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Leone XIII
Apostolicae curae

Lettera

Le ordinazioni anglicane
13 settembre 1896

Leone vescovo servo dei servi di Dio a perenne memoria

Alla nobilissima nazione inglese Noi abbiamo dedicato una parte non piccola della sollecitudine e della carità apostolica con cui cerchiamo in forza dell'ufficio di rappresentare e di imitare, col favore della sua grazia, "il grande pastore delle pecore, il Signore nostro Gesù Cristo" (Eb 13,20). Peculiare testimonianza della Nostra benevolenza verso la medesima [nazione] è la lettera che l'anno scorso abbiamo rivolto "agli inglesi che cercano il regno di Cristo nell'unità della fede": di questo popolo abbiamo ricordato naturalmente, richiamandola alla memoria, l'antica unione con la chiesa madre, e, riacceso nelle anime lo zelo di pregare Dio, ci siamo adoperati per portare a maturazione una felice riconciliazione. E di nuovo, non molto tempo fa, quando da un punto di vista generale e con una lettera pubblica si è voluto trattare più ampiamente dell'unità della chiesa, non abbiamo certo dimenticato l'Inghilterra; con la chiara speranza che i nostri documenti possano dare fermezza ai cattolici e luce salutare ai dissidenti. E fa piacere riconoscere, cosa che mette ugualmente in evidenza sia la benevolenza della popolazione che la preoccupazione della salvezza eterna di molti, come dagli inglesi sia stata valutata favorevolmente sia la Nostra premura che la Nostra libertà di espressione, poste in essere senza nessuna sollecitazione di calcolo umano. Ora poi con la medesima intenzione e con lo stesso spirito Noi abbiamo deciso di rivolgere l'attenzione ad una causa precisa di non minore importanza, che è in linea con lo stesso problema e con i Nostri desideri. Presso gli inglesi infatti, dopo un certo tempo dalla separazione dal centro dell'unità cristiana, è stato introdotto pubblicamente, sotto il re Edoardo VI, un rito completamente nuovo per il conferimento degli ordini sacri. Che per questo motivo sia venuto meno il vero sacramento dell'ordine, cosi come lo ha istituito Gesù Cristo, e contemporaneamente anche la successione gerarchica, fino a questo momento la sentenza comune lo ha tenuto per fermo, e gli atti e la costante disciplina della chiesa più di una volta l'hanno confermato. Tuttavia da qualche tempo e soprattutto in questi ultimi anni, si è ricominciato a discutere se le sacre ordinazioni compiute con il rito edoardiano abbiano o no la natura e l'efficacia del sacramento: danno corpo alla discussione, in modo affermativo o dubitativo, non solo diversi scrittori anglicani, ma anche alcuni cattolici, specialmente non inglesi. Gli uni certamente li ha spinti la grandezza del sacerdozio cristiano, nel desiderio di non essere privi della sua duplice potestà sul corpo di Cristo; gli altri li ha spinti l'intenzione di rendere loro in qualche modo più facile il ritorno all'unità. Gli uni e gli altri, essendo progrediti col tempo gli studi su questo argomento, ed essendo venuti alla luce nuovi documenti scritti, si sono detti persuasi che sarebbe stato quanto mai opportuno un nuovo esame della causa da parte della Nostra autorità. Noi quindi, non volendo assolutamente trascurare quei consigli e quei desideri, e soprattutto volendo assecondare la voce della carità apostolica, abbiamo ritenuto che non si dovesse tralasciare nulla che in qualche modo potesse portare ad una riduzione dei danni o ad un accrescimento dei vantaggi delle anime.

