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san Pio X
Sacrorum antistitum
Riteniamo che non sia sfuggito a nessuno dei santi vescovi, che i
modernisti, la maliziosissima categoria d'uomini che avevamo smascherato per
loro nella Lettera enciclica Pascendi
Dominici Gregis, non si sono astenuti dai propositi di turbare la pace della
Chiesa.
Infatti hanno continuato ad adescare nuovi seguaci e a farli
associare mediante un’alleanza segreta, e con essi ad inoculare nelle vene del
cristianesimo il virus delle loro opinioni, pubblicando, anonimamente o sotto
pseudonimi, libri ed articoli.
Se, riletta la summenzionata Nostra Lettera, si considera con più
attenzione lo sviluppo di quest'audacia, per mezzo della quale Ci è arrecato
tanto dolore, apparirà chiaramente che uomini di tale condotta non sono altro
che quelli che abbiamo già descritto là, nemici tanto più temibili quanto più
sono vicini; i quali abusano del loro ministero per porre sull'amo un'esca
avvelenata con cui corrompere gli sprovveduti, divulgando un'apparenza di
dottrina, in cui è contenuta la somma di tutti gli
errori.
Dato che questa peste si sparge attraverso quella parte del campo
del Signore da cui ci si aspetterebbero i frutti più lieti, se da un lato è
proprio di tutti i Vescovi spendersi in difesa della fede cattolica, e vigilare
con somma diligenza affinché l'integrità del deposito divino non riceva alcun
danno, dall’altro lato a Noi è di massima pertinenza fare ciò che ha comandato
Cristo Salvatore, il quale a Pietro (il cui principato, seppur indegnamente, Noi
abbiamo ricevuto,) disse: Conferma i tuoi fratelli. Appunto per questa
causa, cioè, affinché gli animi dei buoni siano confermati nell'affrontare la
presente battaglia, abbiamo ritenuto opportuno riportare delle frasi e delle
prescrizioni del Nostro suddetto documento, espresse con queste
parole:
«Perciò vi preghiamo e scongiuriamo che, in
una questione di tanto rilievo, non Ci lasciate minimamente desiderare la vostra
vigilanza e diligenza e fortezza. E quel che chiediamo ed aspettiamo da voi, lo
chiediamo e lo aspettiamo anche dagli altri pastori d'anime, dagli educatori e
maestri del giovane clero, e specialmente dai Superiori generali degli Ordini
religiosi.
I.Per
ciò che riguarda gli studi, vogliamo e decisamente ordiniamo che a fondamento
degli studi sacri si ponga la filosofia scolastica. Bene inteso che, "se dai
Dottori scolastici qualcosa fu ricercato troppo sottilmente o trattato con poca
avvedutezza; se fu detta cosa poco coerente con dottrine accertate dei secoli
seguenti, o in qualsiasi modo non ammissibile; non è nostra intenzione che tutto
ciò sia proposto come esempio da imitare anche ai nostri giorni" (Leone XIII,
Enc. "Æterni Patris").
Ciò
che conta anzitutto è che come filosofia scolastica, che Noi ordiniamo di
seguire, si deve precipuamente intendere quella di San Tommaso d'Aquino: intorno
alla quale tutto ciò che il Nostro Predecessore stabilì, intendiamo che rimanga
in pieno vigore e, se necessario, lo rinnoviamo e confermiamo, e ordiniamo
severamente che sia da tutti osservato. Se nei Seminari ciò si è trascurato,
toccherà ai Vescovi insistere ed esigere che in futuro si osservi. Lo stesso
comandiamo ai Superiori degli Ordini religiosi. Ammoniamo poi quelli che
insegnano, di ben persuadersi che il discostarsi dall'Aquinate, specialmente in
cose metafisiche, non avviene senza grave danno. Un errore piccolo in principio, così
si possono utilizzare proprio le parole dell'Aquinate stesso, è grande alla fine. (De Ente et Essentia,
proem.)
Posto
così il fondamento della filosofia, si innalzi con somma diligenza l'edificio
teologico. Venerabili Fratelli, promuovete con ogni sforzo possibile lo studio
della teologia, affinché i chierici, uscendo dai Seminari, ne portino con sé
un'alta stima ed un grande amore e l'abbiano sempre carissimo. Infatti "nella
grande e molteplice abbondanza di discipline che si porgono alla mente assetata
di verità, a tutti è noto che alla sacra Teologia appartiene il primo posto,
tanto che fu antico detto dei sapienti, che è dovere delle altre scienze ed arti
di servirla ed aiutarla come ancelle" (Leone XIII, Lett. Ap. "In magna", 10
dicembre 1889). Aggiungiamo qui, che Ci sembrano degni di lode anche coloro che,
mantenendo intatto il rispetto alla Tradizione, ai Padri e al Magistero
ecclesiastico, con saggio criterio e utilizzando le norme cattoliche (cosa che
non è da tutti) cercano di illustrare la teologia positiva, attingendo lume
dalla storia. Alla teologia positiva deve ora darsi più larga parte che in
passato: ciò nondimeno deve farsi in modo tale che la teologia scolastica non ne
venga a perdere nulla, e si disapprovino quali fautori del modernismo coloro che
innalzano tanto la teologia positiva da sembrar quasi spregiare la
Scolastica.
