, rende o distribuisce, "a ciascuno ciò che gli spetta" ("suum cuique tribuere", platone, Repubblica, II, 132) e deve essere esercitata sia nellinteriorità delluomo (in cui si deve leggere "...a lettere minuscole"), sia allinterno della comunità ("...a lettere maiuscole", Michel Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno, Jaka Book Spa, Milano, 1986, p.25). Il secondo, invece, ha come scopo il perseguire la virtù -e non solo la tutela della proprietà, della forza militare e della prosperità. La legislazione, quindi, avrà per oggetto, oltre alle successioni, alla proprietà ed ai contratti, anche la pietà, i buoni costumi e leducazione alla ginnastica, alla musica, alla geometria, alla dialettica ed agli spettacoli, perché il primo dei compiti del diritto è quello pedagogico.
Per Platone, infatti, il solo diritto, ciò che solo merita il nome di legge, viene scoperto dalluomo in possesso di unarte ben precisa, non fondata su tentativi empirici, bensì, come egli dice allinizio del Politico, su di una scienza speculativa, la scienza del dikaion.
Ma quale è il metodo di questa scienza? " Si puó definire cosmico" (jacques maritain, Moral Philosophy, Scribners Sons, New York, 1964, trad.it. La filosofia morale, Morcelliana, Brescia, 1973, p.33) - secondo lespressione di Jeaques Maritain-, cioè, che si alimenta della visione delluniverso e, a differenza di quello di Kant, non pretende di dedurre i principi della giustizia da se stesso, né dalla sua ragione soggettiva.
In questa chiave sembra sensato parlare, a proposito di Platone, di diritto naturale, anche se, per qualificare la sua dottrina, egli non usa tale espressione, nomos katà physin, dìkaion physikon ("legge secondo natura, giusto naturale") perché, senza dubbio, essa evoca alla sua mente le tesi dei sofisti di Callicle o di Gorgia, "...tesi che ripudiava recisamente" (M. VILLEY, La formazione... , Op. cit., p.27).
Peraltro, esiste un passaggio delle Leggi (platone, Leggi, X, 889 e ss.) in cui, proponendo di riformare contro il materialismo dei sofisti il senso dato al termine natura, Platone sviluppa una teoria del diritto dedotto da essa (physikon), o per lo meno dallosservazione obiettiva degli esseri del mondo esteriore.
Lunico ad essere allaltezza di questo compito, peró, -é questo uno degli assiomi fondamentali della Repubblica- è il filosofo. In questopera, infatti, é Socrate, filosofo per eccellenza, che guida la discussione; così pure egli è il legislatore ideale, come anche quello delle Leggi che, al termine di una lunga ascesi purificatrice, sotto lispirazione divina, innamorato del mondo delle idee, scopre le leggi: "...Il giusto risiede in un altro mondo, più vero del nostro, ed in cui, forse, abbiamo vissuto in una vita anteriore e di cui ci rammentiamo (Fedone)".
Non è dagli eventi fenomenici che offre lo spettacolo della natura, che Platone intende dedurre il giusto, ma dalle idee, alle quali, certamente, losservazione della natura conduce, guidata, però, dalla dialettica. Per tale motivo, il diritto di Platone è definibile ideale, piuttosto che diritto naturale, poiché le sue norme giuridiche sono molto rigide, lontane dalla prassi, quindi, ultimamente, utopiche ed impraticabili.
Quale può essere, allora, linsegnamento platonico relativo alle leggi? La necessità della legge scritta. Infatti, mentre dapprima, nella Repubblica, Platone manifesta una netta ostilità per la legislazione scritta, nei due "dialoghi della vecchiaia" (nel Politico, e soprattutto nelle Leggi) contrassegnati da una maggior realismo, egli ne riconosce la necessità.
Si potrebbe additare un contrasto, ma, in merito, M. VILLEY afferma: "...Non credo che esista una vera e propria contraddizione tra le tesi che emergono in queste diverse opere" (M. VILLEY, La formazione... , Op. cit., pp.28 e 29).
Vero é, invece, che la dottrina platonica insiste su due punti diversi: allinizio Platone richiama lattenzione sulla imperfezione delle leggi positive; successivamente sulla loro necessità pratica. In particolare, nella Repubblica, Platone mostra i limiti di ogni legislazione scritta: essa rinchiude la giustizia in formule che rimangono immutate nel tempo, cosicché la legge si potrebbe rivelare ingiusta quando viene usata, perché il mondo degli uomini, al quale deve applicarsi, è perpetuamente in movimento. Migliore allo scopo appare la giustizia vivente e perfetta del "filosofo-re". È necessario, però, che il filosofo, non immortale né onnipresente, se vuole che la sua azione si prolunghi nel tempo, si faccia legislatore e lasci alla città, valga quel che valga, una costituzione scritta, così come un medico prescrive al malato, dopo averlo visitato, alcune ricette.