È sembrato bene allora permettere, con grandissima benignità, il riesame della causa: e in modo tale che, con la massima scrupolosità della nuova inchiesta, fosse del tutto eliminata per il futuro ogni possibilità di dubbio. Per questo, a un certo numero di uomini insigni per dottrina ed erudizione, e dei quali erano note le contrapposte opinioni su questo problema, abbiamo affidato il compito di mettere per iscritto i motivi del loro giudizio. Chiamatili poi presso di Noi, abbiamo chiesto loro di scambiarsi reciprocamente gli scritti, e di ricercare e valutare qualsiasi cosa che fosse meritevole di più ampia conoscenza per la soluzione del problema. Abbiamo poi stabilito che costoro, senza limitazione alcuna, potessero riesaminare negli archivi vaticani gli opportuni documenti già conosciuti e rendere pubblici quelli non ancora noti; e che ugualmente avessero a disposizione qualsiasi atto su tale argomento conservato presso il sacro Consiglio chiamato Suprema, come anche tutto ciò che avessero pubblicato fino ad oggi le persone più dotte da una parte e dall'altra. Abbiamo voluto che costoro, forniti di tali sussidi, si riunissero poi insieme in sedute particolari; se ne sono tenute dodici, sotto la presidenza di un cardinale della santa chiesa di Roma da Noi stessi designato, essendo stata data a tutti la facoltà di discutere liberamente. Gli atti infine delle loro riunioni, unitamente agli altri documenti, abbiamo ordinato che fossero tutti consegnati ai venerabili cardinali Nostri fratelli; così che questi, avendo riflettuto sul problema, ed avendolo infine dibattuto in Nostra presenza, potessero esprimere ciascuno il proprio parere.

Dopo aver avviato questo modo di procedere, era giusto tuttavia che non si affrontasse l'intima valutazione della causa, se prima non si fosse esaminato con grandissima diligenza lo stato in cui essa già si trovava secondo le determinazioni della sede apostolica e la consuetudine consolidata; di questa consuetudine era senza dubbio estremamente importante valutare il suo inizio e il suo valore. Sono stati così esaminati prima di tutto i principali documenti con i quali i Nostri predecessori, su richiesta della regina Maria, dedicarono particolari premure alla riconciliazione della chiesa d'Inghilterra. Giulio III infatti, designò a questo compito, come legato a latere, il cardinale Reginaldo Pole, di nazionalità inglese, esimio per molteplici meriti, "quasi suo angelo di pace e di amore", e gli assegnò compiti e poteri d'azione del tutto straordinari,2 che poi Paolo IV confermò e definì chiaramente. Per questo, al fine di valutare esattamente quale importanza abbiano in sé i documenti ricordati, è necessario stabilire, come punto di riferimento fondamentale, che il loro proposito non fu mai astratto, ma totalmente riferito alla specifica situazione e ad essa peculiare. Poiché infatti le facoltà attribuite da quei pontefici al legato apostolico riguardavano solo l'Inghilterra e la situazione della religione sul posto, anche le direttive di comportamento dagli stessi assegnate al legato inquirente, non potevano affatto avere lo scopo di determinare in linea generale quali siano le cose in assenza delle quali le ordinazioni sacre non sono valide; dovevano invece mirare esclusivamente a prendere posizione riguardo agli ordini sacri in quel regno, per quel che mostravano le ben note condizioni dei tempi e delle situazioni. Tutto questo, oltre al fatto di essere evidente per la natura e la modalità di quei documenti, risulta chiaramente anche per il seguente motivo: sarebbe stato del tutto assurdo, riguardo alle cose che sono necessarie per conferire il sacramento dell'ordine, volere che fosse istruito il legato, proprio lui, la cui dottrina aveva brillato anche nel Concilio di Trento.