In
quanto alle discipline profane basti richiamare quel che il Nostro Predecessore
disse con molta sapienza (Allocuz. "Pergratus Nobis" 7 marzo 1880): "Adoperatevi
strenuamente nello studio delle scienze naturali, nel cui campo gli ingegnosi
ritrovati e gli utili ardimenti dei nostri tempi sono, a ragione, ammirati dai
contemporanei, cosi come avranno perpetua lode ed encomio dai posteri". Questo
però senza danno degli studi sacri: cosa di cui ammoniva lo stesso Nostro
Predecessore con queste altre gravissime parole (Loc. cit.): "Ad una ricerca più
attenta, si comprenderà come la causa di simili errori stia principalmente nel
fatto che in questi nostri tempi, quanto più fervono gli studi delle scienze
naturali, tanto più vengono meno le discipline più severe e più alte: alcune di
queste, infatti, sono quasi cadute in dimenticanza; alcune sono trattate
stancamente e con leggerezza, e, ciò che è indegno, perduto lo splendore della
primitiva dignità, sono inficiate da opinioni sbagliate e da enormi errori". Con
questa legge ordiniamo che si regolino nei Seminari gli studi delle scienze
naturali.
II.
A questi ordinamenti tanto Nostri che del Nostro Predecessore occorre volgere
l'attenzione ogni qual volta si tratti di scegliere i rettori e gli insegnanti
dei Seminari e delle Università cattoliche. Chiunque in alcun modo sia
contaminato da modernismo, sia tenuto lontano senza riguardi di sorta sia
dall'incarico di reggere sia da quello d'insegnare: se già si trova con tale
incarico, ne sia rimosso: si faccia lo stesso con coloro che in segreto o
apertamente favoriscono il modernismo, o lodando modernisti e giustificando la
loro colpa, o criticando la Scolastica, i Padri e il Magistero ecclesiastico, o
ricusando obbedienza alla potestà ecclesiastica, da chiunque essa sia
rappresentata; lo stesso con chi in materia storica, archeologica e biblica si
mostri amante di novità; e infine, con quelli che non si curano degli studi
sacri o paiono anteporre a questi i profani. In questa parte, o Venerabili
Fratelli, e specialmente nella scelta dei maestri, non sarà mai eccessiva la
vostra attenzione e fermezza; dato che sull'esempio dei maestri si formano per
lo più i discepoli. Poggiati dunque sul dovere di coscienza, procedete in questa
materia con prudenza sì, ma con fortezza.
Con
pari vigilanza e severità dovrete esaminare e scegliere chi debba essere ammesso
al sacerdozio. Lungi, lungi dal clero l'amore di novità: Dio non vede di buon
occhio gli animi superbi e arroganti! A nessuno in futuro si conceda la laurea
in teologia o in diritto canonico, se non ha prima completato per intero il
corso stabilito di filosofia scolastica. Se tale laurea ciò nonostante venisse
concessa, sia nulla. Le disposizioni che la Sacra Congregazione dei Vescovi e
Regolari emanò, nell'anno 1896, per i chierici d'Italia secolari e regolari,
circa il frequentare le Università, stabiliamo che d'ora innanzi siano estese a
tutte le nazioni. I chierici e sacerdoti iscritti ad un Istituto o ad una
Università cattolica non potranno seguire nelle Università civili quei corsi, di
cui vi siano cattedre negli Istituti cattolici ai quali essi appartengono. Se in
alcun luogo ciò si è permesso per il passato, ordiniamo che non si conceda più
nell'avvenire. I Vescovi che formano il Consiglio direttivo di tali cattolici
Istituti o Università veglino con ogni cura perché questi Nostri comandi vi si
osservino costantemente.
III.
È parimenti compito dei Vescovi impedire che vengano letti gli scritti
modernisti, o che sanno di modernismo, se già pubblicati, o, se non lo sono
ancora, proibire che si pubblichino. Non si dovrà mai permettere alcun libro o
giornale o periodico di tal genere né agli alunni dei Seminari né agli uditori
delle Università cattoliche: il danno che ne proverrebbe non sarebbe minore di
quello delle letture immorali; sarebbe anzi peggiore, perché ne verrebbe viziata
la radice stessa del vivere cristiano. Lo stesso si dovrà giudicare degli
scritti di taluni cattolici, uomini del resto di non malvagie intenzioni, ma
che, digiuni di studi teologici e imbevuti di filosofia moderna, cercano di
accordare questa con la fede e di farla servire, come essi dicono, ai vantaggi
della fede stessa. Il nome e la buona fama degli autori fanno sì che tali libri
siano letti senza alcun timore e risultino quindi più pericolosi, attraendo al
modernismo a poco a poco.
