La Civiltà Cattolica - Serie IV, vol. XI - 8 Agosto 1864
LA GUERRA CIVILE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE
di padre Carlo Maria Curci S.J.
La guerra civile, che ingerisce vasta ed ostinata nel Regno delle Due
Sicilie, può fornire un argomento, se altro ne fu mai, palpabile e
convincentissimo, che la superstiziosa riverenza alla volontà popolare, onde
alcuni Potentati tolsero pretesto d'intromettersi nelle faccende di altri, non è
in sustanza che una pura e pretta ipocrisia, foggiata a strumento di ambizioni
smisurate e di tirannide faziosa. Deh! Quanti consigli ufficiali! Quante
insistenza ufficiose, a fine che quella pretesa volontà popolare in questo o
quello Stato italiano fosse satisfatta! Sono appena pochi giorni, e vedemmo il
Ministro d'una grande Potenza mettere a condizione del Potere temporale del Papa
il satisfacimento di quella stessa volontà del popolo, ricantando l'eterno
ritornello delle Riforme da largirsi a sudditi, i quali o non ne sanno, o non se
ne curano od eziandio di tutta la loro volontà le detestano.
Tanto rileva ai
burbanzosi paladini delle nobili idee che a nessun popolo si rechi violenza, che
tutti camminino in quella via di progressi umanitarii, sulla quale essi si
credono avere avanzato qualsiasi altro! Ed intanto otto o nove milioni di
creature umane sono lasciati straziare, assassinare, stritolare da armi
straniere, però solamente che non vogliono accettarne l'inviso giogo, né
rassegnarsi a vedersi orbati di quella patria dignità e di quella indipendenza
di Stato autonomo, in cui la Provvidenza gli ha costituiti e da secoli li
mantiene.
Quello che i Piemontesi stanno facendo in opera di forsennata
ferocia e di eccidii truculenti vince di molto ciò che fingesi aver mai fatto o
i Russi in Polonia o gli Austriaci in Lombardia, e non si divaria gran fatto da
ciò che i Turchi fecero nella Grecia, quando l'intera Europa s'impietosì sopra
le sventura di questa. Ma delle sventure napolitane e delle sicule chi è che si
curi? La fazione piemontese ha maggiori titoli alla tolleranza europea, che non
ebbero i Sultani di Costantinopoli, quantunque non ne siano meno nefande le
opere. Alle popolazioni manomesse da una guerra di esterminio, si sta dicendo
tacitamente che si aiutino da sé; e quando pure aiuto straniero, fisico o
morale, vi dovesse intervenire, è indubitato che per ora quell'aiuto non agli
oppressi sarebbe porto, ma agli oppressori: testimonio la ricognizione del nuovo
Regno, la quale solo ai secondi potea profittare, a detrimento dei primi.
Intanto quelle popolazioni stanno mostrando al mondo che sanno aiutarsi da sé più assai efficacemente, che il bellicoso Piemonte non si pensava; e le intere legioni distrutte, ed i battaglioni disciolti, perché ricusatisi ad una lotta troppo inuguale, e i loro duci anche tra i più alti, per la stessa ragione, sommessi a consigli di guerra e puniti, e le borgate e le città e gl'interi Distretti e quasi le intere province fuggite di mano al conquistatore, che vi lasciava morti in gran numero e feriti e la propria memoria maledetta ed esecrata; tutti cotesti fatti dicono troppo chiaro in loro favella quanto sia naturale e desiderata questa unità italiana, inaugurata e mantenuta da tanto fratellevoli tenerezze.
Queste scene di eccidii, di bruciamenti e di
distruzione, che ricordano le desolata ed insanguinata Vandea, appena possono
leggersi, senza sentirsi stretto il cuore da profonda pietà, e senza che l'animo
atterrito chiegga a se stesso qual nome meriti una setta scellerata che, a nome
della fratellanza nazionale, sguinzaglia ed aizza una parte della nazione a
sterminio dell'altra, perché il sangue dei manigoldi e delle vittime sia titolo
e strumento del suo dominio.
Non può
prevedersi qual sarà l'esito di questa lotta disperata; ma se
il Regno e la Sicilia non saranno in questo primo commovimento il sepolcro dei
trionfi piemontesi, saranno a quella fazione prevalente tale spina ai fianchi, che
presto la farà pentire di avere spinto tant'oltre le folli sue ambizioni,
facendo così grosso boccone, che di necessità le si doveva attraversare nella strozza.
Intanto alcune considerazioni, intorno ad un fatto sì
grave e sì fecondo, saranno utilissime a sempre meglio conoscere gli uomini ed i
principio che più influirono nei presenti scompigli della misera Italia;
soprattutto ad intendere che valga nel gergo moderno la protezione e la tutela
della volontà popolare. Con sotto agli occhi il già sì fiorente Regno di Napoli,
messo a sangue ed a fuoco dal Piemonte, solo perché non vuol divenire provincia
piemontese, le parole di qualche Ministro britannico o di qualche diplomatico di
altra Potenza, a favore delle volontà popolari dei Ducati, esempligrazia, o
delle Romagne, dovranno oggimai accogliersi col sorriso incredulo, onde
ascolterebbesi l'avaro persuadere l'elemosina.