Egli emana le leggi autoritativamente, un po al modo degli oracoli, dato che, nella teoria di Platone, lidea perfetta del giusto non può essere comunicata alla massa. Inoltre, dal momento che "quod principi placuit, legis habet vigorem" (ciò che piace al principe assume il valore di legge), e che a tali leggi egli non é vincolato, "princeps legibus solutus est" (il principe é libero dalle leggi, platone, Repubblica, II, pp.256 e 320), é soltanto il popolo - che non ha alcuna conoscenza di filosofia e di giustizia se non attraverso lintermediazione delle leggi- che è tenuto ad una rigorosa ubbidienza, assieme anche ai giudici, costretti a seguire letteralmente il testo delle leggi scritte della città.
"...É notevole che Platone, partito da tali altezze, venga ad arenarsi, in fin dei conti, in una sorta di positivismo giuridico abbastanza grossolano" (M. VILLEY, La formazione... , Op. cit., p.32), commenta sul punto Villey.
Questo è, in effetti, il limite di una dottrina ideale: sarebbe necessario che il diritto emanasse solo da un filosofo, ma, dato che non esiste un vero filosofo, o che, se esiste, non è al potere, si affida il diritto alla dittatura di un principe.
Aristotele, allievo di Platone ad Atene dal 367 al 347 a.C., seppure sia partecipe della vita pubblica, é essenzialmente uomo di studi.
Una delle tesi della sua etica è quella della superiorità della vita speculativa sulla vita attiva. Egli, coltivando la metafisica, la psicologia e la logica, prende progressivamente le distanze dalla dottrina del suo maestro, attribuendo importanza allesperienza sensibile; il metodo che applica Aristotele nello studio della politica e del diritto, infatti, é ben diverso da quello di Platone.
Innanzitutto, nel quinto libro dellEtica Nicomachea, Aristotele sviluppa una nozione ben più precisa del diritto, traendola dallesperienza e dallosservazione del linguaggio, riflesso della esperienza. Aristotele esplora il senso del termine dikaion e, mentre Platone confonde nomos e dikaion - il diritto con la morale -, Aristotele, nei capitoli otto e nove del quinto libro dellEtica Nicomachea, mette a fuoco la differenza tra il diritto e la giustizia.
Vero è che lEstagirita, esaminando la giustizia, studia il diritto (il dikaion), ma ciò solo perché la scienza del diritto è una frazione della scienza della giustizia, parte ben distinta.
Aristotele procede nellanalisi con particolare attenzione al linguaggio: esiste una differenza, egli precisa, tra lessere giusto (unico termine per il maschile ed il femminile) e fare il giusto (al neutro), tra dikaios e to dikaion. Si può, cioè, compiere il dikaion, le azioni giuste, senza essere dikaios, intimamente giusti, ad esempio, restituendo un deposito non per spirito di giustizia e con retta intenzione, ma soltanto per paura di unazione legale. Allo stesso modo, si possono compiere atti ingiusti per errore o per esservi costretti da una qualche violenza od intimazione, ma senza voler essere ingiusti. Inoltre, mentre la scienza del diritto, del dikaion, ha per oggetto leffettualità, i risultati esteriori, leguaglianza nelle cose e nei rapporti tra i cittadini, ossia il medium, lindagine sulle intenzioni risulta essere di competenza del moralista.
Con il diritto, allora, Aristotele si pone allinterno della morale, ma in un ambito delimitato perché le leggi puramente morali si distinguono da quelle giuridiche.
Il Filosofo non ignora unaltra questione, e cioè che sia la parola natura (physys) che la parola diritto (dikaion) sono polisense: natura può significare linsieme del mondo esterno, che implica un ordine, opera dellintelligenza di un artista demiurgo, che lo ha formato in vista di una finalitá, oppure può significare che ogni essere naturale ha una sua natura, e questa è ciò che egli deve essere, la sua forma ed il suo fine secondo il piano della Natura. "...La natura di ogni essere è il fine a cui essa tende".