Per
dar poi, o Venerabili Fratelli, disposizioni più generali in materia tanto
grave, se nelle vostre diocesi sono in vendita libri dannosi, adoperatevi con
forza a bandirli, facendo anche uso di solenni condanne. Benché questa Sede
Apostolica si adoperi in ogni modo per togliere di mezzo simili scritti, ormai
ne è tanto cresciuto il numero, che a condannarli tutti non bastano le forze.
Quindi accade che la medicina giunga talora troppo tardi, quando cioè, per il
troppo attendere, il male ha già preso piede. Vogliamo dunque che i Vescovi,
deposto ogni timore, messa da parte la prudenza della carne, trascurando lo
strepito dei malvagi, soavemente, sì, ma con costanza, facciano ciascuno la sua
parte; memori di quanto prescriveva Leone XIII nella Costituzione Apostolica
"Officiorum": "Gli Ordinari, anche come Delegati della Sede Apostolica, si
adoperino di proscrivere e di togliere dalle mani dei fedeli i libri o altri
scritti nocivi stampati o diffusi nelle proprie diocesi". Con queste parole si
concede, è vero, un diritto: ma s'impone al contempo un dovere. E nessuno reputi
di aver adempiuto a tale dovere se ha deferito a Noi l'uno o l'altro libro,
mentre moltissimi altri si lasciano divulgare e diffondere. Né in ciò vi deve
trattenere, Venerabili Fratelli, il sapere che l'autore di qualche libro abbia
ottenuto altrove la facoltà comunemente detta Imprimatur; sia perché tale
concessione può essere simulata, sia perché può essere stata fatta per
trascuratezza o per troppa benignità e troppa fiducia nell'autore, caso questo
che può talora avverarsi negli Ordini religiosi. Si aggiunga che, come non ogni
cibo si confà a tutti egualmente, così un libro che in un luogo sarà
indifferente, in un altro, per le circostanze, può risultare nocivo. Se pertanto
il Vescovo, udito il parere di persone prudenti, stimerà di dover condannare
nella sua diocesi anche qualcuno di tali libri, gliene diamo ampia facoltà, anzi
gliene facciamo un dovere. La cosa sia fatta convenientemente, restringendo la
proibizione soltanto al clero, se questo basta; ma in tal caso sarà obbligo dei
librai cattolici non porre in vendita i libri condannati dal Vescovo. E dal
momento che Siamo in argomento, i Vescovi vigilino che i librai, per bramosia di
lucro, non spaccino merce malsana: è certo che nei cataloghi di alcuni di essi
vengono proposti di frequente, e con non poca lode, i libri dei modernisti. Se
essi rifiutano di obbedire, i Vescovi non esitino a privarli del titolo di
librai cattolici; tanto più, se avranno quello di vescovili; e se avessero
titolo di pontifici, siano deferiti alla Sede Apostolica. A tutti infine
ricordiamo l'articolo XXVI della menzionata Costituzione Apostolica
"Officiorum": "Tutti coloro che abbiano ottenuto facoltà apostolica di leggere e
ritenere libri proibiti, non sono per questo autorizzati a leggere libri o
giornali proscritti dagli Ordinari locali, se nell'indulto apostolico non sia
data espressa facoltà di leggere e ritenere libri condannati da
chiunque".
IV.
Ma non basta impedire la lettura o la vendita dei libri cattivi; occorre anche
impedirne la stampa. Quindi i Vescovi non concedano la facoltà di stampa se non
con la massima severità. E poiché è grande il numero delle pubblicazioni, che,
secondo la Costituzione "Officiorum", esigono l'autorizzazione dell'Ordinario, e
il Vescovo non le può revisionare tutte da solo, in talune diocesi si sogliono
determinare in numero adeguato censori d’ufficio per l'esame degli scritti.
Somma lode noi diamo a tale istituzione di censura; e non solo esortiamo, ma
ordiniamo che si estenda a tutte le diocesi. Dunque in tutte le Curie episcopali
si stabiliscano Censori per la revisione degli scritti da pubblicarsi; si
scelgano questi dall'uno e dall'altro clero, uomini di età, di scienza e di
prudenza e che nel giudicare sappiano tenere il giusto mezzo. Spetterà ad essi
l'esame di tutto quello che, secondo gli articoli XLI e XLII della detta
Costituzione, ha bisogno di permesso per essere pubblicato. Il Censore darà per
iscritto la sua sentenza. Se sarà favorevole, il Vescovo concederà la facoltà di
stampa con la parola Imprimatur, la quale però sarà
preceduta dalla formula Nihil
obstat e dal nome del Censore. Anche nella Curia romana non diversamente
che nelle altre, si stabiliranno censori di ufficio. L'elezione dei medesimi,
una volta interpellato il Cardinale Vicario e coll'assenso ed approvazione dello
stesso Sommo Pontefice, spetterà al Maestro del sacro Palazzo Apostolico. A
questo pure toccherà determinare per ogni singolo scritto il Censore che lo
esamini. La facoltà di stampa sarà concessa dallo stesso Maestro ed insieme dal
Cardinale Vicario o dal suo Vicegerente, premesso però, come sopra si disse, il
Nulla osta col nome del Censore. Solo in circostanze straordinarie e molto di
rado si potrà, a prudente arbitrio del Vescovo, omettere la menzione del
Censore. Agli autori non si farà mai conoscere il nome del Censore, prima che
questi abbia dato giudizio favorevole: affinché il Censore stesso non abbia a
patir molestia mentre esamina lo scritto o in caso che ne disapprovi la stampa.