E prima di tutto quanta melensaggine ci volle per credere, quanta
ipocrisia per mostrare di credere, che cinque Stati indipendenti ed autonomi volessero orbarsi
da loro medesimi della propria indipendenza ed autonomia, affine di
diventare province di un altro, che non vi avea altro titolo salvo la
smisurata ambizione del volerlo e l'astuzia più che volpina del procurarlo? Che popoli aspirino a stare
e far da sé, staccandosi da grandi corpi politici di cui
sono parte, è cosa non rara, e se ne ha innanzi l'esempio
nei conati rivoltosi dell'Ungheria, e nella risoluzione che gli Stati meriggiani
della Confederazione americana stan mantenendo colle armi, di separarsi
dai boreali.
Ma che uno Stato indipendente con proprio Principe, con propria dinastia
regnante, con proprie leggi ed istituzioni e consuetudini, e pel caso degli
Stati italiani possiamo aggiungere con propria storia anche splendida, voglia
rinunziare a tutto questo per diventare parte più o meno cospicua, ma parte
sempre di un tutto non ancora costituito, è cosa tanto ripugnante alle umane
propensioni che per poco non dovria dirsi moralmente impossibile.
Certo noi
non sappiamo se un tal fatto abbia riscontro di esempio nella storia: ma è
indubitato che per gli Stati italiani non fu, non potè essere; e, per vane
ragioni, meno di qualunque altro ciò era possibile pel Regno delle Due Sicilie.
Il concetto unitario, essendo di fresca data tra noi, siccome quello che, a
confessione dei suoi più caldi propugnatori, germinò appena sugl'inizi del
corrente secolo in alcuni cervelli patriottici, non ebbe tempo, non che di far
presa nelle moltitudini, neppure di entrare nelle loro menti.
Gran cosa fu
se, vagheggiato da qualche politico o statuale speculativo, potè quel concetto
essere messo a partito nelle discussioni private o nei libri; ed in quelle ed in
questi i più savii ed i più famosi rigettarono senza più quell'idea, come
innaturale ed impossibile, quand'anche non vi fossero stati altri motivi da
rendesse eziandio iniqua e violenta l'attuazione.
Dall'altra parte il decoro
ed i vantaggi del fare Stato da sé essendo pratici, vicini, sperimentati, e
quelli che si promettono dalla grande unità non si mostrando che lontani,
incerti ed accessibili solo a certe menti comprese dalla grandezza nazionale un
poco all'inglese, un poco alla pagana (che forse è tutt'uno); è indubitato che
per le moltitudini non potea avere alcuna attrattiva questa seconda maniera di
essere Politico, laddove quella prima ne avea moltissime e prepotenti.
Che
se oltre a ciò si consideri come l'aspirazione alla unità italiana si è cangiata
nel fatto in conquista piemontese, s'intenderà agevolmente stranissima e
ripugnante ipotesi che è quella, per la quale si è voluto supporre che la
Toscana, gli Stati della Chiesa, i due Ducati e le stesse Due Sicilie volessero
cessare di essere Stati, per ottenere l'insigne privilegio di essere conquistate
colle armi dal Piemonte, e poscia di essere governate da esso con quel
dispotismo e con quel disprezzo, onde l'Austria non sognò mai di governare il
Lombardo Veneto.
La quale impossibilità morale di quel voto, attribuito gratuitamente agli
Stati italiani, era a cento tanti più manifesta pel Regno delle Due Sicilie,
dove appena sariasi trovato qualche rarissimo che sommessamente osasse mormorare
quella proposta, la quale all'universale delle popolazioni sarebbe paruta
oltraggiosa e poco meno che proposta di suicidio. Il volersi sommettere ad
altrui od anche solo incorporarsi come parte di un tutto, è agli uomini
individui non meno che agli Stati tanto più ripugnante, quanto quelli e questi
sono più grandi, più sufficienti a sé stessi in tutto che si attiene alla vita
privata, alla civile ed alla politica.