Per ciò che concerne gli esseri viventi, ne consegue che la loro natura non corrisponde a quella che viene letta dalla scienza moderna: luomo, ad esempio, non raggiunge immediatamente la pienezza del suo essere, dunque, la sua natura non si identifica con ciò che egli è oggi, in atto, ma piuttosto con ciò che egli tende ad essere, in potenza, nella sua forma e nel suo fine, che corrisponde alla sua felicità.
"...In un senso analogo a questo, il termine natura potrebbe anche designare il principio, la forza, listinto presente in ogni essere, che, secondo la filosofia aristotelica, spinge a realizzare la propria finalità" (aristotele, Politica, I, 2, 1252b e VII, 12, 1331a), commenta Villey. In questo caso, però, pur essendo più vicini al linguaggio moderno, ci si allontana dalla dottrina di Aristotele e dalla sua nozione di natura, che implica un riferimento ai fini tale da poter dedurre da essi le conoscenze di carattere normativo.
Per Aristotele, osservare la natura significa molto più di quanto non comporti la mera osservazione dei fatti, neutra e passivamente descrittiva, perché implica il discernimento attivo dei valori, che la natura afferma. Per esempio, ci sono al mondo entità che non hanno raggiunto il vero livello dellessere (come, ad esempio, i cocci informi che il vasaio butta tra i rifiuti, le piante mal formate che non riescono a crescere, gli animali con solo tre zampe, i fratelli siamesi, i neonati sordo-muti o ciechi, i malati e i menomati): la scelta compiuta della natura, che è essenzialmente scienza dellordine e delle cause finali, evidenzia fattivamente tali realtà.
Villey, quindi, a ragione, definisce Aristotele il "padre della dottrina del diritto naturale" (M. VILLEY, La formazione... , Op. cit., p.47): infatti, realista e per nulla idealista, Aristotele pratica un metodo fondato sullosservazione, raccoglie le esperienze degli imperi e delle città del suo tempo ed anticipa il diritto comparato e la sociologia del diritto. Il diritto naturale, per lui, è un metodo sperimentale.
Aristotele non giunge a risultati rigidi ed ideali come quelli di Platone, ma neppure lo pretende; le sue teorie sono "esitanti", sempre aperte a possibili smentite che risultino da esperienze nuove e che riconoscano gli ulteriori limiti del diritto naturale. Il diritto naturale, a sua volta, non é composto da regole immutabili e definitive, che sono inadeguate alle circostanze sempre diverse di tempo e di luogo della nostra società moderna.
Negare la rigidezza del diritto naturale, però, non significa non riconoscere che esso viene integrato dalle leggi positive: Aristotele smentisce il luogo comune secondo cui la dottrina del diritto naturale fomenterebbe la disobbedienza nei confronti delle leggi: "...In una città ordinata e civile é necessario - sostiene nella Retorica - che ai dati teorici informi del diritto naturale si aggiunga, a complemento, la redazione di leggi precise. In una città, infatti, si troveranno più facilmente legislatori prudenti, avvertiti e saggi, che non una molteplicità di giudici dotati delle medesime qualità ed inoltre, bisogna diffidare dellimparzialità dei giudici, il cui giudizio può essere deformato da simpatia o da timore" (aristotele, Retorica, I, 1, 1354a). Soltanto il legislatore é relativamente al sicuro da queste tentazioni: "...La legge è intelligenza senza passione" (aristotele, Politica, III, 11, 1287a).
Sul chi debba essere lautore delle leggi, la dottrina di Aristotele si dimostra aperta: vi sono città in cui il potere deve essere posto nelle mani di unoligarchia, mentre, in altre, è meglio un regime democratico e, in altre ancora, uno monarchico. Il regime misto è quello che, in assoluto, Aristotele considera il migliore, anche se deve essere suddiviso, a suo parere, tra più autorità.
Colui che in una città si trova, per la sua ricchezza, il suo livello culturale, la sua rappresentatività, ad essere responsabile dei pubblici affari, questi detiene il potere legislativo. A riguardo, " uno dei grandi principi della dottrina aristotelica é che legislazione e giurisprudenza non attengono allintelligenza ed al ragionamento discorsivo, ma alla prudenza", cioè, " a quella virtù intellettuale che decide, in vista dellazione, su situazioni contingenti, senza avere il tempo né il modo di fornire delle ragioni" (aristotele, Etica Nicomachea, VI, 5, 1139b-1140a). Essa è la virtù per eccellenza del legislatore e del giudice, che stabiliscono, appunto, quale sia il diritto in ordine a circostanze particolari. La prudenza, allora, è "nomotetica", o "dicastica", cioè legislatrice e giudiziaria; "...ecco perché i Romani parleranno di giurisprudenza" (M. VILLEY, La formazione... , Op. cit., p.51).