Non si sceglieranno mai Censori dagli Ordini religiosi, senza prima aver sentito
segretamente il parere del Superiore provinciale: questo dovrà secondo coscienza
attestare dei costumi, della scienza e della integrità della dottrina del
candidato. Ammoniamo i Superiori religiosi del gravissimo dovere che essi hanno
di non permettere mai che alcunché
sia pubblicato dai loro sottoposti senza la previa facoltà loro e dell'Ordinario
diocesano. Per ultimo affermiamo e dichiariamo che il titolo di Censore, di cui
taluno sia insignito, non ha alcun valore né mai si potrà arrecare come
argomento per dar credito alle private opinioni del
medesimo.
Detto
ciò in generale, ordiniamo espressamente un'osservanza più diligente di quanto
si prescrive nell'articolo XLII della citata Costituzione "Officiorum", cioè: "È
vietato ai sacerdoti secolari, senza previo permesso dell'Ordinario, assumere la
direzione di giornali o di periodici". Del quale permesso, dopo ammonizione,
sarà privato chiunque ne facesse cattivo uso. Circa quei sacerdoti, che hanno
titoli di corrispondenti o collaboratori, poiché avviene non raramente che
pubblichino, nei giornali o periodici, scritti infetti da modernismo, vedano i
Vescovi che ciò non avvenga; e se avvenisse, ammoniscano e diano proibizione di
scrivere. Lo stesso ammoniamo con ogni autorità che facciano i Superiori degli
Ordini religiosi: e se questi si mostrassero in ciò trascurati, provvedano i
Vescovi, con autorità delegata dal Sommo Pontefice. I giornali e periodici
pubblicati dai cattolici abbiano, per quanto sia possibile, un Censore
determinato. Sarà obbligo di questo leggere integralmente e con attenzione i
singoli fogli o fascicoli, dopo che sono stati pubblicati: se troverà qualcosa
di pericoloso, ordinerà che sia corretto nel foglio o fascicolo successivo. Lo
stesso diritto avrà il Vescovo, anche nel caso in cui il Censore non abbia
reclamato.
V.
Ricordammo già sopra i congressi e i pubblici convegni, in cui i modernisti si
adoprano di propalare e propagare le loro opinioni. I Vescovi non permetteranno
più in avvenire, se non in casi rarissimi, i congressi di sacerdoti. Se avverrà
che li permettano, lo faranno solo a questa condizione: che non vi si trattino
cose di pertinenza dei Vescovi o della Sede Apostolica, non vi si facciano
proposte o postulati che implichino usurpazione della sacra potestà, non vi si
faccia affatto menzione di quanto sa di modernismo, di presbiterianismo, di
laicismo. A tali convegni, che dovranno permettersi solo di volta in volta e per
iscritto e al momento adatto, non potrà intervenire alcun sacerdote di altra
diocesi, se non porta una lettera di raccomandazione del proprio Vescovo. A
tutti i sacerdoti poi non passi mai di mente ciò che Leone XIII raccomandava con
parole gravissime (Lett. Enc. "Nobilissima Gallorum", 10 febbraio
1884): "Sia intangibile presso i sacerdoti l'autorità dei propri Vescovi; si
persuadano che il ministero sacerdotale, se non si esercita sotto la direzione
del Vescovo, non sarà né santo, né molto utile, né
rispettabile".
VI.
Ma che gioveranno, o Venerabili Fratelli, i Nostri comandi e le Nostre
prescrizioni, se non si osserveranno a dovere e con fermezza? Perché questo si
ottenga, Ci è parso espediente estendere a tutte le diocesi ciò che i Vescovi
dell'Umbria (Atti del Congr. dei Vescovi dell'Umbria, nov. 1849, tit. II, art.
