La
"parità scolastica" nella Riforma BerlinguerIl Ministro della Pubblica Istruzione, dell'Università e della Ricerca Scientifica, on. Luigi Berlinguer, si appresta a presentare al Consiglio dei Ministri il Disegno di Legge sulla cosiddetta "parità", ossia sulle norme che regoleranno le attività e gli obiettivi degli istituti scolastici non statali di ogni ordine e grado, dalle scuole materne all'Università. La materia é stata oggetto di controversie - spesso molto accese - tra cattolici, liberali e laici dall'Assemblea Costituente del 1946 (1), se non già dalla c.d. "Legge Casati" del 1859 o dalle c.d. "Legge e Riforma Coppino", rispettivamente del 1877 e 1879 (2).
Relativamente al prossimo dibattito politico, l'Ulivo ha apertamente affrontato il problema - secondo un metodo praticato per tutte le "tessere" che vanno a comporre il "mosaico" costituito dalla Riforma - con un'apposita Commissione che, il 10 marzo del corrente anno, ha reso pubblico un documento quadro (
3). Ebbene, al di là delle varie e controverse dichiarazioni rilasciate dal Ministro ai mass media, anche all'interno di tale Commissione la discussione ha assunto toni incandescenti, sino alle clamorose dimissioni dalla stessa della Prof.ssa Luisa La Malfa (4). Ai fatti interni alla Commissione, occorre poi aggiungere il forte dissenso manifestato - da un lato - dall'ultimo esponente storico del gramscismo pedagogico, il prof. Mario Alighiero Manacorda (5), e - dall'altro - dal cattolico padre Francesco Riboldi (6) e di esponenti minori del PPI (7).Insomma, la storia ormai secolare della "battaglia della parità" insegna che - quando si affronta questo tema - ci si trova di fronte a inevitabili rotture, capaci di rimettere in discussione anche le alleanze politiche più solide. E' perciò opportuna una maggiore riflessione sul perché, quando si parla di parità, si sia sempre "costretti a litigare".
La risposta cui solitamente ci si trova di fronte, suona più o meno così: "La Chiesa Cattolica, che ha come missione l'insegnamento della sua dottrina a tutte le genti, non può accettare controlli e limitazioni che portino a non operare in piena libertà. Perciò, ogni qualvolta tale libertà é minacciata, essa esercita tutta la sua influenza sugli uomini politici e le istituzioni".
Se però fosse questa l'unica ragione del dissenso, non si comprenderebbe il perché degli innumerevoli cedimenti dei cosiddetti politici cattolici - a cominciare da quelli di Giuseppe Allievo nel 1854 e di Aldo Moro e Giuseppe Dossetti nel 1946 (
8) -, e l'intransigenza manifestata invece da parte di esponenti politici laici, come ad esempio il liberale Luigi Einaudi (9) o, più recentemente, sul piano culturale, dal prof. Ernesto Galli della Loggia (10). Ebbene, mentre le prese di posizione dei laici allontanano immagini di scuole confessionali gestite da tenebrosi inquisitori e quelle dei cattolici rendono improbabile la diffusione di istituti solo per yuppies rampanti, bisogna chiedersi cosa effettivamente si nasconda dietro al problema della parità.La questione ha implicazioni politiche tutt'altro che scontate, perché relative al ruolo che lo Stato deve tenere nei confronti della società. Infatti, l'atteggiamento con cui lo Stato si pone nei confronti delle entità che - anche solo potenzialmente - tramandano una propria cultura, rivela le sue intenzioni nei confronti di tutta la società: se il potere politico - anziché essere sussidiario alla società - vuole costruire un tipo d'uomo funzionale ai suoi fini, deve totalitariamente controllare anche il potere culturale. Purtroppo, i fatti di questi giorni confermano questa seconda ipotesi.
---
Come è già stato esposto su queste colonne (
11), la Riforma non ha trattato il tema della parità solo nella Commissione citata: al contrario, ne ha iniziato una sorta di accerchiamento attraverso una serie di interventi indiretti e settoriali.Presi singolarmente tali provvedimenti possono sembrare neutri, quando non addirittura utili: nulla di più opportuno della Istituzione di un Sistema Nazionale di Valutazione per livellare le diversità di trattamento tra scuole geograficamente diverse; o, ancora, che fare per assicurare adeguata formazione agli insegnanti, se non uniformarne gli studi? Ma se invece di fissarsi sui singoli tasselli si guarda all'insieme del mosaico, la visione non lascia adito a dubbi: la Riforma mira proprio al totale controllo del potere culturale da parte del potere politico, anche relativamente alle scuole libere.