Ora un Regno di presso a dieci
milioni di anime, forse la prima tra le minori Potenze, e per feracità di suoli,
per frequenza di commerci, per isvegliatezza d'ingegno privilegiato quanto forse
nessun altro paese di questo mondo, con esercito forte, con navilio
fornitissimo, colle private fortune in fiore, con erario non pur senza debiti,
ma ricco di parecchi milioni di sopravanzo, con fondi pubblicai più accreditati,
e però i più cerchi tra quanti ne fossero in Europa, con istituzioni governative
e con leggi che fonnarono l'ammirazione di quanti le vollero studiare, con
propria e splendida dinastia regnante, con un giovane Re, fiore di virtù e di
religione, frescamente montato sul trono dei padri suoi, ed alla cui bella
riputazione la calunnia non avea avuto il tempo di avventare il velenoso suo
dente; una tale Monarchia solo i pazzi avrebbero potuto pensare che sariasi
voluta distruggere da sé, per darsi, senza patti o condizione di sorta, al
piccolo Piemonte, che ne avrebbe fatto ciò che meglio gli sarebbe stato in
grado.
Ed il Piemonte volle farne una provincia, niente altro che una
piccoletta sua provincia di dieci milioni di sudditi, o piuttosto un gruppo di
ventidue province, senza che Napoli o Palermo potessero presumere di valere
alcuna cosa di più che Campobasso, Potenza o Caltanissetta. Quelle due contrade,
nei tempi della meravigliosa ed unica grandezza spagnuola, portarono con non
piccola impazienza la suggezione politica ai Re cattolici, la quale pure era
condizione di mezzo mondo, e veniva lenita dal sentimento della giustizia, in
cui quella suggezione si fondava, dalla qualificazione abbastanza splendida di
Vicereami e dal mantenimento delle istituzioni napolitane e sicule, cui i due
popoli vollero ed ottennero comunemente mantenute. Nondimeno quella non parve
condizione che potesse durare lungamente; e Carlo 111 dovette venire alla
ristorazione del trono di Roberto e di Ruggiero, fondando o piuttosto rinnovando
la Monarchia delle Due Sicilie in uno dei due minori suoi figliuoli.
Or si consideri, se popoli, ai quali non parea tollerabile la condizione di Vicereami a rispetto della Spagna nell'auge della sua grandezza, abbiamo potuto volere, a vero studio e ad occhi veggenti, diventare lontane province del piccolo Piemonte! E chi vide mai farsi da senno società del ricco col povero, del grande col piccolo, e quasi vorremmo aggiungere del savio col farnetico, per modo che il grande, il ricco ed il savio si voglia mettere anima e corpo alla mercé del piccolo, del povero e del farnetico? Ora niente meno di questo è uopo che s'ingoi chiunque vuol credere possibile che le Due Sicilie abbiano voluto annettersi o più veramente sommettersi, senza saper perché, al Piemonte.
Dirassi nondimeno che, ad onta di tutte coteste
ripugnanze speculative, in pratica la cosa fu fatta; e per gli adoratori del
successo e dei fatti compiuti non ci vuole altro, perché sia onestata
l'annessione però solamente che si riuscì a compierla. Ma trattandosi di un
mutamento, il quale, in sentenza dei suoi medesimi autori, non potea avere altro
titolo di legittimità che la volontà popolare, è cosa al tutto assurda e
ridicola che, in vece di argomenti che mostrino la realtà di quella volontà
medesima, o che almeno confutino le ripugnanze morali che se ne ragionano
apriori, si rechi il riuscimento, quasi fosse cosa impossibile ed inaudita che
quella volontà sia tradita ed oppressa, e quasi l'essere riusciti a spogliare od
uccidere altrui dimostri che quegli fu di sua piena volontà spogliato ed
ucciso.
Ora se per gli altri Stati italiani i famosi plebisciti
furono un ludibrio parte ridicolo, parte atroce, per le Due Sicilie neppure
quelle apparenze vi furono; ed un bel giorno due splendide Metropoli e
ventidue province popolosissime si trovarono diventate colonie e possedimenti del Re di Sardegna,
il quale vi avea meno diritto che non ai Regni di Cipro e
di Gerusalemme, dai quali pure s'intitola.
Le turpitudini, le nefandezze, le tradizioni, onde si venne a quel subito ed
inopinato rivolgimento, ignorate da prima o sapute solo per metà da quei tanti
milioni che n'erano state vittima, come furono loro rivelate nella schifosa
nudità del vero, servirono a rendere più inviso un giogo imposto loro ad opera
di tante nequizie ed al quale si trovarono sommessi prima ancora che potessero
deliberare intorno alla convenienza di accettarlo. Che altro dunque poteano
aspettarsi se non la tirannide, da un dominio usurpato con mezzi tanto
scellerati e turpi?
Fu cardine dell'immenso disastro la compra defezione di
alquanti duci supremi, ai quali né la coscienza, né la patria carità, né la
infamia, onde sarebbero stati coperti, non bastarono ad atterrirli dal mettere a
prezzo il proprio onore, la giurata fede al proprio Principe e la dignità e la
pace ed o gni bene civile del proprio paese.