Il legislatore, inoltre, pone una conclusione ad ogni particolare controversia giudiziaria nella ricerca del giusto naturale - dottrina, questa, sempre aperta ad esperienze nuove ed a nuove discussioni e, in quanto dialettica, sempre in movimento -: aggiunge, ai dati del diritto naturale, quelle determinazioni precise, necessariamente arbitrarie, alle quali la scienza non sarebbe in grado di pervenire. Per esempio, dipende dal giusto positivo la precisa determinazione che, per un certo delitto, sia necessario sacrificare, a titolo di ammenda, " una capra e non due pecore", o che il giusto prezzo di un certo oggetto sia fissato in quella certa quantità di argento.
Così, il diritto deriva sia dalla natura che dalla convenzione, poiché, secondo la dottrina aristotelica, il legislatore parte sì dal giusto naturale, ma aggiunge a questo dato qualcosa di sua volontà, per renderlo completamente giusto.
Gli elementi del diritto naturale procedono direttamente dallosservazione della natura, e cioè dai generici insegnamenti del diritto naturale (dikaion physikon) ed hanno un valore universale; al contrario, " quelli che sono più determinati, perché procedono dalla volontà dello stato (dikaion nomikon) non sono validi ovunque, ma solo fin dove si estende il potere del legislatore" (aristotele, Etica Nicomachea, V, 7.1, 1134b): " essi fanno parte, dunque, del diritto proprio di una particolare città" (aristotele, Retorica, I, 10.3, 1368b).
Entro questi limiti, il diritto positivo deve essere ubbidito tanto quanto il diritto naturale; anchesso è chiamato giusto (giusto positivo) e, per esprimersi nel gergo dei teologi, esso obbliga in coscienza: si é moralmente obbligati a tenere la destra, nella guida di unautovettura, ed a fermarsi ai semafori rossi, anche se queste disposizioni sono solo di diritto positivo. Così facendo, non è necessario fondare la forza obbligatoria delle leggi sulle pistole della polizia: quale fondamento è più rispettabile dellordine naturale stesso, che tutti possono leggere iscritto nelle cose, che tutti possono e devono riconoscere?
É la filosofia di Aristotele, che riesce a dare fondamento allautorità delle leggi (cosa mai veramente riuscita al positivismo), evidenziandone anche i limiti. Le leggi positive, infatti, hanno un valore solo se le si suppone fondate sul giusto naturale, essendo, esse, "intelligenza senza passione".
Vi sono, in casi eccezionali, legislatori che non si prendono cura dellinteresse pubblico, che sono malvagi oppure ignoranti: in questi casi non si é più obbligati a nulla ed il giudice stesso si sottrae allosservanza di queste leggi nefaste. Lubbidienza alle leggi positive, infatti, deve sempre essere limitata e condizionata dal criterio del bene comune.
Per Aristotele, non sempre la legge dello Stato ha un primato rispetto alle altre fonti di diritto. NellEtica Nicomachea (aristotele, Etica Nicomachea, V, 10, 1137a-b) e nella Retorica (aristotele, Retorica, I, 13, 1373b), infatti, si trova la celebre teoria dellequità (epieíkeia): la legge positiva, conferendo alla giustizia, essenzialmente flessibile, la forma di una regola rigida, é necessariamente destinata ad allontanarsi dal suo modello originario.
Essa può essere paragonata ad un metro rigido, che non può misurare con assoluta esattezza i contorni di un oggetto sinuoso: si autorizzerà, quindi, il giudice a prendersi qualche libertà nei confronti del testo della legge per adattarlo alle circostanze, per meglio tener conto delle condizioni proprie di ogni causa particolare. Ad esempio, in materia penale si dovrà considerare letà dellaccusato, della sua posizione sociale, del suo passato, delle sue intenzioni
Lequità, allora, é paragonabile " al metro in uso nellisola di Lesbo, fatto di morbido piombo, che riesce a modellarsi sulla forma degli oggetti da misurare" (aristotele, Etica Nicomachea, V, 10) e lultima parola, nella determinazione del giusto, spetta proprio ad essa.