A coloro che bene intendono queste cose, apparirà subito chiaro per quale motivo nella lettera di Giulio III al legato apostolico, scritta 1'8 marzo 1554, ci sia un distinto riferimento prima di tutto a coloro che, "promossi secondo il rito e in modo legittimo", dovessero essere conservati nei loro ordini, e poi a coloro che "non promossi ai sacri ordini" potessero, "se fossero stati trovati degni e idonei, essere promossi". Si indica infatti in modo certo e definito, come era in realtà, una duplice categoria di persone: da una parte coloro che avessero veramente ricevuto la sacra ordinazione, sia prima della secessione di Enrico, o, se anche successivamente per mezzo di ministri implicati nell'errore e nella separazione, tuttavia con il rito cattolico abituale; dall'altra coloro che fossero stati iniziati secondo l'Ordinale edoardiano, e che potessero quindi "essere promossi", dato che avevano ricevuto una ordinazione invalida. E che altro non fosse stato il proposito del pontefice, lo conferma chiaramente la lettera dello stesso legato del 29 gennaio 1555, che demanda le sue facoltà al vescovo di Norwick. Si deve inoltre soprattutto considerare ciò che la lettera stessa di Giulio III riporta riguardo alle facoltà pontificie da usare liberamente, anche a vantaggio di coloro ai quali la funzione di consacrare era stata conferita "in modo non pienamente conforme al rito e senza osservare la forma consueta della chiesa": con questa locuzione certamente venivano designati coloro che erano stati consacrati con il rito edoardiano; al di fuori di questa forma infatti e di quella cattolica, non ne esisteva altra in quel tempo in Inghilterra.

Queste cose poi si fanno più chiare ricordando la missione che i re Filippo e Maria, persuasi dal cardinale Pole, inviarono a Roma, al pontefice, nel mese di febbraio 1555. Gli ambasciatori del re, tre uomini "veramente insigni e forniti di ogni virtù", fra i quali Thomas Thirlby, vescovo di Elie, avevano l'intenzione di informare esattamente il pontefice con più complete notizie sulla situazione della realtà religiosa in quel regno, e di chiedere che fossero ritenute valide e confermate le cose che il legato aveva trattato e ottenuto per la riconciliazione del medesimo regno con la chiesa: per questo motivo furono portate al pontefice tutte le testimonianze scritte che erano necessario, e le parti del nuovo Ordinale che riguardavano più da vicino il problema. Accolta con grande solennità l'ambasceria. Paolo IV, "dopo aver discusso diligentemente" le medesime testimonianze con alcuni cardinali fidati, "pervenuto ad una deliberazione matura", pubblicò la lettera Praeclara carissimi il giorno 20 giugno del medesimo anno. In questa, essendosi data piena approvazione e conferito efficacia alle cose compiute dal Pole, così si prescrive a proposito delle ordinazioni: "... coloro che sono stati promossi agli ordini ecclesiastici ... da altri e non invece da un vescovo ordinato secondo il rito e il diritto, sono tenuti a ricevere di nuovo ... gli stessi ordini". Quali poi fossero tali vescovi, "ordinati non secondo il rito e il diritto", lo avevano indicato già a sufficienza i precedenti documenti, e le facoltà usate dal legato al riguardo: senza dubbio coloro che fossero stati promossi all'episcopato, come agli altri ordini, "senza che fosse osservata la forma consueta della chiesa, o senza che fosse osservata la forma e l'intenzione della chiesa", come scriveva lo stesso legato al vescovo di Norwick. Questi altri poi erano certamente quelli promossi secondo la nuova formula rituale; ad esaminare la quale si erano attentamente impegnati i cardinali prescelti. E non bisogna tralasciare un passo della stessa lettera del pontefice, del tutto congruente al problema; dove, con gli altri bisognosi del beneficio della dispensa, vengono elencati quelli "che avevano ottenuto sia gli ordini che i benefici ecclesiastici in modo nullo e di fatto". Avere ottenuto gli ordini "in modo nullo" è la stessa cosa che con un atto invalido e con effetto nullo, cioè "non validamente", come chiarisce lo stesso significato di quella parola e il modo consueto di parlare; soprattutto quando è affermata la stessa cosa in ugual modo degli ordini e dei "benefici ecclesiastici", che secondo precisi istituti dei sacri canoni erano manifestamente nulli, perché attribuiti con un vizio invalidante. A questo si aggiunge che, essendo certuni nel dubbio su chi potesse, secondo la mente del pontefice, dirsi ed essere realmente vescovo, "ordinato secondo il rito e il diritto", questi, non molto tempo dopo, il giorno 30 ottobre, fece seguire un'altra lettera, in forma di breve e disse: "Noi, per togliere tale incertezza, e volendo adeguatamente provvedere alla serenità di coscienza di coloro che durante lo scisma furono promossi agli ordini, esprimendo più chiaramente il pensiero e l'intenzione che abbiamo avuto nella Nostra lettera, dichiariamo che solo quei vescovi e arcivescovi che furono ordinati e consacrati non nella forma della chiesa, non possono dirsi ordinati secondo il rito e il diritto". Se questa dichiarazione non avesse dovuto riferirsi appositamente alla situazione presente dell'Inghilterra, cioè al rituale edoardiano, certamente il pontefice non avrebbe fatto la nuova lettera, con cui "togliere l'incertezza e provvedere alla serenità di coscienza".