A quei traditori vituperosi fu
spesso da molti minacciato il severo giudizio della storia; ma, quella non è
genìa che soglia curarsi gran fatto dei giudizii della storia. Che se allo
stesso modo non si curano del giudizio di Dio, non è lontana l'ora che, a marcio
loro dispetto, se ne dovranno curare; quando ad essi sarà chiesta ragione delle
sventura, delle lagrime e del sangue di un popolo inconsapevole, per opera loro
precipitato in tutti gli orrori della guerra civile e dell'anarchia.
Bastò
la loro fellonia per rendere o dubbia od infruttuosa la lealtà e la valentia di
un esercito che da sbandato sta mostrando quello che avria potuto fare guidato
da capi meno imbecilli o meno iniqui; e, mancata così ogni forza materiale al
giovane e nuovo Monarca, gli uomini, onde la fazione avealo circuito, o non
seppero o non vollero valersi dei presidii morali, che pure si poteano trovare
amplissimi e poderosi nell'affezione e nella fedeltà di popoli, che ad un cenno
avrebbero saputo troncare il corso alla invasione straniera più agevolmente
assai che ora non riescono a disfarla.
Abbandonata la Capitale innanzi ad un nemico che non si era ancora mostrato,
acciocché le province si dicessero acquistate al Piemonte, non si volle altro
che cangiare la bandiera, sostituire un nome ad un altro nella intitolazione dei
pubblici atti, ed insediare nei seggi precipui della pubblica amministrazione
uomini o venduti al Piemonte o piemontesi: nell'uno o nell'altro caso
cospiratori di professione.
Ora una dedizione di dieci milioni di umane
creature, manipolata in un paio di giorni da un pugno di traditori nella
metropoli, e la quale per tanti capi ripugnava agl'interessi ed alle
inclinazioni di quelle contrade, come era mai possibile vederla accettata da
quei milioni stessi, i quali si trovarono ceduti ad un padrone straniero con
maggiore avventatezza e non curanza, che se si fosse trattato di uno stupido
armento che acquista con solo averne sborsato il prezzo?
Era dunque da
aspettarsi che, dileguatosi il passaggero sgomento della sorpresa e ravvisate le
cose pel loro verso, quelle popolazioni altiere e rubeste ripugnassero
fieramente ad una dominazione, a cui la ribaldaglia fangosa e le codarde
assentazioni della metropoli avevano fatto vista di plaudire od inchinarsi,
secondo che plausi od inchini s'imponevano colle minacce o si comperavano colla
pecunia.
Tuttavolta potria pensarsi che la ripugnanza delle province al dominio
usurpato avrebbe indugiato a scoppiare in aperta violenza o saria scoppiata meno
furiosa, quando il Piemonte avesse saputo o potuto usare un briciolo di quella
temperanza e discrezione, delle quali esso nella sua minore fortuna si volle far
maestro agli altri Stati italiani.
Tant'è! I veri popoli sono più pazienti
di quello che comunemente non credesi; e perché la gente tranquilla e morigerata
e cristiana della campagna, lontana dalle corruzioni delle grandi città, dia di
piglio alle armi e si levi in fascio ad una riscossa ancora feroce, pugnando con
quella ostinata risolutezza, onde si pugna pro aris etfocis, è uopo che siano
messi addirittura colle spalle al muro; ed il Piemonte può rallegrarsi di
averlivi messi.
In altri termini vogliamo dire che, se esso non avesse
urtato bruscamente tutte le più delicate suscettività dei popoli delle Due
Sicilíe; se non ne avesse manomessi, nel brieve giro di pochi mesi, tutti i più
vitali interessi; se non ne avesse insultate le credenze e vilipesi i costumi
forse quei popoli si sarebbero rassegnati al giogo aborrito, e non sarebbero
entrati nel proposito di rivendicarsi il diritto di essere governati solo da
colui che la Provvidenza avea loro dato per governarli, e dal quale non
ricordavano avere avuto altro che pace profonda e prosperità d'ogni maniera.