6), molti anni or sono, con savissimo consiglio stabilirono per le loro: "Per
estirpare - così essi dicono - gli errori già diffusi e per impedire che si
diffondano ulteriormente, o che
rimangano ancora maestri di empietà, attraverso i quali si perpetuano i
perniciosi effetti originati da quella diffusione, il sacro Congresso, seguendo
gli esempi di San Carlo Borromeo, stabilisce che in ogni diocesi si istituisca
un Consiglio di uomini commendevoli dei due cleri, a cui spetti controllare se e
con quali arti i nuovi errori si dilatino o si propaghino, e informarne il
Vescovo, così che questi, raccolti i suggerimenti, possa prendere rimedi
estinguendo il male già sul nascere, senza lasciare che si diffonda sempre più a
rovina delle anime, e, ciò che è peggio, si rafforzi e cresca col passar del tempo".
Stabiliamo dunque che un siffatto Consiglio, che si chiamerà di vigilanza, si
istituisca quanto prima in tutte le diocesi. I membri di esso si sceglieranno
con le stesse norme già prescritte per i Censori dei libri. Ogni due mesi, in un
giorno determinato, si radunerà in presenza del Vescovo: le cose trattate o
stabilite saranno sottoposte a legge di segreto. I doveri degli appartenenti al
Consiglio saranno i seguenti: Scrutino con attenzione gli indizi di modernismo
tanto nei libri che nell'insegnamento; con prudenza, prontezza ed efficacia
stabiliscano quanto è necessario per l’incolumità del clero e della gioventù.
Combattano le novità di parole, e rammentino gli ammonimenti di Leone XIII (S.
C. AA. EE. SS., 27 gennaio 1901): "Non si potrebbe approvare nelle pubblicazioni
cattoliche un linguaggio che, ispirandosi a malsana novità, sembrasse deridere
la pietà dei fedeli ed accennasse a un nuovo ordinamento della vita cristiana, a
nuove prescrizioni della Chiesa, a nuove necessità dell'anima moderna, a nuova
vocazione sociale del clero, a nuova civiltà cristiana, e molte altre cose di
questo genere". Non sopportino tutto questo, né nei libri né dalle cattedre. Non
trascurino i libri nei quali si tratti o delle pie tradizioni di ciascun luogo o
delle sacre Reliquie. Non permettano che tali questioni si agitino nei giornali
o in periodici destinati a fomentare la pietà, né con espressioni che sappiano
di ludibrio o di disprezzo né con affermazioni definitive specialmente, come il
più delle volte accade, quando ciò che si afferma o non passa i termini della
probabilità o si basa su pregiudicate opinioni. Circa le sacre Reliquie si
abbiano queste norme. Se i Vescovi, i quali sono i soli giudici in questa
materia, sanno con certezza che una reliquia è falsa, la toglieranno senz'altro
dal culto dei fedeli. Se le autentiche di una Reliquia qualsiasi sono andate
smarrite o per i disordini civili o in altro modo, essa non si esponga alla
pubblica venerazione, se prima il Vescovo non ne abbia fatta ricognizione.
L'argomento di prescrizione o di fondata presunzione avrà valore solo quando il
culto sia commendevole per antichità: il che risponde al decreto emanato nel
1896 dalla Congregazione delle Indulgenze e sacre Reliquie, in questi termini:
"Le Reliquie antiche sono da conservarsi nella venerazione che finora ebbero,
salvo nel caso particolare in cui si abbiano argomenti certi che sono false o
supposte". Nel portar poi giudizio delle pie tradizioni si tenga sempre
presente, che la Chiesa in questa materia fa uso di tanta prudenza, da non
permettere che tali tradizioni si raccontino nei libri, se non con grandi
cautele e premessa la dichiarazione prescritta da Urbano VIII: il che pure
adempiuto, non per questo ammette la verità del fatto, ma solo non proibisce che
si creda, ove a farlo non manchino argomenti umani. Così appunto la sacra
Congregazione dei Riti dichiarava fin da trent'anni addietro (Decreto 2 maggio
1877): "Siffatte apparizioni o rivelazioni non furono né approvate né condannate
dalla Sede Apostolica, ma solo passate come da piamente credersi con sola fede
umana, conforme alla tradizione di cui godono, confermata pure da idonei
testimoni e documenti". Nessun timore può ammettere chi a questa regola si
tenga. Infatti il culto di qualsiasi apparizione, quando riguarda il fatto
stesso ed è detto relativo, ha
sempre implicita la condizione della verità del fatto: quando invece è assoluto, si fonda sempre nella
verità, giacché si dirige alle persone stesse dei santi che si onorano. Lo
stesso vale delle Reliquie. Diamo mandato infine al Consiglio di vigilanza, di
tener d'occhio assiduamente e diligentemente gl'istituti sociali come pure gli
scritti di questioni sociali affinché non vi si celi nulla di modernista, ma
ottemperino alle prescrizioni dei Romani Pontefici.
VII.