Del resto, anche il legato non comprese affatto diversamente i documenti e i comandi della sede apostolica, e ad essi ottemperò nel modo dovuto e con scrupolo: e ciò fu ugualmente fatto dalla regina Maria e dagli altri che con lei si impegnarono affinchè la religione e le istituzioni cattoliche fossero ricondotte alla precedente situazione.

Gli autorevoli comportamenti di Giulio III e di Paolo IV che abbiamo richiamato, mostrano chiaramente l'inizio di quella dottrina a cui in modo costante ci si attiene da più di tre secoli, e cioè che le ordinazioni con il rito edoardiano sono ritenute invalide e nulle; a questa dottrina sono poi di ampio sostegno le molte testimonianze di ordinazioni che, anche in questa città, sono state frequentemente e incondizionatamente ripetute secondo il rito cattolico. Nell'osservanza poi di questa disciplina c'è un argomento favorevole alla tesi. Infatti, se qualcuno rimane ancora nel dubbio sul senso in cui debbano essere accolte quelle disposizioni dei pontefici, giustamente vale il detto: "la consuetudine è un'ottima interprete delle leggi". Infatti, dato che nella chiesa si è sempre ritenuto in modo fermo e stabile che la reiterazione del sacramento dell'ordine fosse contro il diritto divino, non avrebbe potuto verificarsi in nessun modo che la sede apostolica sopportasse e tollerasse tacitamente una tale consuetudine. Orbene non solo non l'ha tollerata, ma ha anche sempre valutato e sanzionato in modo univoco ogni volta che nella medesima situazione si è dovuto giudicare un qualche evento particolare. Presentiamo ora due eventi di tal genere, tra i molti che sono stati deferiti di volta in volta alla Suprema: uno nell'anno 1684, di un calvinista francese, il secondo nell'anno 1704, di Giovanni Clemente Gordon; entrambi avevano ricevuto gli ordini secondo il rituale edoardiano. Nel primo caso, dopo un'accurata indagine del problema, molti consultori misero per iscritto i loro responsi, i cosiddetti voti, e gli altri concordarono con loro in un'unica sentenza, "per l'invalidità dell'ordinazione": tenendo quindi conto soltanto dell'opportunità, piacque ai cardinali rispondere: Rinviata. Gli stessi atti poi sono stati ripetuti e riesaminati nel secondo caso: sono stati per questo richiesti nuovi voti dei consultori, si sono interrogati dottori famosi fra quelli della Sorbona e di Kilmacduagh, e non si è trascurata nessuna risorsa di più perspicace competenza nell'esaminare profondamente la cosa. E deve essere tenuto presente che, anche se lo stesso Gordon, di cui si trattava, come pure alcuni consultori, abbiano addotto anche quella ordinazione, come si riteneva, di Parker fra le cause di rivendicazione "della nullità", tuttavia, nella sentenza che doveva essere promulgata, quella causa è stata totalmente trascurata, come palesano documenti di fede certa, e nessun'altra ragione è stata considerata se non "il difetto di forma e di intenzione". Riguardo poi a questa forma, affinchè il giudizio fosse più completo e più sicuro, si era fatto in modo di avere davanti un esemplare dell'Ordinale anglicano; e anche con questo sono state confrontate le singole forme di ordinazione, ricavate dai vari riti degli orientali e degli occidentali. Quindi Clemente XI, con i voti favorevoli dei cardinali ai quali spettava, proprio lui personalmente, venerdì 17 aprile 1704, "decretò": "Giovanni Clemente Gordon "di nuovo e senza condizioni" sia ordinato a tutti gli ordini sacri e particolarmente al presbiterato, e poiché non aveva ricevuto la confermazione, riceva per primo il sacramento della confermazione". La sentenza, e questo deve assolutamente essere tenuto presente, non attribuì nessuna importanza alla mancanza "di consegna degli strumenti": in quel caso infatti, sarebbe stato prescritto secondo la consuetudine che fosse disposta una ordinazione "sotto condizione". Si deve poi soprattutto considerare che la medesima sentenza del pontefice si riferisce in modo generale a tutte le ordinazioni degli anglicani. Anche se ha riguardato una situazione particolare, tuttavia non ha preso le mosse da una qualche ragione particolare, ma da "un vizio di forma", vizio dal quale sono colpite tutte quelle ordinazioni: al punto che, tutte le volte che in seguito si è dovuto decidere in situazioni simili, sempre ci si è riferiti al medesimo decreto di Clemente XI.