In quella vece il mutamento dei Gigli borbonici nella Croce sabauda significò, per quelle infelici popolazioni, lo sperpero della pubblica fortuna, essendo in pochi mesi scomparsi dall'erario non meno di 38 milioni di ducati che v'erano in serbo, colla giunta di un debito così smisurato che appena si arriva a calcolarlo; significò la ruina dei privati interessi per la sicurezza perduta, pei commerci o distratti o arrestati, per le industrie inaridite, pei balzelli stranamente cresciuti colla dolorosissima conseguenza di un incarimento strabocchevole dell'annona; il quale nel paese dell'abbondanza riusciva tanto più intollerabile al minuto popoletto, quanto che all'ora stessa gli si assottigliavano i mezzi di campare la vita; significò la perdita di ogni ordine cittadino, di ogni tutela delle proprietà e delle persone, che pur sono i beni più elementari e quasi primordiali del vivere civile: sicché nella sola Napoli in una sola notte fur trovati per le contrade non meno di quattordici uccisi, senza che se ne potesse sapere il come e da cui; significò il trovarsi la capitale e le province abbandonate alla mercé di uomini oscuri, nuovi, la più parte stranieri, che erano scaraventati da Torino a governare paesi che appena avevano visti sulla carta geografica, senza alcuna cognizione degli uomini e delle abitudini, ed i quali a quei posti erano scelti a merito di antichi servigi fatti alla fazione; significò il rovesciamento delle leggi, delle consuetudini, delle usanze anche antichissime, in quanto tutto dovea foggiarsi da capo sul tipo portato dal piè delle Alpi dai conquistatori, i quali, come in mezzo a Beozia od a nazione d'Iloti facean man bassa su quanto suol essere ai popoli più caramente diletto. E perciocchè a quelle contrade, profondamente cattoliche, sopra qualunque altra cosa è cara la Religione con tutto ciò che le si attiene di persone sacre o di sacri istituti, più di tutto dovette riuscir loro cocente la persecuzione religiosa, alla quale il mutamento del Giglio borbonico nella Croce sabauda fu segnale. E chi basterebbe a trarre il novero delle sacrileghe ruberie, degli sbandamenti di Religiosi e di Suore, degli esilii, delle prigionie, e perfino delle uccisioni di Ecclesiastici d'ogni ordine e d'ogni grado eziandio supremo?
Ora un cumulo di tante e tanto gravi calamità, scoppiate
improvvisamente addosso a popoli, che non ha guari riposavano nel seno delle
pace, ciascuno accanto alla sua vite ed all'ombra del proprio fico, secondo la
frase biblica, un tal cumulo, diciamo, saria paruto insopportabile, quand'anche
fosse venuto da Governo indigeno, antico ed avente radici ferme e molto intime
in quei paesi.
Si consideri quindi che dovrà essere, quando quelle calamità
stesse si guardano come portate di fuori da gente straniera, sconosciuta e la
quale essi cominciarono a conoscere la prima volta dalla boria del comando,
dalla ferocia dell'opprimere, dall'avidità insaziabile del predare e dallo
spregio di quanto tra genti cristiane e civili più si riverisce e si onora.
Questi sono i veri, i precipui motivi delle così dette Reazioni che
infieriscono in Napoli e nella Sicilia; e gli eccitamenti che se ne pretendono
ordinati e mossi da non sappiamo che comitati stabiliti in Roma, in Venezia ed
altrove, sono invenzioni e menzogne che non hanno neppur l'ombra del verosimile.
Certo le affezioni dinastiche, la tenacità degli antichi ordini e le speranze
d'ogni gran bene concepite in un Principe, al quale poco tempo era bastato per
farle di sé concepire grandissime, entrano per non poco in quel terribile
commovimento, che ora agita i popoli dal Tronto fino all'estremo lembo
meridionale della Trinacria. Ma già fu detto che essi forse si sarebbero
rassegnati al giogo degli usurpatori, se la costoro o insipienza o nequizia non
gli avesse sospinti alla disperazione colla realtà di quel mal governo, di cui
essi attribuirono al Pontefice Romano ed al Re di Napoli la calunnia.
Questa, camuffata sotto gli ipocriti e filantropici compianti di una
diplomazia senza onore e senza coscienza, potè far buon giuoco nel Congresso di
Parigi, per insidiare turpemente ai troni amici e che dicevansi protetti. Ma i
popoli tranquilli e contenti non si muovevano, non zittivano; ed in un secolo di
regno di Pio IX o di Ferdinando 11 non saria stato necessario un millesimo di
quella sanguinosa repressione, di cui si è dovuto puntellare il Piemonte in sei
o sette mesi di dominio.
Proscritti senza processo a miriadi; incarcerati
per politici sospetti più che a miriadi; dei trucidati per ordine o per
connivenza della pubblica autorità non può trarsi più il novero; borgate,
villaggi e perfino intere città arse ed incenerite, e tutto questo con un
raffinamento di ferocia selvaggia che ne disgraderebbero al paragone le crudeltà
croate descritte dai nostri poeti patriottici, con questa sola differenza, che
per conto dei Croati quelle erano per nove decimi esagerazioni ed invenzioni
poetiche; per gl'ltaliani nel Regno e nella Sicilia sono schietta verità di
fatti, che attestano con quanto merito il Piemonte si arroga l'egemonia
civile della nazione rigenerata.
Ma quello che nella presente materia dee recare maggiore
maraviglia è il vedere come la fazione conquistatrice, la quale pel resto ha
pure mostrato di non difettare di avvenimento e di astuzia, non abbia capito fin
da principio che, quel contegno di alterigia sprezzante e di violenta
compressione, avrebbe distrutto con una mano ciò che si contendeva di edificare
coll'altra.