Conclude Villey: "...La dottrina di Aristotele non é certo affascinante. É certamente meno bella di quella di Platone. Non riesce a soddisfare nessuna delle nostre aspirazioni; non viene incontro né alle esigenze moderne di un diritto rigorosamente confinato allinterno di un codice, né ai nostri desideri di progresso sociale. Ci sono filosofi del diritto che ci propongono un ideale: Hobbes, quello di ordine e di sicurezza; Locke, quello di libertà; Rousseau o Kant, quello di eguaglianza; Platone, quello di una città unita ed armoniosa. La filosofia di Aristotele non é in grado di proporci nulla di simile" (M. VILLEY, La formazione... , Op. cit., pp.54-55).
Quanto, poi, ai risultati pratici, si rimprovera ad Aristotele di essere piatto e conformisticamente borghese, conservatore, poiché non si commuove per le ineguaglianze sociali e non cerca soluzioni per superare o innovare le istituzioni del suo tempo, ma si limita solo a fare una cernita di quelle più adatte a massimizzare la felicità delluomo. Ancora, lo si accusa di aver accettato e giustificato, considerandoli come naturali, la schiavitù, il primato dei ricchi nel governo delle città...
Vero è che Aristotele non ha particolare simpatia per lidea di "progresso", anche perché egli è poco portato per le utopie ed è consapevole che non sia compito della filosofia, non solo dare una risposta a quesiti giuridici concreti, ma neppure far progredire la storia. Daltra parte, Aristotele non é un profeta: é un uomo speculativo, che non intende modificare il mondo, ma solo comprenderlo e descriverlo in spirito di verità.
É stupefacente, però, che le sue analisi -almeno per ciò che concerne lessenza e le fonti del diritto- restino incredibilmente giuste ancora oggi. Infatti, é del tutto vero che, su questa terra, il diritto é altro dalla morale e che non é il filosofo a creare il diritto (come sogna Platone): lo creano, in base al dato preliminare di alcune conoscenze teoriche, il legislatore ed il giudice.
É altresì corretto dire che non bisogna pretendere troppo né dalla teoria, né dalle scienze del diritto naturale, e non é neppure consigliabile, né possibile, dare alle leggi positive unautorità assoluta.
Aristotele e Platone rappresentano due modi diversi di concepire la filosofia, sia nei loro metodi che negli obiettivi: si tratta di due tendenze dello spirito umano. Platone offre un ideale irrealizzabile, ma esaltante; é un tipo di filosofia che piace agli uomini dazione, che sono portati a credere ai miti. Aristotele, invece, non si prefigge altro scopo che quello di osservare la realtà, con tutta onestà e nella sua totalità: equidistante dai sistemi unilaterali dellidealismo e da un falso realismo moderno, le sue analisi hanno unimportanza di primordine, nella storia del diritto.
Sulla stessa scia della modestia di Aristotele, San Tommaso dAquino ed altri autori anche moderni continuano ad approfondire i temi sul diritto naturale: da professore quale egli é, infatti, San Tommaso crea una collazione, una raccolta di opinioni antiche e tradizionali, proprio come il Decreto di Graziano. Fin da questo primordiale aspetto, che caratterizza tutta lopera di San Tommaso, Juan Vallet di Goytisolo imita il suo maestro; dice in merito Cantero Núñez: "...la novitá del pensiero di Vallet risulta essere la tradizione" (estanislao cantero núñez, El concepto del derecho en la doctrina española (1939-1998). La originalidad de Juan Vallet de Goytisolo, Fundación Matritense del Notariado, Madrid, 2000, p. 718).
1.2. Il diritto romano.
La cultura greca dei grandi autori, come Platone ed Aristotele, é la sorgente del diritto romano. Molte sono le opere greche tradotte in latino e, in particolare, le nozioni di uso comune elaborate dalla filosofia greca - come quelle di diritto naturale, di equità, di legge in senso ampio -: esse si diffondono in Roma attraverso il canale della grammatica e della retorica.
Le necessità della prassi impediscono al giurista di rinchiudersi nel quadro ristretto di un singolo sistema filosofico e, così, i Romani si rifanno contemporaneamente a diverse scuole, a seconda della materia dinteresse. In modo particolare, sembrerebbe che la filosofia alla quale aderiscono numerosi giuristi classici sia lo Storicismo, nel quale viene educato lo stesso Cicerone. Nonostante ciò, Villey afferma: "...a nostro avviso é dalla dottrina di Aristotele che il diritto romano, allinizio del periodo classico, ha recepito i suoi principi costitutivi ed il suo eccezionale valore" (M. VILLEY, La formazione... , Op. cit. p. 58).