Stando così le cose, non c'è nessuno che non veda come la controversia oggi suscitata sia già stata definita da molto tempo dalla sede apostolica: senza conoscere quei documenti in modo adeguato, come sarebbe stato necessario, è accaduto forse che un qualche scrittore cattolico non abbia dubitato di poter discutere liberamente al riguardo. Però, dato che, come abbiamo dichiarato all'inizio, non c'è nulla per Noi di più caro e gradito che poter essere utili con la più grande indulgenza e carità agli uomini rettamente disposti, abbiamo ordinato di indagare di nuovo con la massima cura nell'Ordinale anglicano, che è il fondamento di tutta la causa.

Nel rito di conferimento e di amministrazione di qualsiasi sacramento, si distingue giustamente fra la parte "cerimoniale" e la parte "essenziale", che si è soliti chiamare "materia e forma". Tutti sanno che i sacramenti della nuova legge, in quanto segni sensibili ed efficaci della grazia invisibile, debbono significare la grazia che producono, e produrre la grazia che significano. Questa significazione, anche se deve essere contenuta in tutto il rito essenziale, nella materia cioè e nella forma, appartiene però particolarmente alla forma, dato che la materia è parte di per sé non determinata, che per mezzo di quella viene determinata. E questo, in modo ancora più esplicito, appare nel sacramento dell'ordine, la materia del cui conferimento, quale si manifesta in questo luogo, è l'imposizione delle mani, che di per sé poi non significa nulla di definito, e viene usata ugualmente per tali ordini e per la confermazione.

Ora poi, le parole che fino a questi ultimi tempi vengono ovunque usate dagli anglicani come forma propria dell'ordinazione presbiterale, e cioè: "ricevi lo Spirito Santo", non significano affatto in modo determinato l'ordine del sacerdozio, o la sua grazia e potestà, che in particolare è la potestà di "consacrare e di offrire il vero corpo e sangue del Signore" (Denzinger 1771), con quel sacrifìcio che non è "una pura commemorazione del sacrificio compiuto sulla croce" (Denzinger 1753). Tale forma poi è stata arricchita più tardi con le parole: "per la funzione e il compito di presbitero". Ma questo dimostra piuttosto che gli anglicani hanno visto loro stessi che quella prima forma era imperfetta e non idonea alla situazione.

La stessa aggiunta però, se anche fosse in grado di apportare alla forma il legittimo significato, è stata introdotta troppo tardi, quando ormai era trascorso un secolo dalla ricezione dell'Ordinale edoardiano, e quando proprio per questo, essendosi estinta la gerarchia, la potestà di ordinazione era ormai nulla. Inutilmente poi ultimamente si è cercato un aiuto alla causa dalle altre preghiere dell'Ordinale. Infatti, anche tralasciando tutto ciò che nel rito anglicano le dimostri insufficienti allo scopo, valga solo questo argomento fra tutti: dalle stesse è stato tolto di proposito tutto ciò che nel rito cattolico designa chiaramente la dignità e le funzioni del sacerdozio. Non può dunque essere adatta e sufficiente al sacramento quella forma che passa sotto silenzio quello che dovrebbe propriamente significare.