Ma noi, più che insipienza od imperizia, vediamo in questo
contegno del Piemonte, a rispetto delle Due Sicilie, quella ineluttabile e quasi
fatale necessità, in che spesso si trovano gl'iniqui, quando, per compiere o
mantenere l'opera loro, si trovano costretti a valersi di mezzi che di quella
sono la distruzione e la morte.
Quinci si origina nell'ordine pratico una
specie di circolo vizioso, non guari díssomigliante da quello che i díalettici
notano nello speculativo, quando a convincere vera una proposizione si reca un
argomento che, in quella proposizione stessa attingendo ogni sua forza
dimostrativa, non pure è incapace a convincerla, ma la distrugge.
Certo non
ci voleva grande perspicacia per capire che a dieci milioni di esseri
ragionevoli non si sottrae di punto in bianco l'autonomia di Stato politico, e
non s'impone il giogo di un dominio nuovo ed ignoto, a furia di bruciamenti, di
fucilazioni e di mitraglia: e la più volgare avvedutezza avrebbe suggerito di
carezzare, di blandire al possibile, almeno sugl'inizii, le suscettività di quei
popoli annessi alla corona sabauda, sicché essi appena si accorgessero del
mutamento, e, se si fosse potuto, pensassero di avervi guadagnato qualche cosa.
Non vi è sacrifizio che il Piemonte non avrebbe dovuto fare a questo
intento; e piuttosto che farneticare intorno a Roma, saria stato molto sottile
accorgimento tramutare dalla Dora sul Sebeto, anche solo temporaneamente, la
sede del Governo; col che si saria forse assicurato il Regno, non saria
pericolato il possesso del Piemonte e di Torino; pogniamo che ne dovessero
restare alquanto ferite le pretensioni municipali.
Ma ad ogni modo il non
dar fondo alla pubblica e privata fortuna, il lasciare la pubblica cosa in mano
ad indigeni, senza insediare troppi stranieri in uffizii anche supremi, e da
ultimo il rispettare comunque, e fosse per semplice ipocrisia, la cattolica
Religione, che in quelle contrade è parte principalissima della vita domestica e
della civile, sarebbero stati tre avvenimenti facili, naturalissimi e da saltare
agli occhi di uomini anche meno perspicaci che non sono gli statuali piemontesi,
massime quando vi sedea a capo il perspicacissimo conte Camillo.
Ma, li
vedessero o no, il certo è che essi furono nell'assoluta impossibilità di
recarli in pratica; e ciò per la qualità medesima della loro opera, la quale gli
strascinò pei capegli a fare precisamente il rovescio di quello che la più
comunale prudenza avrebbe consigliato. E così si videro da ultimo ridotti a
tutto dover commettere alla bestiale ferocia dei Cialdini e dei Pinelli, il cui
solo intervento, in opera di vasta e sanguinosa repressione popolare, bastava a
mostrare perduta moralmente innanzi all'Europa la causa della unità italiana,
con molta probabilità che quell'intervento stesso non basterebbe ad impedirne
eziandio la materiale ruina.
Della quale durissima necessità, in che si
trova la fazione piemontese, di non fare altrimenti da quel che fa nelle Due
Sicilie, fia pregio dell'opera accennare la precipua ed intima cagione, perché
meglio s'intenda la suprema nequizia dell'opera e la impossibilità, in che questa versa di pigliare mai
consistenza od acquistare durevolezza.
Salvo poche aderenze, apparecchiate di lunga mano colla
pecunia o colle promesse nella città di Napoli ed in Palermo, in tutto il resto
del vasto Reame il Piemonte, a rispetto delle moltitudini, non che nelle
simpatie, non era entrato neppure nella contezza, che pure era indispensabile al
desiderio.
Quindi avvenne che, compiutasi nel modo che tutti sanno
nella capitale l'annessione, il Governo sardo si trovò sconosciuto e solitario
in mezzo a popoli che, tenendosene in sospettosa distanza, stettero un tratto,
guardinghi e diffidenti, osservando ove andassero a parare le cose.
Esso
intanto non ebbe per sé che i reduci dagli esilii, gli usciti dalle galee, un
pugno d'illusi, le cui illusioni si dileguavano innanzi alla dolorosa realtà dei
fatti, e più di tutti tenacemente gli aderiva quella ribaldaglia vituperosa che
parteggerebbe, non che pel Piemonte, ma pel Turco, quando da questo potesse
essere licenziata ad ogni genere di ribalderie e di delitti.