Infatti, al tempo in cui il diritto romano si costituisce come sistema scientifico, allincirca allepoca di Cicerone, linfluenza di Aristotele é molto forte: Polibio tramanda le grandi tesi della Politica; lo stesso Cicerone traduce i Topici, dedicandoli al giurista Trebazio; le scuole di retorica diffondono le nozioni aristoteliche di giustizia, equità, legge, diritto naturale; perfino le sette stoiche sembrano veicolare questa particolare dottrina del diritto.
I fondatori della giurisprudenza romana sanno assumere, come oggetto specifico di questa, lo studio dei rapporti sociali obiettivi, e lasciano il valore morale delle intenzioni soggettive al di fuori del loro campo di ricerca. Essi distinguono nettamente il diritto privato da quello pubblico; ben conoscono e fanno propria la definizione di giustizia e del suo specifico oggetto, elaborato da Aristotele dopo Platone (cioè, la giustizia é quella virtù il cui specifico oggetto consiste nel dare a ciascuno la parte che gli spetta: jus suum cuique tribuere); essi, infine, assimilano la teoria secondo la quale " il diritto deriva dalla giustizia" (Digesto, 1.1.10) e quella per cui la giurisprudenza é la scienza del giusto e dellingiusto, justi atque injusti scientia (Digesto, 1.1.1) (più precisamente, che il diritto é " ciò che é giusto" (Digesto, 1.1.10) e questultimo, a sua volta, " si distingue dallonesto", Digesto, 50.17.144). "...Mi sembra -dice Villey- che il diritto romano sia debitore di questa sua essenziale qualità, in via più o meno diretta, allinsegnamento ed alle analisi di Aristotele" (M. VILLEY, La formazione... , Op. cit., p. 61).
Vi sono culture che organizzano lordine sociale confondendo diritto e morale, mescolando le prescrizioni relative alla religione, alle buone intenzioni morali, alleducazione, con la regolamentazione, in senso stretto, dei rapporti sociali. Questo é lobiettivo di Platone nella Repubblica ed é il caso del diritto ebraico e del diritto altomedievale, ispirato allagostinismo.
Il diritto romano, invece, mantiene separati i due ambiti, grazie al fatto che i giuristi, allinizio dellepoca classica, prendendo liniziativa di costituire il diritto come scienza, ne stabiliscono in modo preciso le frontiere e, grazie agli insegnamenti di Aristotele, ne garantiscono lautonomia. In generale, per esempio, tengono al di fuori della giurisprudenza i rapporti intrafamiliari, ritenendoli fondamentalmente attinenti al dikaion politikon.
La prima fonte del diritto romano " non é la legge, ma la natura" (gaio, 1.1; Digesto, 1.1): il diritto classico é soprattutto lopera di una dottrina che va alla ricerca del giusto secondo natura, il risultato del lavoro dei giurisperiti.
Sempre in consonanza ai principi aristotelici, i testi legislativi, la legge in senso stretto, gli editti del pretore o di altri magistrati ed i senatoconsulti, non fanno altro che stabilire sanzioni precise (determinazioni) allinterno del quadro del giusto naturale; i testi sono tutti corretti in nome dellequitá; vi è una libera ricerca dialettica (confronto delle opinioni dei grandi giuristi e delle scuole di giurisprudenza); si rileva attenzione alle circostanze ed uso della casistica (quaestiones-casus); ricerca delle regole che manifestano la giustizia e la coerenza delle soluzioni, ma anche diffidenza nei confronti delle regole, che di per sé non indicano mai il giusto e non devono essere confuse col diritto: Jus non a regula sumatur, sed ex jure, quod est, regula fiat (Non si deduce il diritto dalla regola, bensì, solo partendo dal giusto, che esiste, si ricostruisce la regola, Digesto, 50.17.1).
Non che la logica stoica, più deduttiva, non abbia contribuito anchessa alleducazione logica dei giuristi romani, ma, per la maggiore, essi si sono formati, appunto, sulla dialettica di Aristotele. Daltra parte, se accettano di far posto a nozioni morali stoiche, come quelle di pietas, bona fides e di humanitas, non é che a titolo accessorio.
1.3. La rivoluzione Scolastica.
Dal XII secolo, una rivoluzione, data dalle nuove condizioni economiche, influenza la cultura di tutta Europa ed induce un cambiamento profondo nella visione del mondo e nei sistemi giuridici.