Affinché le cose fin qui stabilite non vadano in dimenticanza, vogliamo ed
ordiniamo che i Vescovi di ciascuna diocesi, trascorso un anno dalla
pubblicazione delle presenti Lettere, e poi ogni triennio, con diligente e
giurata esposizione riferiscano alla Sede Apostolica intorno a quanto si
prescrive in esse, e sulle dottrine che corrono in mezzo al clero e soprattutto
nei Seminari ed altri istituti cattolici, non eccettuati quelli che pur sono
esenti dall'autorità dell'Ordinario. Lo stesso imponiamo ai Superiori generali
degli Ordini religiosi a riguardo dei loro sottoposti».
A queste cose, che chiaramente confermiamo tutte, pena un peso
sulla coscienza per coloro che avranno rifiutato di ascoltare quanto detto, ne
aggiungiamo altre, che sono specificamente riferite agli aspiranti sacerdoti che
vivono nei Seminari e ai novizi degli istituti
religiosi.
- Nei Seminari certamente occorre che tutte le parti
dell'istituzione tendano al medesimo fine di formare un sacerdote degno di tale
nome. Ed infatti non si può ritenere che simili tirocini si estendano solamente
o agli studi o alla pietà. L'ammaestramento fonde in un tutto unico entrambi gli
aspetti, ed essi sono simili a palestre finalizzate a formare la sacra milizia
di Cristo con una preparazione duratura. Dunque affinché da essi esca un
esercito ottimamente istruito, sono assolutamente necessarie due cose, la
cultura per l’istruzione della mente, la virtù per la perfezione dell'anima.
L'una richiede che la gioventù che si prepara al sacerdozio sia massimamente
istruita in quelle scienze che hanno un legame più stretto con gli studi delle
cose divine; l'altra esige una straordinaria eccellenza di virtù e di costanza.
Vedano dunque i rettori quale aspettativa di disciplina e di pietà si possa
nutrire riguardo agli allievi, e scrutino quale sia l'indole dei singoli; se
seguono il loro istinto più giusto o se sembrano abbracciare delle disposizioni
di spirito profane; se sono docili nell'obbedire, inclini alla pietà, umili,
osservanti della disciplina; se aspirano alla dignità di sacerdote perché si
sono prefissati il giusto obiettivo, o perché spinti da ragioni umane; se,
infine, sono adeguatamente ricchi di santità di vita e di cultura; o se,
mancando loro qualcosa di queste, si sforzano almeno di acquisirla con animo
sincero e pronto. Né l'indagine presenta troppa difficoltà; giacché i doveri
religiosi compiuti lamentandosi, e la disciplina osservata a causa del timore e
non della voce della coscienza, rivelano immediatamente la mancanza delle virtù
che ho elencato. Colui che tiene come principio il timore servile, o si
infiacchisce per debolezza di carattere o disprezzo, è quanto mai lontano dalla
speranza di poter esercitare santamente il sacerdozio. Infatti difficilmente si
può credere che uno che disprezza le discipline domestiche non verrà poi meno
alle leggi pubbliche della Chiesa. Se il rettore della scuola avrà individuato
qualcuno con questa disposizione d’animo, e se, dopo averlo ammonito più volte,
fatta una prova di un anno, avrà capito che quello non desiste dalla sua
consuetudine, lo espella, in modo tale che in futuro non possa più essere
accettato né da lui né da alcun vescovo.
Dunque per promuovere i chierici si richiedano assolutamente
queste due; l'onestà di vita unita alla sana dottrina: E non sfugga che quei
precetti e moniti coi quali i vescovi si rivolgono a coloro che stanno per
ricevere gli ordini sacri, sono rivolti a questi non meno che a coloro che vi
aspirano, allorché viene detto: "Si deve fare in modo che quelli scelti per tale
compito siano illustri per saggezza spirituale, onestà di costumi e costante
rispetto della giustizia ... Siano onesti e assennati tanto nella scienza quanto
nelle opere … splenda in essi la bellezza della santità nella sua
interezza".
E certamente dell'onestà di vita si sarebbe detto abbastanza, se
questa potesse con poco sforzo essere separata dalla cultura e dalle opinioni,
che ciascuno si sarà riservato di sostenere. Ma, come è nel Libro dei Proverbi:
L'uomo è stimato secondo la sua cultura (Prov. XII, 8) e come
insegna l'Apostolo: Chi... non rimane nella dottrina di Cristo, non possiede
Dio (II Giov., 9). Quanto impegno sia da dedicare alle molte e varie cose da
imparare bene, lo insegna persino la stessa pretesa dell’epoca attuale, la quale
proclama che niente è più glorioso della luce dell’umanità che progredisce.