Nel resto il
clero maggiore ed il minore, il secolare ed il regolare, non volle aver che fare
con un Governo che riputò scomunicato ed usurpatore; l'esercito anche sbandato
gli si dichiarò fieramente avverso, e rientrato nei proprii focolari non
aspettava che un segnale a riprendere le armi pel proprio Principe;
l'aristocrazia se ne separò quasi in fascio, ed o si chiuse nei proprii palagi,
o riparò a centinaia in Parigi, in Roma ed in altre contrade di Europa; la
numerosa falange dei pubblici ufficiali, indigeni e non deposti dai nuovi
padroni, se esternamente per domestiche necessità fe' mostra di loro aderire,
ebbe troppe ragioni di esserne stomacata, e non vedea l'ora di mostrare
all'aperto ciò che pensa e vuole; l'immensa popolazione delle campagne, per le
cagioni accennate di sopra, sospirando al ritorno dell'antico ordine di cose,
stette un tratto spettatrice quasi indolente di quel subito rivolgimento, ma
oggimai non sa più star alle mosse e si leva in armi e si ordina e combatte con
disperato ardimento.
Che più?
Quei medesimi, e non erano pochi, i quali, soprattutto
nella Metropoli e nelle città maggiori, allucinati da non so che lustre di
beatitudini mai più non viste, aveano vagheggiato o il Governo parlamentare come
arra di libertà, o l'unificazione italiana come mezzo di prosperità e di
grandezza, hanno avuto tutto l'agio di prendere dai fatti disinganni amarissimi,
ma salutari, ed oggi accetterebbero con tutti i suoi difetti, come una
benedizione del cielo, quel Governo, verso cui furono od indifferenti od ostili
per improvvido speranza di meglio; né forse minori sventure sariano bastate a
metter senno in quei cervelli. E così il Piemonte nelle Due Sicílie veggendosi
solitario, diserto, abbandonato dal fiore e dal grosso delle popolazioni, ha
dovuto afforzarsi della loro porzione putrida e cancrenosa, sotto pena di non
avere, in paese che dice suo, anima viva che parteggiasse per lui.
Or questa
porzione corrotta e vituperosa del popolo è miserabile, è affamata, né si
mantiene in fede che a prezzo di pronti contanti tratti dal pubblico erario già
esausto e dalle private fortune lasciate alla mercé loro.
Oltre a ciò essi
vorrebbero pubblici carichi, come strumento di prepotenza e fondo da smungere
pecunia; e pei minori sono comunemente fatti paghi, intantochè la polizia è
tutta in mano di certa schifosa melma, che chiamano Camorra, con bacia di tutto
fare contro i reazionari ed i sospetti di borbonismo; ma quanto ai più alti
uffizii, questi alla gente onesta e capace fan ribrezzo, non si potrebbero
commettere ai traditori dell'antico Governo, i quali, ricevutone il prezzo,
dovettero essere, come merce contaminata, buttati via; e quindi la necessità,
che si sperimenta in Torino di doversi valere di stranieri imperiti e nuovi, e
che offendono i paesani colla medesima loro qualità di stranieri.
Da ultimo,
appunto perché le aderenze piemontesi in quelle contrade sono quasi alla sola
feccia ristrette, e questa abomina tutto che si attiene a Religione ed a Chiesa,
il Governo sardo è obbligato, quando pure non lo volesse, a secondare quelle ire
sacrileghe e quel furore di persecuzione ecclesiastica, la quale si mostra, come il carattere più scolpito del nuovo ordine introdotto, per somma nequizia,
in quelle contrade.
Ed ecco chiarito quel circolo vizioso, al quale dicevamo
sopra essere gli usurpatori colà condannati dall'indole medesima della loro
opera innaturale e violenta. Essi, per mantenerla, sono trascinati col capestro
alla gola a fare proprio quello che è il mezzo più spedito per distruggerla.
Per avere aderenze e braccia che la sostengono, sono obbligati ad una
dilapidazione della pubblica fortuna e ad uno smungimento della privata, che in
men di un anno han condotto quelle già sì liete ed opulente regioni ad uno
stremo di miseri, di cui ivi la presente generazione non ha
memoria. L'impossibilità di trovare nel paese persone sperimentate e capaci
che vogliano aiutare dei loro servigi il Governo intruso, obbliga questo a
mandarvi da Torino stranieri ufficiali, i quali, nuovi degli uomini e delle
cose, appena fanno altro che arruffare via peggio la matassa, lasciando le
popolazioni altamente disgustate ed offese dal vedersi padroneggiate da gente
ignota, ed imposta ad esse da uno Stato che non è il loro.
Si aggiunga
finalmente che un riguardo, quanto che piccolissimo, alla Religione di un paese
eminentemente cattolico è al tutto impossibile ad un Governo, condannato a non
avere per sé che il rifiuto della società, in tutti gli atei e gli scredenti che
gli si rannodarono attorno, per la speranza ed a patto di sfogarne gli antichi
mal compresi rancori contro la Chiesa cattolica ed i suoi ministri, nella quale
e nei quali aborrono la condanna viva, che quella e questi sono della loro vita
inviziata ed infame.
Tra queste condizioni è naturalissima l'impossibilità, in
che vedesi il Ministro sardo, di trovare un uomo che riesca a governare uno
Stato, che pure era sì tranquillo e di sì facile contentatura governato dai suoi
legittimi Principi.