Le cose stanno allo stesso modo per quanto riguarda la consacrazione episcopale. Infatti, alla formula "ricevi lo Spirito Santo", non solo sono state aggiunte troppo tardi le parole "per la funzione e il compito di vescovo", ma anche riguardo alle medesime, come subito diremo, si deve giudicare altrimenti che nel rito cattolico. E non aiuta certo la causa il richiamare la preghiera del prefazio "Onnipotente Dio", dal momento che è ugualmente priva delle parole che dichiarano "il sommo sacerdozio". In verità, non giova a nulla a questo proposito, esaminare se l'episcopato sia un completamento del sacerdozio, o un ordine distinto da quello; o se conferito, come si dice, "per salto", cioè ad un uomo che non sia sacerdote, abbia effetto oppure no. Ma lo stesso [episcopato] senza dubbio appartiene con assoluta verità al sacramento dell'ordine, secondo l'istituzione di Cristo, ed è sacerdozio di grado supremo; questo appunto, dalla voce dei santi padri e dalla nostra consuetudine rituale, è dichiarato "sommo sacerdozio, pienezza del sacro ministero". Dal momento che il sacramento dell'ordine e il vero sacerdozio di Cristo è stato totalmente eliminato dal rito anglicano, e che nella consacrazione episcopale del medesimo rito in nessun modo è conferito il sacerdozio, proprio da questo consegue che anche l'episcopato non può essere in alcun modo veramente e giustamente conferito; e questo tanto più perché tra i primi doveri dell'episcopato c'è appunto quello di ordinare i ministri per la santa eucaristia e il sacrificio.

Tuttavia, per la retta e piena valutazione dell'Ordinale anglicano, oltre a ciò che è stato osservato su alcune sue parti, nulla vale sicuramente quanto il considerare attentamente in quali circostanze sia stato composto e pubblicamente costituito. Sarebbe lungo enumerare le singole cose, e non è necessario: la storia di quel tempo infatti, dice abbastanza chiaramente quali fossero i sentimenti degli autori dell'Ordinale nei confronti della chiesa cattolica, quali fautori si associassero dalle sette eterodosse, dove infine dirigessero i loro progetti. Ben sapendo infatti quale vincolo esista fra la fede e il culto, fra "la legge del credere e la legge del pregare", con il pretesto di reintegrare la sua forma primitiva, hanno alterato in molti modi l'ordinamento della liturgia secondo gli errori dei novatori. Per questo, in tutto l'Ordinale, non solo non c'è nessuna chiara menzione del sacrificio, della consacrazione e della potestà del sacerdote di consacrare e di offrire il sacrificio; ma anzi, cosa di cui sopra ci siamo occupati, sono state deliberatamente eliminate e distrutte tutte le tracce di queste cose che fossero rimaste nelle preghiere non completamente rifiutate del rito cattolico. Così si manifesta da sé il nativo carattere e lo spirito, come si dice, dell'Ordinale. Di qui poi, avendo portato con sé l'errore fin dall'inizio, se non ha potuto avere in nessun modo validità nella pratica delle ordinazioni, neppure in futuro, con il passare del tempo, essendo rimasto il medesimo, potrà avere valore. Ed hanno agito inutilmente quelli che, fin dai tempi di Carlo I, hanno cercato di introdurre qualcosa del sacrificio e del sacerdozio, avendo fatto qualche aggiunta all'Ordinale; e ugualmente si dà da fare inutilmente quella parte non certo molto grande di anglicani costituitasi in tempi recenti, che ritiene che lo stesso Ordinale possa essere compreso e ricondotto ad un significato sano e retto. Inutili, noi diciamo, sono stati e sono questi tentativi: e ciò anche per questo motivo, perché, se alcune parole dell'Ordinale anglicano, come ora si trova, si presentano in modo ambiguo, non possono assumere il medesimo senso che hanno nel rito cattolico. Infatti, come abbiamo visto, una volta cambiato il rito con cui veramente si è negato o corrotto il sacramento dell'Ordine, e dal quale è stato ripudiato qualsiasi concetto di consacrazione e di sacrificio, non ha più nessuna consistenza il "Ricevi lo Spirito Santo", Spirito che viene infuso nell'anima con la grazia del sacramento; e non hanno alcuna consistenza le parole "per la funzione e il compito di presbitero" o "di vescovo", e quelle simili, che restano nomi senza la realtà che Cristo ha istituito.