Dopo un lungo periodo di predominio dellagostinismo, e con esso del diritto monastico, si assiste, in questo secolo, alla rinascita del diritto romano.
In Italia, a Bologna, a partire dalla fine dellXI sec., nasce un centro di studi gestito da laici ed i cui programmi non hanno più natura teologica: si tratta dei glossatori.
"...In un mondo abituato alla definizione sacrale del diritto naturale, esplicitata fin dalla prima riga del Decreto di Graziano (il diritto naturale come quello contenuto nelle Scritture), i glossatori fecero conoscere le definizioni di Ulpiano e di Paolo" (M. VILLEY, La formazione... , Op. cit. p.97): essi restituiscono ai testi romani il loro dettato originale, mentre ladattamento di questi testi ad un mondo nuovo é compito dei post-glossatori.
Sono necessarie una giurisprudenza nuova, una legislazione nuova e che, al di là del diritto romano, venga restaurata una fonte viva di diritto: sarà la dottrina tomista.
Quella di San Tommaso non é una restaurazione pura e semplice del diritto naturale aristotelico: la missione che gli viene affidata dal Papa, e che egli accetta, é quella di battezzare Aristotele, di armonizzare la sua dottrina con quella agostiniana e di arricchire la filosofia pagana nella fede cristiana.
Tale dottrina, di grande rilevanza storica, è data proprio dal fatto che il solo maestro dellAquinate è il mondo delle cose: esso costituisce lunico libro di cui il Santo voglia acquisire la chiave di lettura.
Per quanto riguarda il diritto naturale, San Tommaso, per lo più, segue il pensiero di Aristotele; vero é, però, che la dottrina tomista é ben più ordinata e coerente di quella aristotelica ed i suoi fondamenti si trovano nel Neoplatonismo, in Cicerone, in Ulpiano, nella Bibbia ed in Santo Agostino. LAquinate, infatti, non é adepto di nessuna scuola, ma intende conciliarle tutte.
Egli adotta le grandi tesi della filosofia classica sullordine naturale delluniverso, idea propria già di Platone, di Aristotele e degli stoici: San Tommaso la vede confermata in alcuni passaggi della Genesi e dallinsieme del dogma cristiano. Lidea di natura, nel quadro di una visione religiosa del mondo emerge nel Neoplatonismo, in particolare nei commenti al Timoteo (molto studiati nel Medioevo), e soprattutto nella dottrina scolastica delle cause seconde: ad ogni cosa particolare, il Dio Ordinatore dà le Proprie leggi naturali e la Sua natura. Così, "...Il fuoco va verso lalto, mentre i corpi pesanti vanno verso il basso, tranne che nei casi miracolosi" (san tommaso daquino, Summa Theologiae, il trattato De guberatione rerum, Ia, qq. 103 ss). In tal modo, la dottrina aristotelica dellordine naturale é trapiantata, da San Tommaso, nella fede cristiana.
Ogni regola, in quanto "naturale", proviene da Dio almeno indirettamente: la lex aeterna, ripresa da SantAgostino, e posta da San Tommaso al vertice del sistema nella sua classificazione delle leggi, é "...la ragione di Dio che dà ordine al cosmos" (san tommaso daquino, Summa Teologica, Ia-IIae, q. 93).
E, allinterno di questo, ogni specie o genere di essere ha il proprio ordine, che regola i movimenti di ciascun corpo (ed infatti, luniverso tomista, come quello aristotelico, é un universo dinamico, in cui lessenziale é dato dal movimento, cioè dal passaggio dalla potenza allatto).
I movimenti degli esseri ubbidiscono ognuno alle leggi della propria natura, che li indirizza verso un certo fine, verso la pienezza dellessere: gli animali ubbidiscono a questordine istintivamente (ad esempio, listinto spinge lanimale a compiere latto sessuale, quando serve alla conservazione della specie), mentre gli uomini, anche se i loro stessi movimenti seguono le leggi dellistinto, ubbidiscono alla loro natura razionalmente, cioè, con libertà.
Lo studio della natura umana viene a costituire la morale che San Tommaso trova codificata da Aristotele, e più ancora dalle dottrine stoiche, soprattutto nel De Officiis di Cicerone, il quale scruta " le inclinazioni ed i fini naturali delluomo" (cicerone, De officiis, I, 4) e, ne deduce una morale. Si tratta di un catalogo di doveri verso la città, la famiglia, il padre, i figli, gli amici, gli stranieri, se stessi (dal momento che luomo é un animale di natura socievole, familiare, razionale) per le diverse situazioni di vita, per le diverse età e condizioni sociali. É una morale che lEuropa ha fatto sua.