Dunque quanti sono nelle file del clero, se vogliono dedicarsi al loro
compito conformemente ai tempi; con frutto esortare gli altri nella
sana dottrina e convincere quelli che la contraddicono (Tito, I,9);
applicare le risorse dell’ingegno a vantaggio della Chiesa, devono
necessariamente raggiungere una conoscenza delle cose tutt’altro che di basso
livello, e avvicinarsi all’eccellenza nella cultura. Infatti c'è da lottare con
nemici tutt'altro che inesperti, i quali aggiungono ai buoni studi un sapere
spesso intessuto di trabocchetti, e le cui sentenze belle e vibranti sono
proposte con grande abbondanza e rimbombo di parole, affinché in esse sembri
risuonare quasi un qualcosa di esotico. Perciò bisogna predisporre
opportunamente le armi, cioè, preparare abbondante foraggio di cultura per tutti
coloro che, nella vita ritirata della scuola, si stanno accingendo ad assumere
incarichi santissimi e difficilissimi.
E' vero che, poiché la vita dell'uomo è circoscritta da limiti
tali per cui da un fonte ricchissimo di conoscenze a stento è dato di assaggiare
qualcosa a fior di labbra, bisogna anche temperare la sete di apprendimento e
rammentare l'affermazione di Paolo: non è pio sapere tutto quanto necessita
sapere, ma sapere in giusta misura (Rom. XII,3). Per cui, dato che ai
chierici già sono imposti molti e pesanti studi, sia per quanto riguarda le
sacre scritture, i fondamenti della Fede, le consuetudini, la conoscenza delle
devozioni e delle celebrazioni, che vanno sotto il nome di ascetica, sia
per quanto riguarda la storia della Chiesa, il diritto canonico, la sacra
eloquenza; affinché i giovani non perdano tempo nel seguire altre questioni e
non vengano distratti dallo studio principale, vietiamo del tutto a costoro la
lettura di qualsiasi quotidiano e periodico, anche se ottimo, pena un onere
sulla coscienza di quei rettori che non avranno vigilato scrupolosamente per
impedirlo.
Inoltre per allontanare il sospetto che qualsiasi modernismo si
introduca di nascosto, non solo vogliamo che siano assolutamente rispettate le
cose prescritte sopra al n° II, ma comandiamo inoltre che ogni singolo
insegnante, prima di cominciare le lezioni all'inizio dell'anno, mostri al suo
Vescovo il testo che si propone di insegnare, o le questioni che tratterà,
oppure le tesi; quindi che per quell’anno stesso sia tenuto sotto
osservazione il metodo d’insegnamento di ciascuno; e se questo sembrerà
allontanarsi dalla sana dottrina, sarà causa sufficiente per rimuovere
quell’insegnante. Ed infine, che, oltre alla professione di fede, presti
giuramento al suo Vescovo, secondo la formula sotto riportata, e
firmi.
Questo giuramento, preceduto da una professione di fede nella
formula prescritta dal Nostro Predecessore Pio IV, con allegate le definizioni
del Concilio Vaticano, lo presteranno dunque davanti al loro
vescovo:
I. I chierici che stanno per ricevere gli ordini maggiori; ad essi
singolarmente sia previamente consegnato un esemplare sia della professione di
fede, sia della formula del giuramento da emettere, in modo che le conoscano in
anticipo accuratamente, essendovi una sanzione, come si vedrà sotto, in caso di
violazione del giuramento.
II. I sacerdoti destinati a raccogliere le confessioni, e i sacri
predicatori, prima che sia loro concessa facoltà di svolgere tali
compiti.
III. I Parroci, i Canonici, i Beneficiari prima di entrare in
possesso del beneficio.
IV. Gli ufficiali nelle curie episcopali e nei tribunali
ecclesiastici, inclusi il Vicario generale e i
giudici.
V. Gli addetti ai sermoni che si tengono nei tempi
quaresimali.
VI. Tutti gli ufficiali nelle Congregazioni Romane o nei
tribunali, in presenza del Cardinale Prefetto o del Segretario di quella
Congregazione o di quel tribunale.
VII. I Superiori e i Docenti delle Famiglie e Congregazioni
religiose, prima di assumere l'incarico.
I documenti della professione di fede, di cui abbiamo detto, e
dell'avvenuto giuramento siano conservati in appositi registri presso le Curie
episcopali, e parimenti presso gli uffici di ciascuna Congregazione Romana. Se
poi qualcuno osasse, Dio non voglia, violare qualche giuramento, costui sia
deferito al tribunale del Sant'Uffizio.
FORMULA DEL GIURAMENTO
Io
... fermamente accetto e credo in tutte e in ciascuna delle verità definite,
affermate e dichiarate dal magistero infallibile della Chiesa, soprattutto quei
principi dottrinali che contraddicono direttamente gli errori del tempo
presente.
Primo:
credo che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con
certezza e può anche essere dimostrato con i lumi della ragione naturale nelle
opere da lui compiute (cf Rm 1,20), cioè nelle creature visibili, come causa dai
suoi effetti.
Secondo:
ammetto e riconosco le prove esteriori della rivelazione, cioè gli interventi
divini, e soprattutto i miracoli e le profezie, come segni certissimi
dell'origine soprannaturale della religione cristiana, e li ritengo
perfettamente adatti a tutti gli uomini di tutti i tempi, compreso quello in cui
viviamo.