La ferrea vigilanza sulle materne non statali - esercitata per giunta dal più vicino e "concorrente" Direttore Didattico statale -; l'anticipo dell'obbligo scolastico - che comporterà una diminuzione di iscrizioni per le materne che non saranno in grado di assicurare il successivo corso di studi (
12) -; il Riordino dei Cicli Scolastici - tendente ad eliminare ogni differenza formativa -; la revisione dei programmi di storia - che qualcuno ha ritenuto essere tesi a condizionare la memoria storica della nostra nazione -; la revisione degli esami di maturità - con un maggiore controllo nelle scuole libere -; l'auspicato "più efficiente" controllo sui libri di testo adottabili; l'obbligatorietà di un corso statale post lauream abilitante all'insegnamento e la contestuale abolizione degli istituti magistrali - miranti a garantire un maggiore indottrinamento dei docenti -; l'erogazione di finanziamenti solo alle Università "standardizzate"; i diversi criteri di selezione dei docenti universitari; i "controlli sulla qualità" da parte del Sistema Nazionale di Valutazione e sulle iniziative didattiche da parte del Comitato di Coordinamento e di Indirizzo: tutto, insomma, si muove nella logica di un'educazione svolta solo dal potere politico.E quanto é stato proposto dalla Commissione sulla parità conferma che si vuole "
un sistema pubblico governato da norme comuni e fondato su una convergenza culturale e sociale circa gli obiettivi formativi", dovendosi raggiungere "obiettivi e standard fissati dallo Stato".---
Le considerazioni sinora esposte non intendono minimamente sostenere che sia necessaria una sorta di anarchia nelle istituzioni educative del paese. Al contrario, una corretta applicazione del principio di sussidiarietà prevede che lo Stato - che dovrebbe avere come fine il perseguimento del bene comune - supplisca all'opera delle società minori in ciò che queste non riescono a fare autonomamente o in quanto fanno in modo insufficiente (
13).In base allo stesso principio, un punto deve però restare fermo: lo Stato non deve avere un proprio progetto educativo (
14), perché il diritto-dovere all'educazione appartiene alla famiglia e, poi, alle altre società intermedie (15) cui la persona dà vita. Da questo punto di vista é secondario il fatto che lo Stato si proclami democratico o che il suo Governo scaturisca da libere elezioni: la limitazione della libertà di educazione delle famiglie e dei centri di insegnamento non statali, prepara l'omologazione culturale che, a sua volta, é presupposto per la privazione della libertà personale e individuale tipica di ogni totalitarismo.Per questi motivi, la libertà educativa si sostanzia principalmente in due aspetti: il sostegno economico e la possibilità di perseguire il progetto educativo delle famiglie.
In tema di finanziamento, desta sospetto che, mentre ovunque si parla della inevitabile messa in discussione del Welfare State, in campo educativo si vada nella direzione diametralmente opposta, specie quando ormai tutte le statistiche concordano sul minor costo delle scuole libere. A questo proposito sembra davvero dissennato il rifiuto del cosiddetto "buono scuola" - a suo tempo proposto dal governo Berlusconi (
16) -, da parte di autorevoli esponenti del mondo cattolico (17): oltre che precludere una concreta applicazione del principio di sussidiarietà e dare la possibilità al Ministro di segnalare le divisioni nel fronte delle scuole libere, tale atteggiamento conduce all'attuale situazione, in cui, in cambio di un "piatto di lenticchie", si rischia l'omologazione culturale delle future generazioni.Ma la libertà per l'educazione non si esaurisce nel mero aiuto economico: senza una autentica libertà di obiettivi educativi non si scongiura il rischio della "
democrazia totalitaria", denunciata proprio da Giovanni Paolo II. La libertà per i diversi progetti educativi delle famiglie, tra l'altro, è l'unica via per ovviare ai problemi enunciati dalla stessa Commissione sulla parità, quando parla del "riconoscimento a pieno titolo di soggetti diversi: nell'ambito della organizzazione economica, dalla logica della economia di mercato; nell'ambito della società civile, dall'ideale di una società "aperta" sempre più permeabile al riconoscimento ed alla valorizzazione dei concetti di multietnicità e multiculturalità" (18).In questa prospettiva, un intervento della prof. Enrica Rosanna nella commissione incaricata di delineare i contenuti su cui si baserà il sapere delle future generazioni, pare denso di importanti indicazioni: "
Non è più possibile oggi parlare di programmi in termini tradizionali. In regime di autonomia ogni scuola dovrà scegliere il proprio percorso a partire dal profilo di uomo che vuol formare" (19).Lo slogan "difendiamo il futuro", diffuso in questi giorni dalle scuole libere, ammonisce a non ridurre la questione della parità a mero scontro tra cattolici e progressisti o a problema di finanziamenti: è in gioco la cultura stessa delle future generazioni.
David Botti
NOTE