San Tommaso é uno degli operatori più importanti della rinascita di questa morale: egli assimila il concetto di natura e quello "...dei fini ai quali sono naturalmente ordinate le azioni umane" (san tommaso daquino, Summa Teologica, Ia-IIae, qq.1 ss); introduce deliberatamente nella teologia cristiana lidea dellordine naturale per redigere una lista di virtù (morali, se non teologali, e per precisarne il contenuto: in particolare il contenuto della giustizia, cioè, del diritto naturale).
Non dalle idee, ma dallosservazione dei fatti, San Tommaso parte per desumere il contenuto del diritto naturale, poiché " non cè, nelluomo, scienza infusa, né un accesso diretto alle idee divine, nemmeno nello stato di innocenza" (san tommaso daquino, Summa Teologica, Ia, q. 101, art.1). Ne seguono due conseguenze: da una parte, che i risultati dello studio del diritto naturale si caratterizzano per il loro essere realisti, dallaltra che, basandosi sullambito ristretto della esperienza umana, non si può che avere risultati imperfetti, parziali, provvisori.
Sovvengono, allora, le nature: é qui che il lavoro dellintelligenza (secondo la filosofia classica del diritto naturale) porta alla conoscenza del diritto. Infatti, dal momento che lordine é nella natura, la scienza lo percepisce, mentre tende ad eliminare il disordine.
Compito della scienza del diritto naturale, dunque, é quello di partire dallosservazione per andare alla ricerca della natura e dei fini, sia del singolo uomo che dei gruppi sociali. La Genesi, i Salmi e San Paolo descrivono Dio mentre sparge sulluomo, creato a sua immagine, una parte della sua luce, inserendo nellanima di ogni individuo alcuni principi generalissimi che lo guidano nella sua ricerca.
Si deve forse ritenere, come sembra essere opinione di tanti tomisti moderni, che San Tommaso pensi che sia possibile redigere, sotto il nome di diritto naturale, un codice di regole eterne? Anche se la maggior parte degli interpreti pensa in questi termini, i testi dicono il contrario: è vero che San Tommaso predica " lesistenza di una legge naturale immutabile" (san tommaso daquino, Summa Teologica, Ia-IIae, q.94, art.3), ma la nozione di legge naturale é molto più ampia di quella di diritto; del resto, quando parla di legge naturale, lAquinate non fa riferimento ad una qualsiasi norma giuridica.
Ma allora, di che legge si tratta? Della formula "bisogna fare il bene, evitare il male", uno dei principi che sono stati immessi nelluomo dalla intelligenza divina. Questo principio é immutabile, ma é anche un principio puramente formale.
San Tommaso concepisce il diritto, che é il diritto naturale, solo a complemento delle leggi positive, e ciò lo porta ad attribuire " alle leggi positive un posto predominante" (san tommaso daquino, Summa Teologica, Ia-Iae, q.90), nella sua teoria generale delle leggi e nell'analisi alle leggi umane (san tommaso daquino, Summa Teologica, Ia-Iae, q.95), sia in merito alla loro potestas (san tommaso daquino, Summa Teologica, Ia-Iae, q.96) che al loro cambiamento (san tommaso daquino, Summa Teologica, Ia-Iae, q.97).
Egli, dunque, riprende allincirca la lezione aristotelica sulla necessità delle leggi positive umane; sullorigine della legge, che deriva dallautorità presente per dettato naturale in ogni gruppo politico umano; sulla continuità del diritto positivo umano relativamente al diritto naturale ("...il lavoro legislativo é un prolungamento dello studio del giusto naturale ed ogni legge umana deriva dalla legge naturale, sia per via di conclusione che di determinazione"); sulle qualità della legge umana positiva, che deve essere non solo giusta, promulgata per il bene comune, ma anche adatta alle circostanze del tempo e del luogo; sulla sua autorità ("...la legge umana, avendo essa stessa il suo fondamento nella natura, deve essere, in linea di principio, ubbidita, ma il suo potere é sempre condizionato: la legge non é tale, se non quando adempie al suo compito di esprimere e di realizzare il giusto", M. VILLEY, La formazione... , Op. cit., pp.119 e 120); ed infine, sulla sua funzione legislatrice: la dottrina classica del diritto naturale, proprio perché concepisce questo diritto come incompleto, privo di forma e mutevole, induce San Tommaso alla restaurazione della legge.