I Luogotenenti si succedono senza posa; e tutti
dalla più deliziosa dimora d'Italia, da un seggio governativo che in ampiezza
non ha l'ugual nel mondo, fuggono esterrefatti come se bruciasse colà sotto i
loro piedi la terra, e talora neppur basta loro la pazienza di aspettare il
successore; tanto tarda loro di far meno cospicuo il fiasco che pur sentono di
aver fatto.
A dir solo dei più nominati e che vi durarono più di un mese, al
Principe di Carignano non valse nulla il prestigio del nome regio; nulla al
Nigra le attrattive di simpatia, onde diceasi adorno; nulla al Ponza la valentia
nell'amministrazione, in cui è predicato maestro: e quand'anche Vittorio
Emmanuele, aderendo al consiglio datogli, secondo che si riferisce dai giornali,
da Napoleone III, fosse ito a piantare in Napoli la sua dimora, noi teniamo per
fermo che la Maestà regale non avrebbe fatto in lui pruova migliore; e presto si
saria visto obbligato a fuggire a precipizio una seconda volta dal mezzo di un
popolo, che rimembrerebbe con rinnovato desiderio la vita intemerata e la pietà
regalmente cristiana dell'esule suo Sovrano.
Che sia per ottenere il Cialdini, il quale in vece del
prestigio, della simpatia e dell'astuzia, va a comprimere il Regno sotto la
suprema ragione del ferro, non si può prevedere; ma tutti colà sono persuasi che
la causa della giustizia trionferà presso assai; anzi se ne mostra persuaso lo
stesso Piemonte, il quale, colla furia che reca nel saccheggiare Reggie, Musei
ed Arsenali, rappresenta bene il ladro che svaligia la casa incalzato alle
spalle dalla famiglia del criminale.
Pure non è
impossibile che quel feroce, usando ed abusando le forze di mezza Italia, riesca
a spegnere nel sangue le legittime e generose aspirazioni dell'altra metà, alla
quale indarno i giornali ufficiali ed ufficiosi regalano il titolo di briganti e
di ladri. Ma, oltreché quella prevalenza non potrebb'essere che passeggera, in
quanto è impossibile che duri lungamente un dominio poggiato sulla sola forza; è
grande acquisto per la causa della verità e della giustizia l'essere stata la
fazione piemontese obbligata a rompere in un tanto estremo.
Oh! I protettori
dei popoli! I paladini dell'indipendenza! Gli odiatori magnanimi di ogni
dominazione imposta colla forza! I declamatori furibondi contro l'eccidio di
Perugia ed il bombardamento di Palermo! E quale infamia potea venire loro
addosso maggiore di questa, che fare essi davvero ciò che finsero aver fatto Pio
IX e Ferdinando Il e la stessa Austria?
Se volete vedere un popolo che odia
davvero un Governo e vuol sottrarsene, non lo cercate nelle campagne della
Polonia russa, né nel Lombardo Veneto, e molto meno negli Stati della Chiesa;
cercatelo e lo troverete nelle Due Sicilie, dove le intere popolazioni si
battono coll'entusiasmo della disperazione, e si fan macellare per l'abominio
che hanno ai veri Croati della Italia. E quando fu mai che una
provincia della Lombardia o della Venezia facesse contro gli Austriaci quello che da sei
mesi stan facendo le Puglie e le Calabrie, la Capitanata, la
Terra di Lavoro, la Basilicata, il Contado di Molise, i Principati e
gli Abruzzi contro il Piemonte?
Ricordiamo le fazioni di Brescia e di Vicenza nel 1848;
ma in quelle le popolazioni indigene pigliarono poca o nessuna parte; e
l'Austria si trovò innanzi stranieri, quasi altrettanti che a Solferino ed a
Magenta. Ricordiamo i conati di Milano, di Bergamo ed eziandio delle Romagne; ma
il paragonare questi moti colle immense sollevazioni napolitane e sicule, saria
il medesimo che agguagliare gli attraimenti galvanici di una ranocchio cogli
sforzi poderosi di un uomo vivo, che si contende di frangere i proprii ceppi.
Torniamo a dire: potrebbe la forza bestiale prevalere; e la vendetta di
tanto misfatto potrebb'essere dalla divina Giustizia differita ad altro tempo e
forse ancora, ma infallibilmente, all'altro mondo. In ogni caso nondimeno
l'Europa, spettatrice indolente di tanto assassinio, avrebbe col fatto
rinunziato al nobile titolo di mantenitrice della ragione delle genti; i suoi
Sovrani ed i suoi popoli che lasciano impunemente assassinare un Sovrano ed un
popolo fratello, non potrebbero lamentarsi se loro incogliesse la stessa
sventura; e l'Italia piemontese sarebbe convinta di non avere altra attinenza coi veri popoli della Penisola, che la fratellanza
di Caino.