Moltissimi fra gli stessi anglicani, interpreti più fedeli dell'Ordinale, hanno ben conosciuto la forza di tale argomento; e questa apertamente oppongono a coloro che interpretando in modo nuovo lo stesso [Ordinale], con vana speranza attribuiscono agli ordini con esso conferiti il valore e la forza che non hanno. Con questo medesimo argomento cade anche l'opinione di coloro che dicono che come legittima forma dell'ordine possa essere sufficiente la preghiera "Onnipotente Dio, largitore di tutti i beni", che si trova all'inizio dell'azione rituale; anche se forse potrebbe essere ritenuta sufficiente in un qualche rito cattolico che la chiesa avesse approvato. Con questo intimo "vizio di forma", dunque, è congiunto un "vizio dell'intenzione", che il sacramento, per poter essere, richiede in modo ugualmente necessario. Riguardo alla disposizione o intenzione, essendo di per sé qualcosa di inferiore, la chiesa non giudica; ma dal momento che si manifesta all'esterno, deve giudicarla. Ora poi, quando qualcuno per compiere o conferire un sacramento, ha adoperato seriamente e giustamente la materia e la forma dovute, proprio per questo si ritiene che egli abbia inteso certamente fare ciò che fa la chiesa. Su questo principio si fonda la dottrina che tiene per fermo che è veramente un sacramento anche quello che è compiuto mediante il ministero di un eretico o di un non battezzato, purché con il rito cattolico. Al contrario, se il rito viene cambiato per introdurne un altro non approvato dalla chiesa, e per respingere ciò che fa la chiesa e che appartiene alla natura del sacramento secondo l'intenzione di Cristo, allora è chiaro che manca non solo l'intenzione necessaria al sacramento, ma che c'è anzi una intenzione contraria e opposta al sacramento.

Tutte queste cose a lungo e ripetutamente le abbiamo considerate fra Noi e coi Nostri venerabili fratelli giudici nella Suprema, l'assemblea dei quali Ci è piaciuto convocare presso di Noi in modo straordinario il venerdì 16 luglio, nella commemorazione di Maria, nostra Signora del Carmelo. Costoro concordemente hanno convenuto che la causa proposta già da tempo era stata conosciuta e giudicata dalla sede apostolica e che, istruita e trattata poi di nuovo la sua discussione, era emerso nel modo più chiaro con quale forza di giustizia e di sapienza [la sede apostolica] aveva deciso l'intera problematica. Abbiamo tuttavia ritenuto che la cosa migliore da farsi fosse il non pronunciare subito una sentenza, per meglio valutare l'utilità e il vantaggio di una nuova dichiarazione sul medesimo argomento in virtù della Nostra autorità, e per implorare supplici una più copiosa abbondanza di luce divina. Avendo poi Noi considerato che lo stesso capitolo dottrinale, anche se giustamente già definito, è stato da certuni rimesso in discussione, qualunque sia poi il motivo di questa nuova discussione; e che da questa situazione avrebbe potuto nascere facilmente un pericoloso errore per i non pochi che pensano di trovare il sacramento dell'Ordine e i suoi frutti dove invece non ci sono. Ci è sembrato bene nel Signore di rendere pubblica la Nostra sentenza.