Terzo:
con la stessa fede incrollabile credo che la Chiesa, custode e maestra del verbo
rivelato, è stata istituita immediatamente e direttamente da Cristo stesso vero
e storico mentre viveva fra noi, e che è stata edificata su Pietro, capo della
gerarchia ecclesiastica, e sui suoi successori attraverso i
secoli.
Quarto:
accolgo sinceramente la dottrina della fede trasmessa a noi dagli apostoli
tramite i padri ortodossi, sempre con lo stesso senso e uguale contenuto, e
respingo del tutto la fantasiosa eresia dell'evoluzione dei dogmi da un
significato all'altro, diverso da quello che prima la Chiesa professava;
condanno similmente ogni errore che pretende sostituire il deposito divino,
affidato da Cristo alla Chiesa perché lo custodisse fedelmente, con una ipotesi
filosofica o una creazione della coscienza che si è andata lentamente formando
mediante sforzi umani e continua a perfezionarsi con un progresso
indefinito.
Quinto:
sono assolutamente convinto e sinceramente dichiaro che la fede non è un cieco
sentimento religioso che emerge dall'oscurità del subcosciente per impulso del
cuore e inclinazione della volontà moralmente educata, ma un vero assenso
dell'intelletto a una verità ricevuta dal di fuori con la predicazione, per il
quale, fiduciosi nella sua autorità supremamente verace, noi crediamo tutto
quello che il Dio personale, creatore e signore nostro, ha detto, attestato e
rivelato.
Mi
sottometto anche con il dovuto rispetto e di tutto cuore aderisco a tutte le
condanne, dichiarazioni e prescrizioni dell'enciclica Pascendi e del decreto Lamentabili, particolarmente circa la
cosiddetta storia dei dogmi.
Riprovo
altresì l'errore di chi sostiene che la fede proposta dalla Chiesa può essere
contraria alla storia, e che i dogmi cattolici, nel senso che oggi viene loro
attribuito, sono inconciliabili con le reali origini della religione
cristiana.
Disapprovo
pure e respingo l'opinione di chi pensa che l'uomo cristiano più istruito si
riveste della doppia personalità del credente e dello storico, come se allo
storico fosse lecito difendere tesi che contraddicono alla fede del credente o
fissare delle premesse dalle quali si conclude che i dogmi sono falsi o dubbi,
purché non siano positivamente negati.
Condanno
parimenti quel sistema di giudicare e di interpretare la sacra Scrittura che,
disdegnando la tradizione della Chiesa, l'analogia della fede e le norme della
Sede apostolica, ricorre al metodo dei razionalisti e con non minore
disinvoltura che audacia applica la critica testuale come regola unica e
suprema.
Rifiuto
inoltre la sentenza di chi ritiene che l'insegnamento di discipline
storico-teologiche o chi ne tratta per iscritto deve inizialmente prescindere da
ogni idea preconcetta sia sull'origine soprannaturale della tradizione cattolica
sia dell'aiuto promesso da Dio per la perenne salvaguardia delle singole verità
rivelate, e poi interpretare i testi patristici solo su basi scientifiche,
estromettendo ogni autorità religiosa e con la stessa autonomia critica ammessa
per l'esame di qualsiasi altro documento profano.
Mi
dichiaro infine del tutto estraneo ad ogni errore dei modernisti, secondo cui
nella sacra tradizione non c'è niente di divino o peggio ancora lo ammettono ma
in senso panteistico, riducendolo ad un evento puro e semplice analogo a quelli
ricorrenti nella storia, per cui gli uomini con il proprio impegno, l'abilità e
l'ingegno prolungano nelle età posteriori la scuola inaugurata da Cristo e dagli
apostoli.
Mantengo
pertanto e fino all'ultimo respiro manterrò la fede dei padri nel carisma certo
della verità, che è stato, è e sempre sarà nella successione dell'episcopato
agli apostoli (S. Ireneo, Adversus
haereses, 4, 26, 2: PG 7, 1053), non perché si assuma quel che sembra
migliore e più consono alla cultura propria e particolare di ogni epoca, ma
perché la verità assoluta e immutabile predicata in principio dagli apostoli non
sia mai creduta in modo diverso né in altro modo intesa (Tertulliano, De praescriptione haereticorum, 28: PL
2, 40).
Mi
impegno ad osservare tutto questo fedelmente, integralmente e sinceramente e di
custodirlo inviolabilmente senza mai discostarmene né nell'insegnamento né in
nessun genere di discorsi o di scritti. Così prometto, così giuro, così mi
aiutino Dio e questi santi Vangeli di Dio.
DELLA SACRA PREDICAZIONE
(parte non ancora tradotta di sole 9 pagine: si cercano
volontari)
[…]
Dato in Roma, presso San Pietro, il giorno 1 settembre dell’anno
1910, ottavo del Nostro Pontificato.
Pio PP. X