Pertanto, approvando in modo globale tutti i decreti dei Nostri predecessori su questo problema, e confermandoli e rinnovandoli pienamente, in forza della Nostra autorità, di nostra iniziativa, per sicura conoscenza. Noi dichiariamo e proclamiamo che le ordinazioni compiute con il rito anglicano sono state del tutto invalide e sono assolutamente nulle.

Rimane questo: con lo stesso nome e con lo stesso animo del "grande pastore" con cui ci siamo adoperati per dimostrare la verità assoluta di una realtà così importante, vogliamo dare coraggio a coloro che con volontà sincera desiderano e ricercano i benefici degli ordini e della gerarchia. Forse fino ad ora, pur ricercando l'ardore della cristiana virtù, riflettendo più devotamente sulle divine Scritture, raddoppiando le pie preghiere, si sono tuttavia arrestati, incerti e inquieti, di fronte alla voce di Cristo che già da tempo esorta interiormente. Vedono già esattamente che Colui che è buono li invita e li vuole. Se ritornano al suo unico ovile conseguiranno veramente sia i benefici richiesti, sia i rimedi della salvezza che ne conseguono, e di cui egli stesso ha fatto ministra la chiesa, quasi custode perpetua e amministratrice della sua redenzione fra le genti. Allora veramente "attingeranno l'acqua con gioia dalle fonti del Salvatore", i suoi meravigliosi sacramenti; da questi le anime fedeli, rimessi veramente i peccati, sono restituite all'amicizia di Dio, sono nutrite e rafforzate con il pane celeste, e con gli aiuti più grandi pervengono al raggiungimento della vita eterna. Assetati realmente di tali beni, "il Dio della pace, il Dio di ogni consolazione", voglia benigno con questi ricolmarli e appagarli. Vogliamo poi che la Nostra esortazione e i Nostri desideri riguardino soprattutto coloro che sono considerati ministri della religione nelle loro comunità. Gli uomini che per l'ufficio stesso sono superiori in dottrina e autorità, e ai quali senza dubbio sta a cuore la gloria divina e la salvezza delle anime, vogliano mostrarsi particolarmente alacri e obbedire a Dio che chiama, e dare di sé un chiarissimo esempio.

Certamente la madre chiesa li accoglierà con gioia specialissima e li abbraccerà con ogni bontà e con ogni cura, perché una più generosa forza d'animo li ha ricondotti al suo seno attraverso ardue difficoltà. Per tale forza, è impossibile dire quale lode sia loro riservata nelle assemblee dei fratelli per l'orbe cattolico, quale speranza e fiducia davanti a Cristo giudice, quali premi da lui nel regno celeste! Noi poi, per quanto sarà possibile, con ogni mezzo, non cesseremo di favorire la loro riconciliazione con la chiesa; dalla quale e i singoli e gli ordini, cosa che desideriamo con forza, possono prendere molto per imitarla. Frattanto preghiamo tutti e supplichiamo per le viscere di misericordia del nostro Dio affinchè cerchino fedelmente di assecondare l'abbondante flusso della verità e della grazia divina.

Noi poi decretiamo che la presente lettera, con tutte le cose in essa contenute, non potrà mai in nessun tempo essere censurata o impugnata per vizio di surrezione o di orrezione o di intenzione Nostra, o per un qualsiasi altro difetto; ma che sarà ed è sempre valida e in vigore, e che deve essere osservata infallibilmente da tutti, di qualsiasi grado e onore, nel giudizio e fuori; dichiarando anche invalido e nullo se mai capitasse che fosse portato contro di essa un attacco, consapevolmente o inconsapevolmente, da chiunque e con qualsiasi autorità o pretesto, nonostante qualsiasi cosa contraria.

Vogliamo poi che alle copie di questa lettera, anche stampate, sottoscritte però dalla mano di un notaio e munite del sigillo da un uomo costituito in dignità ecclesiastica, si debba la medesima fiducia che si avrebbe alla manifestazione della Nostra volontà mediante l'ostensione di questa presente.

Roma, presso San Pietro, 13 settembre dell'anno dell'incarnazione del Signore 1896, anno XIX del Nostro pontificato.


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